Separazione e divorzio: dal 1° marzo arriva il rito unico. Sintesi

Con l’entrata in vigore di una parte della legge Cartabia cambia il rito per la separazione e il divorzio che ora viene definito rito unico. Ecco cosa cambia per le coppie che decidono di separare le loro strade.

Dal 1° marzo arriva il rito unico per seprazione e divorzio

Con l’entrata in vigore delle nuove norme, a partire dal 1° marzo 2023 si avrà il rito unico, le nuove regole previste dal decreto legislativo 149 del 2022 si applicano ai giudizi instaurati dopo il 1° marzo mentre per quelli pendenti al 28 febbraio 2023 si continuerà ad applicare il precedente rito. La prima novità riguarda la presentazione della domanda di separazione/divorzio che dovrà essere introdotta con ricorso.

Rito unico per separazione e divorzio: il ricorso

L’introduzione del giudizio cambia in modo radicale al fine di ridurre i tempi del processo. Fin dalla prima introduzione il ricorrente deve indicare i mezzi di prova e i documenti di cui intende avvalersi per dimostrare le proprie tesi (ad esempio nel caso in cui si chieda la separazione per colpa). Nel caso in cui la parte che propone ricorso abbia delle pretese di tipo economico e in ogni caso in presenza di figli è necessario allegare:

  • le dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni;
  • la documentazione attestante la propria condizione patrimoniale (patrimonio mobile e immobile), diritti di godimento su beni immobili, quote societarie;
  • estratti conto di rapporti bancari e finanziari.

Misura necessaria a capire se una parte deve all’altra un contributo economico, assegni in favore dei figli e quantum delle misure da adottare.

In presenza di figli, è necessario allegare anche il piano genitoriale, si tratta di un documento in cui le parti hanno “stabilito” le principali norme per l’esercizio della bigenitorialità, ad esempio visite, collocamento, indicazione degli impegni scolastici ed extra-scolastici dei minori.

Udienza per i provvedimenti urgenti

Se il ricorrente all’interno del ricorso sottolinea la necessità che il giudice adotti provvedimenti urgenti in quanto potrebbe maturare un pregiudizio imminente  e irreparabile, il giudice, dopo aver raccolto sommarie informazioni e quindi aver valutato la fondatezza dei rischi, «adotta con decreto provvisoriamente esecutivo i provvedimenti necessari nell’interesse dei figli». Con lo stesso decreto fissa la prima udienza entro 15 giorni per la modifica, la revoca o la conferma dei provvedimenti adottati.

Rito unico seprazione e divorzio: udienza di comparizione e rimessione

Nel caso in cui non debbano essere adottati provvedimenti urgenti, viene fissata direttamente la prima udienza di comparizione, questa in base al nuovo articolo 473-bis del codice di procedura civile, entro 90 giorni dal deposito del ricorso. Entro 30 giorni dalla data fissata il convenuto può costituirsi in giudizio, le parti possono produrre ulteriori memorie difensive.

Durante l’udienza di comparizione viene effettuato il tentativo di conciliazione, se questo non va a buon fine, il giudice adotta provvedimenti temporanei, ad esempio autorizza le parti a vivere in case separate, dispone il collocamento dei figli, fissa degli assegni, e dispone il rinvio per l’assunzione delle prove, se non è necessario assumere nuove prove si passa alla trattazione orale e alla decisione della causa.

Se invece devono essere assunte nuove prove, fissa l’udienza di rimessione della causa per la decisione.

Le parti potranno:

  • entro 60 giorni dall’udienza depositare precisazioni delle conclusioni con note scritte;
  • nell’arco di 30 giorni dalla data fissata per l’udienza depositare le comparse conclusionali;
  • entro 15 giorni per le memorie di replica.

Entro 60 giorni dall’udienza di rimessione il giudice deve depositare la sentenza. I tempi possono dilatarsi nel caso in cui debbano essere esperite consulenze tecniche d’ufficio.

Ricordiamo che la riforma Cartabia prevede che entro il 2025 debba essere istituito il tribunale unico per le famiglie.

Pensione di reversibilità e divorzio: quando ne ha diritto l’ex coniuge?

La pensione di reversibilità è anche conosciuta come pensione indiretta e pensione superstiti e si riconosce il diritto a percepirla solo a determinate categorie di “parenti stretti”, tra queste vi è il coniuge. Tra le novità introdotte da poco su pensione di reversibilità e divorzio vi è il riconoscimento del diritto a percepirla anche per il coniuge divorziato con addebito.

Pensione di reversibilità e divorzio

Quando una persona ha maturato i requisiti minimi per il pensionamento e perde la vita, ai parenti può spettare la pensione superstiti o di reversibilità. Il coniuge, anche se legalmente separato, ha diritto al 60% della pensione se è solo, 80% se ha un figlio e al 100% della pensione che avrebbe percepito il marito in presenza di due o più figli minori.

Ricordiamo che la separazione non fa venire meno gli effetti civili del matrimonio, ma semplicemente autorizza i coniugi a vivere separati. Al termine del periodo di separazione possono decidere se procedere o meno alla richiesta di divorzio. Proprio per questo non vi è alcun dubbio che il coniuge legalmente separato possa beneficiare della pensione di reversibilità, ma cosa capita in caso di divorzio? Particolarmente complicata potrebbe essere la situazione in presenza di diversi ex coniuge e concorrenza con il coniuge/vedovo.

