Ict e professionisti: a che punto siamo?

Sono sempre di più i professionisti che, per le loro attività lavorative, utilizzano strumenti mobili e applicazioni per smartphone.
Nonostante la cautela e una diffidenza iniziale, il potenziale è molto alto, poiché ad oggi ben il 42% dei professionisti trascorre quasi metà del tempo lavorativo fuori dal proprio studio, percentuale che scende al 38% per i commercialisti e al 33% per i consulenti del lavoro, mentre sale a 46% per quanto riguarda gli avvocati.

A rendere noti questi dati è l’Osservatorio Ict & Professionisti della School of Management del Politecnico di Milano, che, a seguito di una ricerca, individua negli avvocati e nei professionisti di studi associati i più assidui mobile workers, che quindi ricorrono sempre di più a pc portatili, tablet e smartphone per svolgere il proprio lavoro anche all’esterno del proprio ufficio.

Le attività più frequenti sono la lettura dell’email (19%), la navigazione in Internet (17%), la lavorazione di documenti (10%) e la consultazione di dati dello studio (9%), mentre i dispositivi più utilizzati sono gli smartphone, seguiti dai Pc portatili e dai tablet: i primi usati prevalentemente per gestire le e-mail (26%), i secondi per lavorare su documenti (26%), mentre i tablet, invece, per navigare in Internet (19%).

Le app sono utilizzate e considerate meno, poiché solo il 26% dei professionisti utilizza applicazioni a contenuto professionale e, al contrario, il 45% di essi dimostra nei loro confronti un vero e proprio disinteresse, dovuto soprattutto alla poca mobilità della professione.
In questo caso, le categorie professionali più assidue sono gli avvocati (29%), seguiti dai consulenti del lavoro (23%) e, per finire, dai commercialisti (21%).
Gli studi multidisciplinari raggiungono la percentuale più alta, pari al 32%.

Nonostante, poi, i professionisti siano interessati all’Ict, la diffusione delle nuove tecnologie rimane piuttosto limitata.
Purtroppo non è ancora radicata la convinzione che, per sopravvivere alla crisi, tecnologia ed innovazione possono davvero fare la differenza, creando maggiore efficienza, ma anche riducendo il tempo dedicato alle pratiche amministrative, e donando, di conseguenza, più tempo agli affari e alla creatività.
Dove presenti, le tecnologie più diffuse sono la firma digitale (nel 78% dei casi) e l’home banking (76%), seguite dai software di gestione elettronica documentale (46%) e poi, in misura minore, il sito internet “vetrina” (21%), l’eLearing (20%) e il controllo di gestione per lo studio (19%).

Claudio Rorato, responsabile della Ricerca, ha dichiarato a proposito: “Oltre alle tecnologie già in uso per la dematerializzazione dei documenti e ai semplici applicativi, insomma, ancora oggi non entrano nell’attività lavorativa degli studi professionali soluzioni come Crm, portali e siti web, firma grafometrica, Workflow management. Il business delle professioni appare ancora tradizionale nei contenuti e nelle prassi di conduzione. La tecnologia potrebbe assistere invece l’apertura di nuove idee di business assistite dalle tecnologie o prassi lavorative più snelle”.

Ad impedire l’adozione di soluzioni Ict è spesso anche il budget, che rimarrà limitato anche nel prossimo biennio, perciò se l’83% degli studi professionali dichiara la disponibilità a investire in tecnologia nei prossimi due anni, l 27% di questi dedicherà un budget compreso tra mille e 3 mila euro, il 21% al massimo mille euro e solo il 16% tra 3 mila e 5 mila euro.

Chi sarà disposto ad investire, impiegherà il proprio denaro per l’acquisto di Pc più potenti e, a seguire, a server, stampanti e scanner (19%, 18% e 15% rispettivamente). Il 33%, invece, non investirà in hardware.

