Investimenti e mercati finanziari dopo il referendum

Gli italiani hanno votato NO al referendum sulla riforma costituzionale del 4 dicembre.

Dal punto di vista politico, lo scenario è abbastanza complesso, tuttavia bisogna ricordare che due terzi dei deputati sono neoeletti, a cui scatta il diritto al vitalizio solo a fine 2017, e quindi sarà probabile un rimpasto, sostenuto dalla stessa maggioranza che ha legittimato Renzi a governare, con la sostituzione del leader e del governo, rimandando le nuove elezioni almeno dopo settembre del prossimo anno.

Di certo ci sarà un momento di smarrimento, poiché la nave senza il timoniere fa sempre fatica ad affrontare il mare, e in questo momento l’Italia è senza skipper.

È probabile un aumento dell’incertezza e della volatilità sui mercati finanziari, anche se le recenti elezioni americane hanno spiazzato tutte le previsioni circa la reazione negativa dei mercati. Soprattutto, per quanto riguarda i titoli bancari e i titoli di Stato Italiani, il rischio potrebbe aumentare notevolmente.

Come sempre, una buona pianificazione e una estrema attenzione a diversificare correttamente e a rendere gli investimenti efficienti ed ottimizzati, sono la migliore strategia per affrontare serenamente i mercati finanziari, in qualunque condizione si presentino.

Diversificare significa investire in settori e beni diversi, scarsamente correlati tra loro, con il fine di mantenere comunque costante il potere di acquisto del patrimonio.

I beni reali sono, per loro natura, poco correlati agli accadimenti dei mercati finanziari.

Non è detto che gli investimenti debbano essere per forza totalmente di tipo finanziario, anzi si può spaziare in molti beni reali che siano adatti alle esigenze di pianificazione, dall’oro ai terreni agricoli passando per gli oggetti d’arte. Cum grano salis.

dott. Marco Degiorgis – Consulente patrimoniale e finanziario indipendente, Studio Degiorgis

Sci no, referendum sì

Alla vigilia del voto sul referendum costituzionale del 4 dicembre, i portali Casevacanza.it e Agriturismo.it hanno condotto un’analisi congiunta sulle prenotazioni per il mese di dicembre, scoprendo come né nel fine settimana del voto né in quello dell’Immacolata gli italiani approfitteranno delle scuole chiuse per partire.

Prevale il senso civico: all’apertura della stagione sciistica gli italiani preferiranno votare al referendum.

Soltanto il 9,8% di chi partirà a dicembre lo farà nel weekend del referendum o in quello dell’Immacolata, nonostante i ponti. Il 62% di chi parte a dicembre ha preferito prenotare per il periodo di Capodanno, che si conferma il momento di altissima stagione per eccellenza.

Chi va in vacanza all’inizio di dicembre, referendum o no, ha optato per un soggiorno di durata media molto breve: 2,5 giorni che si trascorreranno soprattutto nelle città del Nord Italia (per i mercatini di Natale), o nelle città d’arte.

Per quanto riguarda gli agriturismi le località più prenotate, secondo l’analisi, sono Merano (BZ), Vigolo Vattaro (TN), Renon (BZ) e Monguelfo (BZ), tutte in Trentino Alto Adige; chi alloggerà in casa vacanza ha scelto in primis Livigno (SO), Torino, Roccaraso (AQ) e Firenze.

Referendum costituzionale: in rete vince il No

Ormai il referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre è diventato un tormentone senza fine su tutti i mezzi d’informazione. Poteva forse la rete restare fuori dalla bagarre referendaria? Naturalmente no.

Un’analisi relativa al sentiment in rete sul referendum costituzionale, realizzata da Reputation Manager, principale istituto italiano nell’analisi e misurazione della reputazione online di brand e figure di rilievo pubblico, ha rilevato che il 76,18% di commenti negativi verso il decreto legislativo proposto dal ministro Boschi. Il restante 23,55% consiste invece in commenti a favore del referendum.

L’analisi ha monitorato i contenuti sul web generati spontaneamente dagli utenti relativi al referendum costituzionale tra agosto e settembre 2016, per capire il tenore e l’orientamento del dibattito su internet fra i due schieramenti. In particolare, l’analisi ha monitorato i contenuti UGC – User Generated Content (quelli, cioè, generati dagli utenti nei diversi canali online, come ad esempio post, commenti ad articoli, blog) e sui social media (Facebook-Twitter).