Cosa succede però se i coniugi sono diversi, cioè se vi è più di un ex coniuge? In Italia la pensione di reversibilità spetta anche all’ex coniuge. Fino a pochi mesi fa il riconoscimento aveva luogo solo nel caso in cui era titolare di un assegno periodico divorzile. Questo vuol dire che l’ex coniuge che aveva preferito la liquidazione una tantum dell’assegno divorzile non aveva diritto a una quota della pensione di reversibilità. La stessa non spettava neanche all’ex coniuge che non aveva ottenuto l’assegno divorzile in quanto ha avuto l’addebito della separazione.

La circolare 19 del 2022 riconosce la pensione di reversibilità all’ex coniuge indipendentemente dal titolo della separazione

Tutto cambia con la circolare 19 del 2022 dell’INPS, questa infatti ha provveduto a rendere noti alcuni chiarimenti adeguandosi, tra l’altro, ad alcune sentenze della Corte di Cassazione.

La premessa della circolare ripercorre la disciplina.

La prima norma da ricordare è l’articolo 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903 che riconosce il diritto a percepire la pensione superstiti per il coniuge che sopravvive, ma, sottolinea l’INPS, non prevede che per poterla percepire sia necessario il presupposto della vivenza a carico.

Segue la circolare 185 del 2015 dell’INPS in cui si sottolinea che la pensione superstiti spetta anche al coniuge che ha avuto l’addebito della separazione, se titolare di assegno alimentare.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione è andata però in diversa direzione riconoscendo il diritto alla pensione di reversibilità all’ex coniuge indipendentemente dal fatto che la separazione fosse o meno con addebito e che la parte fosse o meno titolare di un assegno divorzile. Proprio in ragione di ciò l’INPS ha emanato la circolare 19 del 2022 dove viene appunto riconosciuto il diritto ad ottenere la pensione di reversibilità per il coniuge o ex coniuge anche se non era titolare di assegno di divorzio o di assegno alimentare.

Come si determina l’ammontare?

Ciò che resta difficile è invece determinare il quantum, soprattutto nel caso in cui ci sia concorrenza tra più coniugi. In genere il coniuge vedovo riceve una percentuale maggiore, ma per determinare l’ammontare devono essere considerati diversi fattori, ad esempio la durata del matrimonio. Non esistono però criteri fissi di riferimento, ecco perché nel caso in cui si ritenga che la determinazione fatta dall’INPS sia contraria ai propri interessi, è possibile proporre ricorso.

Per capire a chi viene riconosciuta la pensione di reversibilità, o superstiti, c’è l’approfondimento: Pensione superstiti, o di reversibilità: a chi spetta e a quanto ammonta

Assegno di mantenimento al coniuge: si conta nel reddito di cittadinanza?

Per ottenere il reddito di cittadinanza uno degli elementi fondamentali è avere un ISEE non superiore a 9.360 euro. L’ammontare del reddito di cittadinanza che effettivamente si può percepire dipende dal reddito ISEE, quindi più è alto e minori sono gli importi che si possono ricevere. Naturalmente una separazione/divorzio va ad incidere sulla situazione economica degli ex coniugi. Molti si chiedono: l’assegno di mantenimento al coniuge si conta nel reddito di cittadinanza?

Come cambia il reddito ISEE in seguito alla separazione/divorzio?

La prima distinzione di fatto è tra separazione e divorzio. La separazione è una situazione transitoria destinata a sfociare in un divorzio oppure in una riconciliazione (cosa rara). Con il provvedimento del giudice che autorizza a vivere separati, di fatto un coniuge lascia l’abitazione coniugale ed esce dal nucleo familiare. Questo è importante perché si determina un nuovo reddito ISEE. In questo caso l’assegno di mantenimento disposto da un coniuge verso l’altro è considerato reddito imponibile e di conseguenza deve essere dichiarato ai fini della dichiarazione ISEE.

Per determinare il reddito ISEE occorre però anche considerare l’affidamento dei figli. Di solito viene disposto l’affidamento congiunto con collocamento presso uno dei genitori. In questo caso i figli rientrano nel nucleo familiare, ai fini ISEE, del genitore presso il quale sono collocati. Per espressa previsione normativa, il mantenimento in favore dei figli disposto a carico di un genitore non rientra nel reddito imponibile del genitore collocatario.

Deriva da ciò che ai fini della determinazione del reddito ISEE si tiene in considerazione solo l’assegno di mantenimento in favore del coniuge, mentre non concorrono gli assegni disposti in favore dei figli. Il parametro però per misurare l’ISEE è il nucleo familiare composto anche dai figli. Da ciò si intuisce che un ex coniuge con figli collocati presso di lui avrà un reddito ISEE più basso rispetto al caso in cui i figli non siano presso di lui collocati.

Chi percepisce l’assegno di mantenimento può ricevere il reddito di cittadinanza?

Dalla premessa fatta si evince il diritto a percepire il reddito di cittadinanza per il coniuge che riceve l’assegno di mantenimento. L’importo del reddito di cittadinanza (che ricordiamo non può essere totalmente prelevato in forma liquida e non può essere usato in modo indiscriminato per tutti gli acquisti)  dipende molto dall’ammontare dell’assegno stesso, dalla titolarità di altri beni che concorrono a determinare il patrimonio, dalla disponibilità del diritto di abitazione sulla casa coniugale.

