La Cgia dice no all’aumento dell’Iva

La Cgia ha le idee ben chiare e si pone contro l’eventuale aumento dell’Iva, che dovrebbe contribuire alla riduzione del cuneo fiscale.
Perché questo? Semplice: a detta di Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio Studi della Cgia, non si tratterebbe di un’operazione a costo zero perché, se da una parte si assisterebbe alla riduzione del costo del lavoro a vantaggio di imprese o lavoratori dipendenti, dall’altra il rincaro dell’Iva ricadrebbe su tutti, indistintamente. E, come spesso accade, andrebbe a pesare sui più deboli, a cominciare da disoccupati, inattivi e pensionati.

Queste le parole di Zabeo: “Vista la situazione dei nostri conti pubblici è molto probabile che il Governo non sarà in grado di recuperare entro la fine di quest’anno tutti i 19,5 miliardi necessari per evitare che, dal 2018, l’aliquota Iva del 10 passi al 13 e quella del 22 al 25 per cento. Ricordo che un aumento di un punto dell’aliquota ridotta costa agli italiani poco più di 2 miliardi e quella ordinaria 4. Pertanto, non è da escludere che dei 19,5 miliardi l’esecutivo sia in grado di sterilizzarne solo una parte, almeno 14-15. E visto che la spesa corrente al netto degli interessi è destinata ad aumentare ancora, la quota rimanente dovrà essere recuperata con nuove entrate, con il ritocco, ad esempio, di un punto di entrambe le aliquote Iva”.

A queste parole si è accodato anche Renato Mason, segretario Cgia, il quale ha aggiunto: “Di fronte a una crescita economica ancora molto timida e incerta, l’eventuale aumento dell’Iva condizionerebbe negativamente i consumi interni e conseguentemente tutta l’economia, penalizzando in particolar modo le famiglie meno abbienti. Oltre alle famiglie più povere a essere penalizzate dall’eventuale aumento dell’Iva sarebbero anche gli artigiani, i commercianti e tutto il popolo delle partite Iva. Queste realtà, infatti, vivono quasi esclusivamente di domanda interna. Con un’Iva più pesante, quasi certamente i consumi subirebbero una contrazione importante, danneggiando queste attività economiche che non hanno ancora superato la fase critica di questa crisi”.

Facendo un esempio concreto. Se l’Iva salisse dal 22 al 23%, una famiglia di 3/4 persone subirebbe un aumento di imposta di circa 100 euro all’anno che avrebbe delle ripercussioni negative sui consumi interni del paese che costituiscono la componente più importante del nostro Pil.

Vera MORETTI

Stipendi degli italiani sempre più leggeri a causa delle tasse

Gli stipendi degli italiani sono sempre più leggeri, a causa delle tasse e dei contributi che vengono mensilmente sottratti in busta paga.
A confermarlo è l’Ufficio Studi Cgia, dopo aver esaminato la composizione delle buste paga di 2 lavoratori dipendenti entrambi occupati nel settore metalmeccanico dell’industria.

Il primo caso riguarda un operaio con uno stipendio mensile netto di poco superiore ai 1.350 euro: al suo titolare costa, invece, un po’ meno del doppio: 2.357 euro. Questo importo è dato dalla somma della retribuzione lorda (1.791 euro) e dal prelievo contributivo a carico dell’imprenditore (566 euro). Il cuneo fiscale (dato dalla differenza tra il costo per l’azienda e la retribuzione netta) è pari a 979 euro che incide sul costo del lavoro per il 41,5 per cento.

Il secondo caso, invece, si riferisce a un impiegato con una busta paga netta di poco superiore a 1.700 euro. In questa ipotesi, il datore di lavoro deve farsi carico di un costo di oltre 3.200 euro; importo, quest’ultimo, quasi doppio rispetto allo stipendio erogato. Questa cifra è composta dalla retribuzione mensile lorda (2.483 euro) a cui si aggiungono i contributi mensili versati dal titolare dell’azienda (729 euro). Il cuneo fiscale (dato dalla differenza tra il costo per l’azienda e la retribuzione netta) è di 1.503 euro che incide sul costo del lavoro per il 46,8 per cento.

