Marchionne: la Fiat resta in Italia

“Anche nell’eventualità di una calamità assoluta in Italia, che avrebbe impatti disastrosi su aziende che sono totalmente italiane, la realtà nostra è diversa, ma questo non significa che noi stiamo allentando su un impegno che abbiamo verso il Paese e lo sviluppo della nostra attività”.

Così l’AD della Fiat Sergio Marchionne sembra mettere fine alla “telenovela” scatenatasi dopo la sua intervista in cui sibillinamente aveva annunciato l’addio al Belpaese.

Fonte: tgcom24.mediaset.it

L’Italia? Rassegniamoci, non è un Paese per imprenditori

di Gianni GAMBAROTTA

Non è un Paese per imprenditori“, si potrebbe dire dell’Italia parafrasando il titolo di un film di qualche anno fa dei fratelli Cohen. E sì, a chi vuole fare industria il nostro Paese proprio non piace da qualche tempo a questa parte. Gli investitori stranieri ormai lo evitano e gli italiani non sono da meno. Chi può (per dimensioni, cultura, appoggi finanziari) preferisce andarsene da un’altra parte. 

L’ultimo caso, eclatante, è quello di Sergio Marchionne. L’amministratore delegato della Fiat, nei giorni scorsi ha detto che molto probabilmente nel giro di qualche anno il baricentro del gruppo automobilistico nato dall’integrazione fra la Fiat e la Chrysler, si trasferirà oltreoceano, a Detroit. Torino rimarrà, certo, ma non sarà più il quartier generale, la testa della multinazionale, il luogo dove vengono prese le decisioni strategiche. D’accordo, nell’atteggiamento di Marchionne c’è qualche elemento strumentale: l’amministrazione di Barack Obama ha concesso prestiti da miliardi di dollari e vuole che questi soldi non solo vengano restituiti al più presto, ma anche che siano serviti per salvare un’azienda americana, e non italiana. In più, la Fiat ha finora il 25 per cento di Chrysler: se vuole salire e consolidarla, deve passare attraverso i sindacati, ora azionisti di maggioranza. E anche loro – ovviamente – vogliono che Detroit prevalga su Torino.

Quindi ci sono questi oggettivi argomenti tattici che influenzano le dichiarazioni del capo del Lingotto. Ma non è solo questo. Marchionne ha dimostrato chiaramente di non amare il clima sociale e sindacale che si vive in Italia. Lui è di cultura americana e si trova molto più a suo agio dall’altra parte dell’Atlantico. Il rischio che finisca per portare lì la stanza dei bottoni non è da sottovalutare.

Chi invece si trova benissimo in Italia è la famiglia Benetton. Nei giorni scorsi è stato annunciato che aumenterà la sua presenza azionaria nella Gemina, la finanziaria cui fanno capo gli Aeroporti di Roma. Ecco: questa famiglia diventata famosa nel mondo con le sue magliette, ora nel fashion è in difficoltà, non riesce a reggere la concorrenza di nuovi protagonisti come Zara e H&M. Così si è ritirata nelle nicchie protette: Autostrade, Grandi stazioni e aeroporti. Qui la competizione è quasi inesistente: una volta vinta la gara per assicurarsi il business (e qui ci vogliono buone relazioni e ottimi lobbisti) basta di anno in anno andare a batter cassa e chiedere aumenti tariffari (e anche questo è lavoro da lobbisti). Essere buoni imprenditori non ha molta importanza. Che volete? La cosa potrà non piacere, ma oggi l’Italia funziona così.

Marchionne ha vinto, viva Marchionne! Ma è sbagliato ignorare il consenso per Fiom

Solo la vicenda di Mirafiori ha conteso il primato delle prime pagine dei giornali all’ennesima puntata dello scontro fra Silvio Berlusconi e la Procura milanese per via del famoso bunga-bunga nella villa di Arcore con la minorenne Ruby e allegra compagnia. In effetti il referendum torinese è, da un certo punto di vista, più importante ed è destinato, nel lungo periodo, a incidere sulla vita del Paese più di quella cronaca francamente squallida.

Ai lavoratori dello storico stabilimento, il più grande d’Italia e fra i principali in Europa, è stato chiesto se approvavano o meno l’accordo firmato da azienda e tutti i sindacati, tranne la Fiom-Cgil, che prevede maggiore flessibilità in fabbrica, la possibilità di richiedere un numero più alto di ore di straordinario, una serie di misure contro l’assenteismo, eccetera. Insomma, un’intesa con l’obiettivo di aumentare la produttività, di rendere le catene di montaggio italiane paragonabili non a quelle cinesi o dei Paesi in via di sviluppo, ma a quelle della Germania oppure a quelle della Polonia dove, la  stessa Fiat produce, con l’identico numero di dipendenti, il doppio delle auto che riesce a sfornare a Torino.