Naturalmente le disposizioni possono variare con il divorzio che rende definitiva la fine degli effetti civili del matrimonio e in un certo senso cristallizza la situazione. Ad esempio, il coniuge potrebbe chiedere la liquidazione una tantum e quindi rinunciare all’assegno di mantenimento mensile. In questo caso si potrebbe percepire una somma più elevata di reddito di cittadinanza. Il giudice potrebbe anche disporre il mantenimento solo per un periodo limitato di tempo, ciò in relazione all’età dell’ex coniuge e dalle reali possibilità di trovare una collocazione lavorativa adeguata alla formazione. In ogni caso anche in seguito al divorzio il reddito ISEE sarà calcolato tenendo in considerazione anche l’eventuale assegno di mantenimento percepito.

Chi versa il mantenimento può chiedere una revisione del provvedimento se l’ex coniuge percepisce il reddito di cittadinanza?

Provando però a fare il ragionamento a contrario emergono dei particolari interessanti. L’ex coniuge versava un determinato assegno di mantenimento, a un certo punto scopre che il beneficiario ha chiesto e ottenuto il RdC e quindi le sue condizioni economiche sono effettivamente cambiate. Può chiedere la revoca o la riduzione dell’assegno di mantenimento? La situazione è dubbia perché sembra un cane che si morde la coda. Infatti, nel determinare l’ammontare del Reddito di Cittadinanza, gli importi dell’assegno di mantenimento già sono stati considerati. Nel frattempo è però vero che il reddito è comunque aumentato. Il coniuge che versa potrebbe chiedere una riduzione. Spetta poi al Giudice decidere, sulla base di vari fattori da valutare, tra cui anche la temporaneità del Reddito di Cittadinanza, se ridurre gli importi a carico dell’ex coniuge o addirittura liberarlo da tale onere.

Divorzio: ritornare a convivere non sempre interrompe la separazione

Cosa succede se due coniugi separati decidono di convivere nuovamente per ragioni pratiche? Si può ritenere interrotta la separazione e quindi vengono meno i presupposti per il divorzio? A queste domande risponde una recente ordinanza della Corte di Cassazione, la n° 14037 22 ottobre 2020 – 21 maggio 2021 della I sezione civile.

La separazione personale dei coniugi

Coma sappiamo, la legge detta una disciplina generale e astratta quindi che si applica a una situazione ipotetica ( che potrebbe verificarsi o meno) e alla generalità delle persone, le sentenze invece si applicano nel caso concreto, ed esclusivamente ad esso, ma quando le pronunce sono della Corte di Cassazione sono ritenute particolarmente importanti e sono considerate una sorta di linea guida per i casi simili.

Nella generalità dei casi se due coniugi in regime di separazione, anche giudiziale, ricominciano a convivere si intende interrotta la separazione e questa è alla base per il successivo divorzio. Solo con il divorzio vengono meno gli effetti civili dell’unione matrimoniale.

Alla base di questa disciplina c’è l’articolo 157 del codice civile che stabilisce: ”

I coniugi possono di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice, con una espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione.  (c2)   La separazione può essere pronunziata nuovamente soltanto in relazione a fatti e comportamenti intervenuti dopo la riconciliazione.”

Il caso: ritornare a convivere non sempre interrompe i termini della separazione

Nel nostro caso i due coniugi, per ragione di convenienza/opportunità, avevano ripreso la convivenza, ma si trattava esclusivamente di un interesse di tipo materiale, infatti lei era gravemente diabetica e lui aveva manifestato patologie al cuore. Per maggiore comodità di entrambi il marito era tornato nella ex casa familiare in quanto più vicina al luogo di lavoro. Nel frattempo però:

  • aveva continuato a versare alla ex moglie l’assegno mensile stabilito di 500 euro;
  • dormiva sul divano;
  • infine, aveva continuato la frequentazione con la nuova compagna.

La ex moglie invece riteneva che, sebbene non vi fossero rapporti fisici, la loro coppia fosse ricostituita e a base di tale assunto poneva le testimonianze degli amici che avevano partecipato a cene e vacanze della coppia e il fatto che l’assenza di rapporti era dovuta prevalentemente alle condizioni di salute di entrambi. Di conseguenza chiedeva l’improcedibilità della domanda di divorzio (le testimonianze comunque non sono state ammesse).

L’assenza di affectio maritalis ( e di rapporti fisici) rende procedibile la domanda di divorzio

Questi elementi secondo la Corte di Cassazione sono indice di una mancata ricostituzione dell’affectio maritalis, elemento essenziale per interrompere gli effetti della separazione. La Corte rileva che in questo caso non c’è stata la “necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali, caratteristici della vita coniugale” e che tale orientamento è consolidato come si può rinvenire nelle sentenze Cass. 19497/2005; Cass. 19535/2014; Cass. 20323/2019.

In questo caso la convivenza può essere parificata a quella di due amici che si supportano a vicenda in un momento di difficoltà e che non fa quindi sorgere o rivivere diritti.