La ricerca delinea anche la distribuzione dei contenuti per tipologia di canale. La maggior parte dei commenti generati dagli utenti sul referendum costituzionale si trova infatti all’interno dei siti di testate giornalistiche (36,6%), seguiti da blog (21,1%) e portali di news (19,1%).

All’interno delle conversazioni online analizzate, sono stati rilevati i protagonisti principali del dibattito costituzionale. Il protagonista assoluto delle discussioni è Matteo Renzi, che viene citato nel 54% delle conversazioni, seguito dal Movimento 5 Stelle (24%), dal Presidente Sergio Mattarella (12%) e da Massimo D’Alema (10%).

Il Premier viene criticato su molti fronti dal popolo del web. Gli utenti contestano ripetutamente la personalizzazione del voto, poi ritrattata, le false promesse utili solo per attirare voti, l’annuncio di possibili “catastrofi” nel caso in cui vincessero le ragioni del No.

Dall’analisi dei commenti che citano il M5S appare evidente che ai pentastellati gli utenti del web attribuiscano grandi capacità di mantenere un contatto diretto con i cittadini, una comunicazione chiara ed efficace, anche in questa campagna elettorale a favore del No.

I commenti che citano il Presidente della Repubblica si riferiscono soprattutto all’assenza di una sua presa di posizione chiara rispetto a questioni importanti come la denuncia del comitato per il No per la mancanza di visibilità nelle reti televisive, le dichiarazioni dell’ambasciatore americano in Italia, che secondo i sostenitori del No erano finalizzate a influenzare il voto degli italiani sul referendum costituzionale.

Per il popolo del web i motivi di fondo che spingono Massimo D’Alema a schierarsi a favore del No sono altri rispetto a quelli costituzionali, credendo che quest’appoggio al No sia solo un’altra arma per portare a termine la sua lotta intestina al partito, andando anche contro sue precedenti posizioni politiche.

Su Facebook, il 67% delle pagine che parlano del referendum costituzionale è a favore del No (con un totale di 64.994 fan), il 30% del (con un totale di 10.929 fan) e il restante 3% (con un totale di 224 fan) ha esclusivamente uno scopo informativo e divulgativo, senza alcuna connotazione politica.

Su Twitter sono stati invece rilevati oltre 550mila tweet riguardanti il referendum costituzionale e quasi 53mila utenti attivi su questo tema.

Le tasse crescono, i partiti ingrassano

di Davide PASSONI

Standing ovation per l’ennesima furbata dei partiti. C’era qualcuno disposto a scommettere che si sarebbero accordati per dare un taglio ai finanziamenti che ricevono, come richiesto a gran voce dall’opinione pubblica? Ma va! Il gran parlare di questi ultimi giorni, il riunirsi in vertici fiume, lo studiare le carte che cosa ha prodotto? Nessun taglio, of course, ma solo un’operazione trasparenza che non è null’altro che un atto di onestà e democrazia dovuto. Di ridursi il fiume di denaro, nemmeno a parlarne.

E sì che la gente è stufa. Stufa di vedere tesorieri che si fanno un tesoro personale con i soldi dei cittadini elettori, o trote che, pare, sguazzano allegramente in un lago di soldi pubblici. Stufa di vedersi aumentare le tasse, allungare l’età lavorativa, sforbiciare la pensione mentre, a palazzo, nessuna stretta ma prebende e vitalizi d’oro che continuano ad allignare, come se chi la governa vivesse su un altro pianeta.

In soldoni, ecco che cosa hanno deciso i principali partiti per rendere i propri bilanci più trasparenti: pubblicazione sul web, un Authority ad hoc, la “Commissione per la trasparenza e il controllo dei bilanci dei partiti politici” (mica pizza e fichi), composta da “alte personalità”, quasi certamente i presidenti (o da loro delegati) di Corte dei Conti, Corte di Cassazione e Consiglio di Stato e presieduta dal presidente della Corte dei Conti, l’ente “terzo” a controllare e verificare la regolarità dei bilanci dei partiti.