Come si sa, l’amministratore delegato della Fiat, il grintoso Sergio Marchionne, condizionava a quel sì un piano di investimenti che (nelle sue promesse) avrebbe consentito di mantenere in vita l’impianto. Marchionne e l’azienda l’hanno avuta vinta, ma di stretta misura. Il referendum è passato, ma le previsioni di una marcia trionfale dei sì sono state smentite. Il 54 per cento dei dipendenti di Mirafiori si è espresso favorevolmente, il 46 ha votato contro. Determinanti per il successo sono stati gli impiegati dello stabilimento, i colletti bianchi, che in massa (o quasi) si sono espressi per il sì. Senza di loro, il referendum sarebbe passato per un soffio (7 voti): praticamente un pareggio. Questo vuol dire che dopo il 14 gennaio, la Fiat può impostare una nuova fase nei rapporti industriali con vantaggio per tutto il sistema Paese. Ma la Fiom-Cgil è tuttora protagonista nelle fabbriche e riceve consensi: può piacere o no, ma sarebbe un errore ignorarlo.

L’altra considerazione da fare riguarda i piani di sviluppo della Fiat. Ha voluto il referendum, lo ha vinto. Ora deve progettare, produrre, mettere in vendita modelli di auto di successo. Da questo punto di vista la situazione non è incoraggiante. Gli ultimi dati ufficiali (quelli di novembre) sono un campanello d’allarme: la quota della Fiat sul mercato europeo è scesa sotto il 7 per cento. Marchionne, quando ha varato l’operazione Chrysler, ha detto che, per essere competitivo, un produttore di auto deve poter contare almeno su 5 milioni di modelli venduti ogni anno. Se continua a perdere terreno come sta facendo, l’obiettivo per il gruppo italo-americano non fa che allontanarsi.

Ma la politica s’è accorta della svolta epocale decisa da Marchionne?

di Gianni GAMBAROTTA

Mentre i palazzi della politica sono tutti impegnati a contare voti e a immaginare coalizioni governative, maggioranze improbabili, o ricorsi al popolo sovrano, fuori da queste segrete stanze succedono cose davvero importanti che lasceranno un segno nella storia del Paese. Il manager con il maglione, l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, ha deciso che d’ora in poi la prima fabbrica italiana farà a meno della Confindustria. Tratterà i suoi rinnovi contrattuali in assoluta indipendenza, concluderà gli accordi con i sindacati che vorranno sottoscriverli e andrà avanti così, incurante di pressioni, suggerimenti alla prudenza, proteste di piazza.

Perché ha preso questa decisione, che del resto era nell’aria da settimane, è noto. La Fiat ha assunto il controllo della Chrysler, è diventata davvero una multinazionale impegnata su tutti i mercati mondiali. E da azienda globale qual è adesso, deve seguire le regole che si applicano appunto a livello globale. Se non fa così, non può sperare di sopravvivere alla competizione internazionale ogni giorno più dura. Che cosa vuol dire questo? Quale novità reale, sostanziale porta il nuovo corso di Marchionne?

L’Italia, dalla fine della guerra e in maniera più accentuata dall’autunno caldo del 1969 in poi, è stata pesantemente condizionata dalla presenza sindacale. Per 60 anni, la cosiddetta Triplice (Cgil, Cisl, Uil) ha avuto un potere decisivo non solo su temi retributivi e normativi relativi al mondo del lavoro, ma su tutti gli aspetti della politica che, direttamente o indirettamente, toccavano l’economia. Non c’è stata decisione che non sia stata affrontata al cosiddetto tavolo delle parti sociali, vale a dire governo, sindacati e organizzazione degli imprenditori (Confindustria).

Questo ha portato a una lentezza del processo decisionale che non ha confronti nei moderni Paesi industrializzati. Ha creato inefficienza. Ma fosse stato solo questo: ha creato una situazione che, nel tempo, ha palesato un contenuto di profonda ingiustizia politica e sociale. Con un simile sistema si è dato vita a un Paese diviso a metà: una parte più privilegiata fatta da imprese e lavoratori rappresentati sindacalmente, più protetta, più forte, con più diritti; l’altra, formata da tutti quelli che non appartengono alle suddette categorie e assai più numerosa, esclusa da privilegi e aiuti, ridotta al rango di Serie B.

La scelta di Marchionne, che ha deciso che disegnerà le future strategie Fiat senza passare sotto le force caudine della potentissima Fiom-Cgil e risparmiandosi le liturgie confindustriali, manda in pensione due elementi che sono stati determinanti nel sistema di potere nazionale. Se ne stanno accorgendo i signori del Palazzo? Riescono a vedere che fuori dall’emiciclo di Montecitorio e lontano dai riflettori dei talk show televisivi tanto amati, il Paese sta andando avanti per la sua strada? E che fa scelte storiche senza neppure interpellare la politica?