La sentenza è importante anche perché l’interruzione della separazione, se effettiva, costringe i coniugi che manifestino nuovamente l’intenzione di separarsi a ricominciare nuovamente dall’inizio, come se non fossero mai stati separati e questo potrebbe incidere anche sull’addebito della separazione stessa. Infatti, quando si riprende la procedura è necessario determinare nuovamente quale dei due coniugi ha generato la crisi matrimoniale e potrebbe esservi un ribaltamento totale della situazione (articolo 157 codice civile comma 2). Ciò può avere effetti pratici molto rilevanti perché il coniuge a cui sia addebitata la separazione non ha diritto all’assegno di mantenimento, ma esclusivamente, e in limitati casi, all’assegno alimentare che ha importi molto ridotti.

Come estromettere il coniuge separato dall’eredità?

E’ possibile estromettere il coniuge separato o divorziato dall’eredità? Per saperlo, dobbiamo conoscere la modalità con la quale i coniugi si sono separati, da essa, infatti, dipende la risposta.

L’esclusione dal testamento dopo la separazione

Per legge, la separazione legale è il periodo che intercorre tra la fine del matrimonio, ma non di tutti i diritti da esso derivanti, e il divorzio che ne sancisce la fine definitiva. La separazione consensuale ha una durata di sei mesi, mentre quella giudiziale dura un anno. Uno dei diritti che viene mantenuto in questo lasso temporale è il diritto di successione. Ma, esistono delle eccezioni.

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Entrando nel dettaglio, quando la separazione avviene addebitata a uno dei coniugi, la separazione non può essere consensuale, bensì giudiziale. In tal caso, l’ex coniuge perde ogni diritto alla successione ereditaria. In linea di massima, il coniuge separato potrà essere estromesso dall’eredità tramite testamento.

Impugnazione del testamento

Qualora venisse escluso dall’eredità il coniuge separato tramite testamento, ci sono tre condizioni che devono essere presenti affinché si possa impugnare il testamento, e sono:

  • la coppia sia ancora separata ma non divorziata;
  • all’ex coniuge non sia stata addebitata la separazione;
  • il marito sia morto prima del divorzio.

La separazione non legale

Nel caso in cui i due coniugi abbiano deciso di separarsi solo di fatto, ovvero che ognuno abbia iniziato a vivere separatamente, ma senza formalizzare la separazione legalmente, i coniugi è come se non fossero separati. Pertanto, non sarà possibile escludere l’altro coniuge dall’eredità, in quanto quest’ultimo avrà diritto a una parte del patrimonio in qualità di erede legittimario o necessario.

L’estromissione dal testamento dell’ex coniuge dopo il divorzio

Con la pronuncia di divorzio vengono a cadere tutti i dubbi legati al come escludere l’ex coniuge dall’eredità, in quanto la rottura del vincolo matrimoniale provoca la perdita dei diritti successori, indipendente dalla presenza o meno di un testamento.

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In caso di morte, cosa spetta al coniuge sopravvissuto?

In una situazione normale, ovvero in mancanza di una separazione o di un divorzio, il coniuge rappresenta un erede necessario che ha dunque diritto a una quota del patrimonio del de cuius. La ripartizione varia a seconda della presenza di figli.

Al coniuge sopravvissuto spetta metà dell’eredità in caso ci sia un solo figlio a cui spetta l’altra metà. In presenza di due o più figli, quest’ultimi hanno diritto a due terzi dell’eredità, mentre al coniuge un terzo.

In mancanza di figli, ma anche di discendenti e ascendenti, al coniuge spetta l’intera eredità, in quanto erede universale.

In tutti gli altri casi che prevedono la mancanza di figli, ma la presenza di fratelli oppure di genitori o ancora di discendenti e ascendenti, il coniuge ha diritto a due terzi dell’eredità.

Per quanto concerne la casa coniugale, il coniuge sopravvissuto ha diritto ad abitarci in quanto costituisce la residenza di famiglia. Inoltre, mantiene il diritto di successione anche in caso di eventuale contratto di locazione. L’unica cosa da fare è volturare l’affitto.

Anche se gli altri eredi diventano proprietari dell’immobile, non possono privare il coniuge superstite di vivere nella predetta abitazione fino alla fine dei suoi giorni. Tale diritto si perde in caso di separazione e si mantiene, invece, quello alla pensione di reversibilità.

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Matrimoni, diritti e doveri: ecco la guida del Notariato

Continua la collaborazione tra Consiglio Nazionale del Notariato e 12 Associazioni dei Consumatori (Adiconsum, Adoc, Altroconsumo, Assoutenti, Casa del Consumatore, Cittadinanzattiva, Confconsumatori, Federconsumatori, Lega Consumatori, Movimento Consumatori, Movimento Difesa del Cittadino, Unione Nazionale Consumatori), che hanno presentato nei giorni scorsi al pubblico e alla stampa l’undicesima Guida per il Cittadino “Il matrimonio: diritti e doveri in famiglia”, dedicata agli obblighi di legge che marito e moglie assumono reciprocamente e nei confronti dei figli, alle disposizioni in ambito successorio e previdenziale, nonché alle novità in tema di separazione e divorzio.

Secondo i dati Istat, dal 1972 il numero dei matrimoni in Italia è in costante diminuzione ed in particolare negli ultimi 20 anni la flessione media annua è stata dell’1,2%. A calare sono soprattutto i matrimoni tra sposi di cittadinanza italiana: 145.571 celebrazioni nel 2013, oltre 40mila in meno negli ultimi cinque anni. I matrimoni con almeno uno sposo straniero sono circa 26mila e  di questi la tipologia prevalente è quella in cui la sposa è di cittadinanza straniera: 14.383 nozze (il 78% di tutti i matrimoni misti). Una sposa straniera su due è cittadina di un Paese dell’Est Europa (Ue e non-Ue).