Alessandro Perego, responsabile Scientifico dell’Osservatorio Ict&Professionisti, ha commentato: “La natura di questi investimenti sottolinea come ci sia ancora una difficoltà a percepire concretamente la capacità di generare valore da parte delle Ict. Si privilegia la performance dello strumento, come i PC più potenti, e non quella di processo. Non emerge la volontà concreta di riorientare il business, prevalentemente ancora di natura tradizionale, verso nuove forme di servizio in grado di diversificare i rischi, proteggere la marginalità, sviluppare nuove opportunità. L’alfabetizzazione digitale, che impegni le istituzioni politiche e professionali, diventa allora cruciale per la diffusione di una cultura tecnologica presso i professionisti, per far percepire chiaramente perché una tecnologia può generare valore e, soprattutto, dove lo può creare”.

A prevalere, comunque, negli studi professionali, è la consapevolezza che la tecnologia può portare notevoli benefici, ed in particolare servizi sempre più efficienti, ma anche maggior reddito, anche se la diffidenza è ancora percepibile ed è quella che impedisce di fare il salto di qualità.

Emergono anche le difficoltà che condizionano la diffusione delle tecnologie presso gli studi.
In particolare, sono l’alfabetizzazione informatica dei titolari (42%), il livello dei costi dei software (30%), la difficoltà a conoscere realmente l’offerta del mercato (23%). Il 21%, invece, non ravvisa problemi particolari.
Analizzando le singole professioni, gli avvocati riconoscono più di tutti un valore elevato alla scarsa alfabetizzazione dei titolari di studio (49%), mentre i consulenti del lavoro individuano tra le cause più importanti la lentezza di Internet (21%). Per gli studi multidisciplinari, infine, la prima ragione è la lentezza di Internet (32%), seguita dalla scarsa alfabetizzazione dei titolari di studio (30%), dalla scarsa alfabetizzazione del personale (29%) e dai costi dei software (28%).

Per quanto riguarda l’attività svolta da avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro produce una grande mole di documenti cartacei che saturano gli archivi e impiegano tempo per la custodia, ma le prassi di “dematerializzazione” dei documenti e gli strumenti che possono aiutare a rendere più efficienti alcune attività non sono ancora diffusi.

Il 42% dei commercialisti, il 58% degli avvocati e il 35% dei consulenti del lavoro affronta la situazione con la scansione dei documenti cartacei, creando archivi elettronici, ma mantenendo ancora la carta o ricorrendo a fornitori esterni.
Solo il 26% dei commercialisti, il 17% degli avvocati e il 33% dei consulenti del lavoro pensa invece di ricorrere alla conservazione a norma dei documenti già in Pdf o trasformati in formato Pdf con la scansione dei documenti cartacei. Anche per i fax, il 62% dei commercialisti, l’80% degli avvocati e il 51% dei consulenti del lavoro ricorre alla fotocopia e all’archiviazione cartacea, mentre una minima parte prevede la scansione e l’archiviazione in cartelle elettroniche o l’archiviazione diretta nei server in digitale.

Per quanto riguarda le e-mail di interesse, il 69% dei commercialisti, l’87% degli avvocati e il 56% dei consulenti del lavoro le stampa e le archivia all’interno delle pratiche di competenza.

Vera MORETTI

Imprese italiane sempre più verso l’e-commerce

Le imprese italiane stanno adottando sempre più frequentemente il canale dell’e-commerce per vendere i loro prodotti.
I dati, a questo proposito, testimoniano questo trend, poiché ogni anno si registra una crescita a due cifre., e un fatturato che si aggira attorno a 11,3 miliardi di euro.

Fanno da traino a questa tendenza anche la diffusione degli smartphone, attraverso i quali è possibile fare acquisti, senza necessariamente utilizzare il pc.
A questo proposito, sembra che le vendite online via smartphone registreranno a fine 2013 un incremento pari a +255% (per 500 milioni, ossia il 15% delle vendite online).

Questi risultati arrivano dal rapporto annuale dell’Osservatorio e-Commerce B2c della School of Management del Politecnico di Milano, in collaborazione con il consorzio Netcomm.

Alessandro Perego, responsabile scientifico dell’Osservatorio, ha dichiarato che sono molti i segnali che “dimostrano il crescente interesse del mondo Retail tradizionale e anche dei produttori per lo sviluppo del canale dell’e-Commerce ma ci sono ancora alcuni ostacoli, di tipo culturale oltre che logistico e organizzativo, che impediscono un decollo vero e proprio, con tassi di crescita a 3 cifre”.