Sembra che negli ultimi anni la situazione sia lievemente migliorata grazie all’introduzione del bonus Renzi e il taglio dell’Irap avvenuto nel 2015 sul costo del lavoro ai dipendenti assunti con un contratto a tempo indeterminato, che hanno portato ad una riduzione del carico fiscale di circa 14 miliardi di euro.
Inoltre, sebbene la metà dei 9 miliardi di euro annui che servono per coprire la spesa del bonus Renzi sia finita nelle tasche di dipendenti che vivono in famiglie con redditi medio-alti, è altrettanto vero che secondo un’indagine realizzata dalla Banca d’Italia il 90% delle famiglie percettrici di questa agevolazione hanno dichiarato di averla spesa e di aver destinato il restante 10% al risparmio e al rimborso di debiti.

Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio Studi della Cgia, ha dichiarato: “Oltre a tagliare l’Irpef è necessario intervenire anche sulla riduzione del prelievo in capo al datore di lavoro che in Italia è tra i più elevati d’Europa. Secondo l’Ocse, infatti, tra gli oltre 30 paesi più industrializzati del mondo solo Francia, Repubblica Ceca ed Estonia hanno un carico contributivo per dipendente superiore al nostro. Una situazione che ci impone non tanto di tagliare l’aliquota previdenziale che, in un sistema ormai contributivo, danneggerebbe i lavoratori, ma di proseguire con maggiore determinazione nella riduzione delle tasse sulle imprese”.

Ha aggiunto Renato Mason, segretario Cgia: “Per far ripartire con forza la domanda interna è necessario, tra le altre cose, aumentare il numero degli occupati e lasciare a questi ultimi più soldi in tasca. Vista la scarsa disponibilità di liquidità delle imprese, nel prossimo futuro sarà sempre più difficile erogare importanti aumenti di stipendio attraverso i rinnovi contrattuali. Per tale ragione, quindi, è indispensabile incentivare la diffusione del welfare aziendale come forma di beneficio economico”.

Vera MORETTI

Male l’inflazione e il credito alle imprese nonostante il QE

L’Ufficio Studi della Cgia ha stilato un bilancio del Quantitative Easing avviata dalla Bce ormai quasi due anni fa, con lo scopo di riportare il tasso di inflazione al 2% e quindi dare un po’ di respiro all’economia italiana, un po’ in affanno.
Ma, nonostante negli ultimi due anni la BCE abbia comprato titoli di Stato per 1.344 miliardi di euro, i risultati del QE non sono stati particolarmente positivi specie, considerando che nell’ultimo anno il livello medio dei prezzi nell’Area dell’euro è cresciuto solo dello 0,3%.

Anche in Germania e in Francia, dove le previsioni di crescita economica per il biennio 2016-2017 sono più favorevoli che in Italia e dove i prestiti alle società non finanziarie sono aumentati negli ultimi 12 mesi, l’inflazione è prossima allo zero mentre in Italia l’inflazione nel 2016 è stata negativa (-0,1%), mentre i prestiti alle imprese sono scesi del 2,4%.

Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio Studi Cgia, ha dichiarato: “L’acquisto di titoli del debito pubblico dei paesi dell’Euro ha contribuito a garantire una certa stabilità finanziaria riducendo il costo del nostro debito pubblico, ma è evidente come questa grossa iniezione di liquidità non abbia ottenuto i risultati sperati, tant’è che l’inflazione è ferma, i prestiti alle imprese non ripartono e la crescita economica non trova lo slancio che servirebbe. Insomma, il bazooka di Draghi non ha sortito gli effetti sperati. Una quota rilevante di questi 222 miliardi di euro sono finiti alle nostre banche che, però, hanno preferito trattenerseli, aumentando così il livello di patrimonializzazione come richiesto dalla Bce, anziché impiegarli nell’economia reale”.