Parallelamente alla diminuzione dei matrimoni, crescono le nuove modalità di vita insieme: sono oltre 4 milioni i single non vedovi, quasi 4 milioni le persone che vivono in famiglie di mono-genitori non vedovi, circa 3 milioni le persone che vivono in famiglie di non coniugati e quasi 2 milioni quelle che vivono in famiglie ricostituite coniugate.

In totale si tratta di oltre 13 milioni di persone; il 21% della popolazione, dato quasi raddoppiato rispetto al 1998 vive in famiglie non tradizionali. Le libere unioni hanno superato il milione nel 2012-2013 e rappresentano il 7% delle coppie; sono più diffuse nel Nordest, presentano un titolo di studio più elevato e una percentuale maggiore di quelle coniugate  dove entrambi lavorano. Diminuisce inoltre il numero di coppie decise contrarre i matrimoni all’inizio dell’unione e cresce la percentuale di “possibilisti” (34%).

La Guida offre una panoramica sulle tipologie di matrimoni attualmente previste dal nostro ordinamento, sugli effetti che producono sul piano dell’ordinamento giuridico italiano ed illustra anche le nuove procedure di divorzio per negoziazione assistita e per richiesta congiunta innanzi all’ufficiale di stato civile. Entrambe intro­dotte dal D.L. 132/2014, sono utilizzabili unicamente nel caso in cui il divorzio dipenda da separazione protratta. 

Dallo status di coniuge scaturiscono importanti effetti che riguardano in particolare l’ambito previdenziale, successorio e che incidono sull’applicazione di determinati istituti giuridici. La Guida affronta tutti questi aspetti in maniera chiara e divulgativa.

Divorzio breve, è la volta buona?

Quella del cosiddetto “divorzio breve” è una questione che periodicamente si ripresenta in Italia, per diversi motivi. Intanto perché le cause relative a questo ambito contribuiscono non poco ad aumentare l’arretrato civile, che non è di lieve entità: si parla di 5,4 milioni di cause. Poi, per tutto il retaggio cattolico che permea la cultura del nostro Paese e che, secondo molti, è il vero ostacolo a un’evoluzione più moderna dell’istituto del divorzio.

Fatto sta che anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha annunciato, tra le misure per fronteggiare l’enorme mole di processi civili pendenti, un provvedimento in materia di divorzio breve. Il Guardasigilli ha esposto il proprio programma in commissione Giustizia, al Senato e, tra le quattro emergenze da affrontare subito (arretrato civile, lotta alla criminalità organizzata, mancanza di personale e sovraffollamento carcerario), quella dell’arretrato civile, lo preoccupa maggiormente. Ecco perché Orlando vorrebbe fare in modo che le cause pendenti che ingolfano i tribunali siano risolte con procedure alternative o trasferite in una sede arbitrale. Tra esse vi sono separazioni e divorzi.

All’inizio del mese, dalla Commissione giustizia della Camera era stato licenziato un testo bipartisan sul divorzio breve presentato da Alessandra Moretti (Pd) e Luca D’Alessandro (Fi), da discutere in aula entro maggio. Punti salienti erano che tra la separazione e il divorzio dovesse passare un anno, invece dei tre previsti oggi (9 mesi se la coppia non ha figli minorenni) e che la decorrenza del tempo partisse non dalla prima udienza di fronte al presidente del Tribunale, ma dal deposito della domanda di divorzio.

Un testo buono, sul quale Orlando è intervenuto inserendo la novità dell’accordo senza tribunale, sul modello francese: basterebbe l’accordo tra gli avvocati. Un modello proposto a gennaio dal ministro della Giustizia transalpino Christiane Taubira, che ha commissionato anche un rapporto per verificare la possibilità che sia un cancelliere e non un giudice a sancire i divorzi consensuali. Anche in Francia, come da noi, lo scopo della proposta è quello di decongestionare i tribunali civili. Secondo il ministro, “l’accordo dei coniugi assistiti dagli avvocati superi la necessità dell’intervento giurisdizionale, tranne nei casi di figli minori o portatori di grave handicap”. Staremo a vedere quale destino avrà questa proposta…

L’addebito della separazione

Con ordinanza n. 4540 del 24 febbraio 2011, i Giudici della Corte Cassazione affermavano che in presenza di “giusta causa” nell’allontanamento dalla casa coniugale di uno dei coniugi, non vi fossero i presupposti per l’addebito della separazione.

Si ritiene che tale comportamento, non costituisse di per sé motivo di addebito, essendo invece necessario verificare se esso fosse l’effetto dell’intollerabilità del rapporto oppure la causa.

Così il giudice, caso per caso, era chiamato ad effettuare una valutazione la quale lasciava un ampio margine di discrezionalità in ordine all’eventuale “scriminante” per il coniuge allontanatosi.

Ad esempio, si è ritenuto ricompreso nel concetto di “giusta causa”, il coniuge che si allontana a seguito di una stabile relazione extraconiugale dell’altro o il coniuge che subisce ripetuti atti di violenza dall’altro.