In aumento è anche la percentuale degli stranieri che acquistano collegandosi a siti italiani, giunta ad oggi a +28% rispetto al 2012, superando la quota dei 2 miliardi di euro.

I settori che più interessano l’export sono il turismo (55%) e l’abbigliamento (32%).
L’Import è invece cresciuto del +13% raggiungendo quota 3,45 miliardi di euro, e a fare da traino sono soprattutto i servizi di biglietteria per i trasporti.
In generale gli Italiani, tra siti italiani ed esteri, oggi comprano più che nel 2012 (+15%), portando il fatturato dagli 11 miliardi di euro del 2012 agli oltre 12,6 miliardi.

Oltre a turismo ed abbigliamento, anche il settore dell’informatica ed elettronica va molto bene online, tanto da registrare una crescita del 20%, per un fatturato di 1,2 miliardi.

Non si può dire altrettanto invece i prodotti del settore Retail, la cui percentuale di vendite sul totale si assesta al 3%, che necessita ancora di una spinta: in questo senso può contribuire il moltiplicarsi di soluzioni ad hoc.

Vera MORETTI

Un antidoto alla crisi? Investire nell’ICT

di Manuele MORO

Mentre l’Italia attraversa una delle peggiori crisi economiche di tutti i tempi, i maggiori luminari del settore si interrogano su quali misure adottare per riuscire nell’ardua impresa di ridurre il sempre più preoccupante debito pubblico accumulato e, al tempo stesso, incentivare la crescita.

Ecco, una piccola risposta in questo senso, sicuramente parziale ma non per questo meno significativa, arriva dal convegno Crisi finanziaria e rilancio dell’economia: quello che l’Ict può fare, organizzato dalla School of Management del Politecnico di Milano insieme a Cefriel, con il patrocinio di Assinform, Aused e ClubTI.

Come chiaramente evidenziato dal titolo, scopo dell’iniziativa era fornire dati attendibili a sostegno di quella tesi ampiamente condivisa, ma mai supportata da numeri chiari e inequivocabili, che vede nella capillare diffusione delle tecnologie digitali in ambito business una delle chiavi per il rilancio delle imprese e dell’economia nel suo complesso.

E i risultati dell’indagine, presentati lo scorso 30 novembre al Politecnico di Milano, parlano chiaro:   maggiori investimenti nell’ICT renderebbero possibile non solo un incremento del PIL tra lo 0,4 e lo 0,9%, ma anche un notevole risparmio di risorse, fino a 43 miliardi di euro all’anno. E tutto questo solo nella Pubblica Amministrazione.

L’eProcurement, ad esempio, consentirebbe di ridurre la spesa che la PA sostiene annualmente per gli acquisti di ben 4 miliardi di euro, mentre con la digitalizzazione di alcuni processi burocratici e la semplificazione delle procedure di pagamento si recupererebbero addirittura 24 miliardi di euro. Allo stesso tempo, la maggiore produttività del personale permetterebbe di liberare altri 15 miliardi.

A stupire è soprattutto la (relativa) esiguità degli investimenti necessari nell’immediato per ottenere risultati di questa portata: poco meno di 3 miliardi di euro, da indirizzare soprattutto allo sviluppo della banda larga e ultralarga, ma anche al finanziamento delle start-up più promettenti in ambito hi-tech.

Fin qui, tutto bene. Ma i soggetti direttamente interessati, ossia le imprese italiane, sono davvero consapevoli dell’importanza strategica delle nuove tecnologie digitali? Non a sufficienza purtroppo, perlomeno a giudicare dalle risposte raccolte dai ricercatori della School of Management su un campione di oltre 170 aziende: nel 2012, infatti, la maggioranza è intenzionata a mantenere invariato il budget ICT, che viene però in larga parte assorbito dai costi di gestione.

La parte più consistente di questi fondi, in ogni caso, sarà destinata alla razionalizzazione dei sistemi informativi (sviluppo dei data center e delle soluzioni cloud) e alla digitalizzazione dei processi aziendali: una decisione che, secondo Mariano Corso, responsabile scientifico della ricerca, è indice del tentativo da parte delle divisioni ICT di “autofinanziare l’innovazione attraverso il recupero di risorse”.

d.S.