Qualcuno vede la parola tagli? Certo che no. Per quelli si pensa a una legge più organica per la riforma del finanziamento pubblico ai partiti. Certo, e Babbo Natale esiste. E non ci si venga a spacciare per un’operazione di coscienza la sospensione (non rinuncia…) alla prossima tranche del finanziamento pubblico ai partiti per la legislatura in corso, in arrivo per fine luglio: circa 180 milioni, secondo il tesoriere del Pd Misiani. Noccioline in confronto ai 2,2 miliardi annui che finiscono nelle tasche dei partiti. Non sotto forma di finanziamento, nooo! Quello era stato abolito da noi, stupidi cittadini, con un referendum 18 anni fa. Quello attuale, inventato per aggirare la volontà popolare, si chiama rimborso elettorale ed è dovuto per le elezioni politiche, amministrative ed europee: 4 euro per ogni avente diritto al voto, si rechi esso alle urne o meno. Capite bene: si può tagliare un simile bengodi? Mai e poi mai.

E intanto aumentano le tasse, ma la spesa pubblica non si taglia. Aumentano i sacrifici ma i partiti continuano a ingrassare. E poi si dà la colpa dello spread che risale ai cattivoni che, dall’estero, remano contro l’Italia. Sentire certe cose dalla bocca dei professori al governo, mette davvero tristezza e rabbia addosso all’Italia che produce. L’Italia che i finanziamenti li va a chiedere alle banche, non agli elettori, e si becca le porte in faccia. L’Italia che non taglia i finanziamenti ma i posti di lavoro. L’Italia che taglierebbe volentieri tante teste (metaforicamente, si capisce) che, oggi come ieri, la governano e l’hanno governata.

Marchionne ha vinto, viva Marchionne! Ma è sbagliato ignorare il consenso per Fiom

Solo la vicenda di Mirafiori ha conteso il primato delle prime pagine dei giornali all’ennesima puntata dello scontro fra Silvio Berlusconi e la Procura milanese per via del famoso bunga-bunga nella villa di Arcore con la minorenne Ruby e allegra compagnia. In effetti il referendum torinese è, da un certo punto di vista, più importante ed è destinato, nel lungo periodo, a incidere sulla vita del Paese più di quella cronaca francamente squallida.

Ai lavoratori dello storico stabilimento, il più grande d’Italia e fra i principali in Europa, è stato chiesto se approvavano o meno l’accordo firmato da azienda e tutti i sindacati, tranne la Fiom-Cgil, che prevede maggiore flessibilità in fabbrica, la possibilità di richiedere un numero più alto di ore di straordinario, una serie di misure contro l’assenteismo, eccetera. Insomma, un’intesa con l’obiettivo di aumentare la produttività, di rendere le catene di montaggio italiane paragonabili non a quelle cinesi o dei Paesi in via di sviluppo, ma a quelle della Germania oppure a quelle della Polonia dove, la  stessa Fiat produce, con l’identico numero di dipendenti, il doppio delle auto che riesce a sfornare a Torino.

Come si sa, l’amministratore delegato della Fiat, il grintoso Sergio Marchionne, condizionava a quel sì un piano di investimenti che (nelle sue promesse) avrebbe consentito di mantenere in vita l’impianto. Marchionne e l’azienda l’hanno avuta vinta, ma di stretta misura. Il referendum è passato, ma le previsioni di una marcia trionfale dei sì sono state smentite. Il 54 per cento dei dipendenti di Mirafiori si è espresso favorevolmente, il 46 ha votato contro. Determinanti per il successo sono stati gli impiegati dello stabilimento, i colletti bianchi, che in massa (o quasi) si sono espressi per il sì. Senza di loro, il referendum sarebbe passato per un soffio (7 voti): praticamente un pareggio. Questo vuol dire che dopo il 14 gennaio, la Fiat può impostare una nuova fase nei rapporti industriali con vantaggio per tutto il sistema Paese. Ma la Fiom-Cgil è tuttora protagonista nelle fabbriche e riceve consensi: può piacere o no, ma sarebbe un errore ignorarlo.

L’altra considerazione da fare riguarda i piani di sviluppo della Fiat. Ha voluto il referendum, lo ha vinto. Ora deve progettare, produrre, mettere in vendita modelli di auto di successo. Da questo punto di vista la situazione non è incoraggiante. Gli ultimi dati ufficiali (quelli di novembre) sono un campanello d’allarme: la quota della Fiat sul mercato europeo è scesa sotto il 7 per cento. Marchionne, quando ha varato l’operazione Chrysler, ha detto che, per essere competitivo, un produttore di auto deve poter contare almeno su 5 milioni di modelli venduti ogni anno. Se continua a perdere terreno come sta facendo, l’obiettivo per il gruppo italo-americano non fa che allontanarsi.