La questione va pertanto esaminata sotto il profilo dell’ampiezza delle scriminanti in presenza delle quali, un comportamento di per sé illegittimo e motivo di addebito della separazione, viene considerato legittimo.

Ciò premesso, appare evidente che se di scriminanti si tratta, debba farsi riferimento ad un principio generale affermato dalla normativa e ribadito più volte dalla Giurisprudenza; e cioè che l’allontanamento dalla residenza familiare, ove attuato unilateralmente dal coniuge, e cioè senza il consenso dell’altro coniuge, di per sé costituisce violazione di un obbligo matrimoniale e conseguentemente causa di addebito della separazione poiché porta all’impossibilità della coabitazione, obbligo e presupposto stesso di un rapporto matrimoniale.

Si è sostenuto in Giurisprudenza che se la frattura del rapporto coniugale è precedente all’allontanamento dall’abitazione, della quale pertanto non poteva essere stato causa, l’addebitabilità della separazione al coniuge che si allontani deve essere esclusa senza necessità di verificare ulteriormente se il comportamento dell’altro coniuge costituisca violazione dei suoi doveri coniugali.

A parere del sottoscritto il criterio sopracitato è troppo generico e soprattutto rimesso a valutazioni soggettive che prestano il fianco ad un ampissimo margine di discrezionalità da parte dei giudici di merito, con il rischio attuale di valutazioni difformi da tribunale a tribunale in ordine a situazioni pressoché identiche.

Ritengo che sia necessario un quid pluris affinché un comportamento codificato come “illegittimo” e fonte di conseguenze giuridiche rilevanti anche sotto il profilo patrimoniale (addebito della separazione), possa ritenersi ammissibile e giustificato.

Si tratta quindi di valutare con il massimo rigore possibile le situazioni in presenza delle quali l’allontanamento unilateralmente determinato dall’abitazione coniugale possa ritenersi giustificato.

In particolare, incomberà sul coniuge che si è allontanato l’onere della prova circa l’esistenza di quel giustificato motivo che, rendendo oggettivamente intollerabile il protrarsi della convivenza, ha legittimato il comportamento.

La Cassazione Civile con sentenza numero 2059 del 14.02.2012  ha stabilito che l’abbandono del tetto coniugale prima della domanda di separazione e senza una valida ragione fa scattare automaticamente l’addebito. A maggior ragione se il coniuge che ha reciso la coabitazione lo ha fatto per intraprendere una convivenza more uxorio. Infatti, il coniuge, il quale provi che l’altro ha volontariamente e definitivamente abbandonato la residenza familiare senza aver proposto domanda di separazione personale, non deve ulteriormente provare l’incidenza causale di quel comportamento illecito sulla crisi del matrimonio, implicando esso la cessazione della convivenza e degli obblighi ad essa connaturati, e gravando sull’altra parte l’onere di offrire la prova contraria, che quel comportamento fosse giustificato dalla preesistenza di una situazione d’intollerabilità della coabitazione, nonostante l’assenza della giusta causa prevista dall’art. 146 cpv. c.c..

Ovviamente, in presenza di accordo tra le parti o nel caso in cui la parte o le parti abbiano proceduto al deposito di un ricorso per separazione, l’allontanamento dalla casa coniugale non rappresenta motivo di addebito della separazione.

In problema si pone pertanto solo con riferimento alla valutazione del comportamento del coniuge che si allontana adducendo l’esistenza di situazioni talmente gravi da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza e non una generica e non motivata “intollerabilità”.

Avv. Matteo SANTINI | m.santini[at]infoiva.it | www.studiolegalesantini.com | Roma

È titolare dello Studio Legale Santini (sede di Roma). Il suo Studio è attualmente membro del Network LEGAL 500. || È iscritto come Curatore Fallimentare presso il Tribunale di Roma; Presidente Nazionale del Centro Studi e Ricerche sul Diritto della Famiglia e dei Minori; Membro dell’AGIT (associazione avvocati Giusconsumeristi); Consigliere Nazionale AGIT (associazione avvocati Giusconsumeristi); Responsabile per la Regione Lazio dell’Associazione Avvocati Cristiani; Membro dell’I.B.A. (International Bar Association); Membro della Commissione Osservatorio Giustizia dell’Ordine degli Avvocati di Roma; Segretario dell’Associazione degli Avvocati Romani; Conciliatore Societario abilitato ai sensi del Decreto Legislativo n. 5/2003; Direttore del “Notiziario Scientifico di Diritto di Famiglia”; Membro del Comitato Scientifico dell’ A.N.A.C. || Autore del Manuale sul trasferimento dell’Azienda edito dalla Giuffré (2006); Co-autore del Manuale sul Private Equity (2009 Edizione Le Fonti). || Docente di diritto e procedura penale al Corso in Scienze Psicologiche e Analisi delle Condotte Criminali (Federazione Polizia di Stato 2005). || Collabora in qualità di autore di pubblicazioni scientifiche con le seguenti riviste giuridiche: Diritto & Giustizia (Giuffré Editore); Corriere La Tribuna (Edizioni RCS); Notiziario Giuridico Telematico; Giustizia Oggi; Associazione Romana Studi Giuridici; Il Sole 24 Ore; Studium Fori; Filo Diritto; Erga Omnes; Iussit; Leggi Web; Diritto.net; Ius on Demand; Overlex; Altalex; Ergaomnes; Civile.it; Diritto in Rete; Diritto sul Web; Iusseek.