Renato Mason, segretario della Cgia, ha voluto commentare i risultati del QE e la situazione di difficoltà in cui si trovano le banche: “Le regole si stanno assestando sempre più in alto. Prima l’Europa chiedeva alle banche un patrimonio dell’8 per cento degli impieghi; ora bisogna avere il 10-12 per cento circa. In altre parole, la banca per prestare 100 milioni deve avere un patrimonio di oltre 10-12. L’asticella che varia nel tempo per gli istituti di credito è un problema. Infatti, dura da 2 anni la corsa per adeguarsi alle nuove regole europee, applicate con rigidità e nel periodo peggiore, ovvero nel bel mezzo di una crisi. Al di là delle responsabilità, comunque, rimane un fatto; la nostra economia ha bisogno di un sistema creditizio efficiente e attento ai territori, in particolar modo alle piccole e medie imprese che continuano ad essere l’asse portante della nostra economia”.

Vera MORETTI

La situazione precaria della PA italiana

Che la nostra Pubblica Amministrazione non goda di buona salute, già lo sospettavamo, ma, forse, speravamo che la situazione non fosse proprio disperata.
E invece, confrontata con i paesi europei, ne viene fuori un panorama a dir poco desolante: in pratica, solo Grecia, Croazia, Turchia e alcuni paesi dell’ex blocco sovietico sono messi peggio di noi, ma il nord Europa per noi rappresenta un esempio inarrivabile.

Si tratta di una speciale classifica che tiene conto di una serie di caratteristiche, a cominciare dalla qualità dei servizi ricevuti, ma anche l’imparzialità con la quale vengono assegnati e la corruzione.
Oltre ai dati medi nazionali, questa indagine consente di verificare anche le performance di ben 206 realtà territoriali. Il risultato finale è un indicatore che varia dal +2,781 ottenuto dalla regione finlandese Åland (1° posto in Ue) al -2,658 della turca Bati Anadolu (maglia nera al 206° posto). Il dato medio Ue è pari a zero.

L’Italia non è presente nelle prime trenta posizioni, per trovare la prima regione italiana si deve scendere al 36esimo posto, con Trento. Di seguito troviamo la Provincia autonoma di Bolzano al 39°, la Valle d’Aosta al 72° e il Friuli Venezia Giulia al 98°. Appena al di sotto della media Ue si posiziona al 129° posto il Veneto, al 132° l’Emilia Romagna e di seguito tutte le altre regioni italiane.

Il Sud ha una situazione particolarmente critica: ben sette regioni si collocano, infatti, nelle ultime 30 posizioni: la Sardegna al 178° posto, la Basilicata al 182°, la Sicilia al 185°, la Puglia al 188°, il Molise al 191°, la Calabria al 193° e la Campania al 202° posto. Solo Ege (Turchia), Yugozapaden (Bulgaria), Istanbul (Turchia) e Bati Anadolu (Turchia), presentano uno score peggiore della Pa campana. Tra le realtà meno virtuose anche una regione del Centro, il Lazio, che si piazza al 184° posto della graduatoria generale.

Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi CGIA, ha commentato così questi risultati: “Con una Pa di questo livello gli effetti negativi si fanno sentire anche nel settore privato. Quando ci rapportiamo con il pubblico i ritardi, le informazioni inesatte, le procedure inutilmente complicate o addirittura vessatorie sono all’ordine del giorno. Tutto ciò si traduce in perdite di tempo e di denaro, magari per pagare consulenti in grado di aiutarci ad evadere tutta una serie di pratiche burocratiche spesso ridondanti. Ne risentono sia i comuni cittadini sia le imprese, soprattutto quelle di piccola dimensione, con danni che si ripercuotono sul sistema-Paese”.

Ha aggiunto Renato Mason, Segretario della CGIA: “La sanità al Nord, le forze dell’ordine, molti centri di ricerca e istituti universitari italiani presentano delle performance che non temono confronti in tutta l’Ue. Tuttavia è necessario rendere più efficienti i servizi offerti dalle amministrazioni pubbliche, affinché siano sempre più centrali per il sostegno della crescita, perché migliorare i servizi vuol dire elevare il prodotto delle prestazioni pubbliche e quindi il contributo dell’attività amministrativa allo sviluppo del Paese”.

Vera MORETTI

Gli sprechi della Pubblica Amministrazione italiana secondo la CGIA

L’Ufficio Studi della CGIA ha voluto stimare e quantificare le uscite che l’Amministrazione Pubblica italiana potrebbe, invece, risparmiare se venisse utilizzata una maggior oculatezza.
Si tratta di una cifra enorme, perché la stima riguarda 16 miliardi di euro all’anno che potrebbero essere tranquillamente non spesi, che si raddoppierebbe probabilmente, se si potessero quantificare le spese riducibili ai falsi invalidi, a chi percepisce deduzioni/detrazioni fiscali non dovute o alla cattiva gestione del patrimonio immobiliare.