La casa coniugale (assegnazione in caso di separazione e divorzio)


di Matteo SANTINI

La casa coniugale o casa familiare è quel luogo fisicamente individuato (di norma corrispondente ad un appartamento) all’interno del quale i coniugi (o i conviventi more uxorio) svolgono la maggior parte della vita di coppia . Il diritto dell’assegnatario di un’abitazione già adibita a casa coniugale, si configura come un atipico diritto personale di godimento, trascrivibile e opponibile a terzi ai sensi dell’articolo 2643 del codice civile.

Con riferimento all’assegnazione della casa coniugale in caso di separazione o divorzio il nuovo testo dell’articolo 155-quater. del codice civile dispone che il godimento della casa familiare sia attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli.

La norma contempla esclusivamente il criterio d’elezione che deve ispirare l’organo giudicante al momento dell’emissione del provvedimento di assegnazione ma non indica quali sono i criteri secondari sulla base dei quali deve essere orientata la scelta in caso di assenza di prole. Tale omissione, forse scientemente voluta dal legislatore, lascia ovviamente alle Corti di merito un vasto margine di discrezionalità relativamente all’assegnazione della casa coniugale.

E’ opportuno rilevare come la lettera dell’articolo 155 quater del codice civile in riferimento all’assegnazione della casa coniugale, consideri come elemento non esclusivo ma solo prioritario per effettuare la scelta, l’interesse dei figli. Questo significa che pur essendovi un criterio di “scelta”, tuttavia, il Giudice non è obbligato a disporre l’assegnazione al coniuge economicamente più debole (che non vanti sulla stessa diritti reali o di godimento), neanche se ad egli siano affidati figli minori o con lui convivano figli maggiorenni non ancora economicamente autosufficienti, qualora l’equilibrio delle condizioni economiche dei coniugi e la tutela di quello più debole possano essere perseguiti altrimenti. (Con sentenza n. 9071 del 21.06.2001 la S.C. ha cassato una sentenza che aveva sostenuto la decisione unicamente sulla necessità di garantire l’esigenza del figlio maggiorenne, incolpevolmente non autosufficiente, a permanere nell’abitazione originaria, insieme con il padre non proprietario della casa).

Ancora la Corte di Cassazione con sentenza n. 376 del 15.01.1999 ha stabilito che non esiste alcun obbligo a carico del Giudice di assegnare la casa coniugale al coniuge economicamente più debole, neanche se a lui siano affidati figli minori o con lui convivano figli maggiorenni non ancora economicamente autosufficienti, qualora l’equilibrio delle condizioni economiche dei coniugi e la tutela di quello più debole possano essere perseguiti altrimenti (Cass. Civ. n. 376 del 15.01.1999).

In quest’ultimo caso la Corte (pur sotto la vigenza della vecchia normativa), si è spinta sino ad escludere qualsiasi riferimento all’interesse dei figli in ordine all’assegnazione della casa coniugale ponendo l’accento esclusivamente sul diritto di proprietà e sulle condizioni economiche delle parti e sulla tutela del coniuge debole.

Il corollario del suddetto principio è rappresentato dall’obbligo da parte del giudice di indicare, valutare e motivare le ragioni che, nell’esclusivo interesse della prole, lo inducano ad assegnare la casa familiare al coniuge con il quale la prole conviva, e tale obbligo assume sempre maggiore rigore, via via che aumenti l’età della prole, riducendosi con il passare degli anni la necessità di conservazione dell’ambiente familiare (Cass. Civ. n. 10797 del 29 ottobre 1998). Tale obbligo di motivazione assume infatti dimensioni di sempre maggiore puntualità ed aderenza alla fattispecie concreta, con l’aumentare l’età della prole, riducendosi con il passare degli anni la necessità di tale conservazione dell’habitat, con attenuazione del disagio psichico e materiale che si accompagna al mutamento dell’abitazione.

Solo qualora vi sia una situazione di cointestazione dell’immobile e non vi siano figli minori o maggiorenni conviventi, la valutazione delle condizioni economiche dei coniugi sarà presupposto prioritario ai fini dell’assegnazione della casa coniugale.

Cosi la Corte di Cassazione in sentenza n. 2070 del 23.02.2000: “Nell’ipotesi in cui la casa familiare appartenga ad entrambi i coniugi, manchino figli minorenni o figli maggiorenni non autosufficienti conviventi con uno dei genitori, ed entrambi i coniugi rivendichino il godimento esclusivo della casa coniugale, l’esercizio del potere discrezionale del giudice non può trovare altra giustificazione se non quella di, in presenza di una sostanziale parità di diritti, favorire quello dei coniugi che non abbia adeguati redditi propri, al fine di consentirgli la conservazione di un tenore di vita corrispondente a quello di cui godeva in costanza di matrimonio: da ciò consegue che, laddove entrambi i coniugi comproprietari della casa familiare abbiano adeguati redditi propri, il giudice dovrà respingere le domande contrapposte di assegnazione del godimento esclusivo, lasciandone la disciplina agli accordi tra i comproprietari, i quali, ove non riescano a raggiungere un ragionevole assetto dei propri interessi, restano liberi di chiedere la divisione dell’immobile e lo scioglimento della comunione. Ne consegue anche che, venuta meno la situazione che giustificava la temporanea compressione del diritto di comproprietà dell’ex coniuge non assegnatario, questi non può per ciò solo vantare alcun diritto al godimento esclusivo dell’abitazione della quale è mero comproprietario ma deve, in mancanza di accordo con l’ex coniuge assegnatario, proporre una domanda di divisione per lo scioglimento della comunione“.

Ciò sta a significare che l’assegnazione della casa coniugale cointestata, in presenza di un disequilibrio economico tra le parti, avrà come fine quello di riequilibrare le rispettive posizioni economiche, ma nel caso in cui non vi sia un coniuge economicamente più debole, e non vi siano figli minorenni o maggiorenni conviventi, non esisterà alcun criterio per poter disporre l’assegnazione ad un coniuge piuttosto che ad un altro e questo perché non vi è alcuna prevalenza di un diritto dell’uno su quello dell’altro bensì una condizione di esatta equivalenza tra i diritti in questione; entrambi i coniugi infatti risultano titolari di un diritto costituzionalmente garantito quale il diritto di proprietà e nessuno dei due si trova in una situazione di svantaggio economico tale da determinare in capo al soggetto più debole il sorgere di un diritto al mantenimento.

In modo difforme si è invece espressa la Suprema Corte con sentenza n. 11696/2001 affermando che in materia di divorzio, l’assegnazione della casa coniugale è finalizzata esclusivamente alla protezione della prole, e non è prevista in funzione della debolezza economica di uno dei coniugi, alle cui esigenze è destinato l’assegno divorzile. Ne consegue che il giudice non potrebbe, in assenza di figli conviventi, assegnare la casa coniugale, della quale i coniugi siano comproprietari, a quello fra i due che ritenga economicamente più debole, onde sopperire a tale squilibrio.

A parere di chi scrive, questo criterio deve ad oggi essere considerato come completamento superato in virtù del nuovo testo dell’articolo 155 del codice civile il quale ribadisce espressamente che il criterio prioritario per disporre l’assegnazione è quello della tutela della prole; il che significa che accanto ad un criterio “prioritario” ben possono coesistere altri criteri da adottare in via subordinata specie quando non vi sono figli minori o maggiorenni conviventi.

Questo sta a significare che ai fini dell’assegnazione della casa sulla quale entrambi i coniugi vantino diritti di proprietà, il giudice potrà anche tenere conto delle condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione a favorire il coniuge più debole, ed in caso di assenza di figli minori o conviventi potrà valutare anche le ulteriori finalità volte a consentire un certo equilibrio tra le condizioni economiche dei coniugi ed al tempo stesso ad assicurare una soluzione sostanzialmente equa, in quanto correlata alle ragioni della decisione, nonché a favorire il coniuge più debole.
Tuttavia, come opportunamente osservato dalla Corte di Cassazione (12428/1991) il giudice non può disporre l’assegnazione a favore del soggetto non titolare del diritto di proprietà o godimento, ove questi non abbia la qualità di assegnatario di figli minori o di convivente con i figli maggiori (non autonomi), atteso che la norma citata, di natura eccezionale, si fonda essenzialmente sulla necessità di conservare l’habitat domestico (inteso come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita della famiglia). Come testé affermato qualora il Giudice nulla disponga in ordine all’assegnazione, l’utilizzo della casa coniugale spetterà automaticamente ed esclusivamente al coniuge esclusivo proprietario.

Avv. Matteo SANTINI | m.santini[at]infoiva.it | www.studiolegalesantini.com | Roma

È titolare dello Studio Legale Santini (sede di Roma). Il suo Studio è attualmente membro del Network LEGAL 500. || È iscritto come Curatore Fallimentare presso il Tribunale di Roma; Presidente Nazionale del Centro Studi e Ricerche sul Diritto della Famiglia e dei Minori; Membro dell’AGIT (associazione avvocati Giusconsumeristi); Consigliere Nazionale AGIT (associazione avvocati Giusconsumeristi); Responsabile per la Regione Lazio dell’Associazione Avvocati Cristiani; Membro dell’I.B.A. (International Bar Association); Membro della Commissione Osservatorio Giustizia dell’Ordine degli Avvocati di Roma; Segretario dell’Associazione degli Avvocati Romani; Conciliatore Societario abilitato ai sensi del Decreto Legislativo n. 5/2003; Direttore del “Notiziario Scientifico di Diritto di Famiglia”; Membro del Comitato Scientifico dell’ A.N.A.C. || Autore del Manuale sul trasferimento dell’Azienda edito dalla Giuffré (2006); Co-autore del Manuale sul Private Equity (2009 Edizione Le Fonti). || Docente di diritto e procedura penale al Corso in Scienze Psicologiche e Analisi delle Condotte Criminali (Federazione Polizia di Stato 2005). || Collabora in qualità di autore di pubblicazioni scientifiche con le seguenti riviste giuridiche: Diritto & Giustizia (Giuffré Editore); Corriere La Tribuna (Edizioni RCS); Notiziario Giuridico Telematico; Giustizia Oggi; Associazione Romana Studi Giuridici; Il Sole 24 Ore; Studium Fori; Filo Diritto; Erga Omnes; Iussit; Leggi Web; Diritto.net; Ius on Demand; Overlex; Altalex; Ergaomnes; Civile.it; Diritto in Rete; Diritto sul Web; Iusseek.