Ma non basta: se la nostra Amministrazione pubblica avesse in tutta Italia la stessa qualità nella scuola, nei trasporti, nella sanità e nella giustizia, solo per fare alcuni esempi, il nostro Pil aumenterebbe di 2 punti, ovvero di oltre 30 miliardi di euro, all’anno.

Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA, ha dichiarato: “Dopo aver approvato in fretta e furia una legge di Bilancio molto generosa sul fronte delle uscite, ora, dopo la richiesta da parte dell’Ue di correggere i nostri conti pubblici per 3,4 miliardi, il Governo decide di recuperarli agendo soprattutto sul fronte delle entrate. Non sarebbe il caso, invece, di intervenire in misura più aggressiva nei confronti della spesa pubblica improduttiva che risulta avere ancora dimensioni molto preoccupanti ?

Renato Mason, segretario della CGIA, ha poi aggiunto: “Ricordo che l’80 per cento circa delle merci italiane viaggia su gomma. E’ vero che grazie al rimborso delle accise gli autotrasportatori, solo quelli con mezzi sopra i 35 quintali, possono recuperare una parte degli aumenti fiscali che subiscono alla pompa. Tuttavia, nel caso scattassero gli incrementi di accisa, potrebbero verificarsi dei rincari dei prodotti che troviamo sugli scaffali dei negozi e dei supermercati del tutto ingiustificati, penalizzando soprattutto le famiglie a basso reddito”.

Vera MORETTI

 

Debiti delle PA: a quanto ammontano?

La Cgia ha cercato si rispondere al quesito che riguarda i debiti della Pubblica Amministrazione nei confronti dei fornitori, che ancora non sono stati livellati, nonostante l’avvento, ormai due anni fa, della fatturazione elettronica.

Non ci sono dati ufficiali, poiché l’ammontare complessivo del debito viene monitorato solo dalla Banca d’Italia, e si tratterebbe di debiti, nei confronti delle aziende private, di 65 miliardi di euro, anche se si tratta di numeri che ancora non tengono conto del 2016.

Nonostante le cifre siano ancora alte, il fenomeno si è comunque ridotto negli ultimi anni, grazie soprattutto agli interventi messi in campo nel biennio 2013-14. In questo periodo, infatti, sono stati stanziati 56,2 miliardi di euro: agli enti debitori sono stati messi a disposizione 44,6 miliardi di euro (pari al 79 per cento del totale) in quanto alcuni enti non ne hanno fatto richiesta.

I pagamenti, il cui aggiornamento è comunque fermo al 20 luglio 2015, hanno toccato quota 38,6 miliardi, pari a quasi l’86% delle risorse messe a disposizione. Ma, in ogni caso, l’importo del debito rimane ancora spaventoso e non ha eguali nel resto d’Europa.

Qual è il motivo di questi ritardi e di questo debito che sembra destinato a non azzerarsi mai? Renato Mason, segretario della Cgia, punta il dito contro “Le lungaggini burocratiche, il cattivo funzionamento degli uffici pubblici, i vincoli di bilancio imposti da Bruxelles, l’abuso di posizione dominante del committente e la mancanza di liquidità sono le motivazioni che consegnano al nostro Paese la maglia nera in Ue della correttezza nei pagamenti. Nonostante dal 1° gennaio 2013 la legge stabilisca che il pubblico debba pagare entro 30 giorni, salvo non sia un’azienda sanitaria che allora lo può fare entro 60, queste disposizioni continuano a essere spesso disattese, con ricadute molto pesanti soprattutto per le piccole imprese che dispongono di un potere negoziale molto limitato nei confronti degli enti pubblici. Un problema, è bene sottolinearlo, che, purtroppo, non riguarda solo le transazioni commerciali con il pubblico, ma anche tra aziende private. Un malcostume generalizzato che non ha pari nel resto dell’Ue”.

Vera MORETTI