Le città italiane a maggiore capitalizzazione

Roma, Milano e Torino restano le tre città con il maggior valore in tutta Italia in termini di capitalizzazione borsistica. È quanto emerge da uno studio di Simon-Kucher & Partners, società di consulenza direzionale, che anche quest’anno ha analizzato la capitalizzazione azionaria delle imprese incluse nel FTSE MIB.

Grazie a una copertura pari a quasi alla metà della capitalizzazione totale delle imprese incluse nell’indice (42%), Roma si conferma in testa alla speciale graduatoria stilata con un totale capitalizzato di oltre 180 miliardi. Milano riesce ad affermarsi al secondo posto (84,2 miliardi), distanziando Torino di circa sei punti percentuali (60,6 miliardi).

È ancora una volta grazie alla presenza sul proprio territorio degli headquarter di importanti realtà quali Eni, Enel e Unicredit che Roma si trova oggi saldamente in prima posizione“, commenta il dott. Danilo Zatta, Partner per l’Italia per Simon-Kucher.

Tuttavia, facendo riferimento alla capitalizzazione media nelle diverse città, emergono diverse situazioni interessanti. Con la creazione di CNH Industrial e FCA, si è verificato uno spostamento delle sedi legali di importanti brand da Torino ai Paesi Bassi. Di conseguenza, il capoluogo piemontese vede oggi due sole aziende sul proprio territorio, ma con una capitalizzazione media di 30 miliardi di euro. Un risultato dovuto principalmente alla ottima performance di Intesa Sanpaolo. La maggior capitalizzazione borsistica di Milano è invece spalmata su un numero maggiore di aziende (nove), che quindi si trova ad avere una capitalizzazione media di nove miliardi.

Trieste si conferma poi come una delle città a più elevata capitalizzazione media con 26,8 miliardi, realizzati dalla sola Assicurazioni Generali.

Milano, quindi, grazie al sensibile aumento della capitalizzazione di Luxottica e Telecom Italia e alla costante presenza di aziende del calibro di Mediaset, Mediobanca e Pirelli, vede crescere sensibilmente il proprio valore aggregato rimanendo stabile ai piani alti della classifica, ma non ancora in grado di superare Roma.

Da un’analisi aggregata, le tre principali città italiane (Roma, Milano e Torino) generano complessivamente 325 miliardi di euro, ovvero il 76% della capitalizzazione complessiva delle imprese italiane quotate in Borsa (che ammonta a 430 miliardi).

Se le prime cinque posizioni rimangono invariate, si presentano quindi Bologna (6,6 miliardi), in sesta posizione grazie alle ottime performance di UnipolSai, e Bergamo settima (6,3 miliardi), che si conferma nella Top 10. Firenze (4,7 miliardi) scivola in undicesima posizione, mentre Modena (3,8 miliardi), grazie alla presenza di Banca Popolare Emilia Romagna, guadagna due posizioni e si colloca in tredicesima posizione. Genova si ripropone nella lista (18esima) grazie ad Ansaldo, che con i suoi 1,9 miliardi viene nuovamente inclusa nell’indice FTSE MIB (era stata esclusa da marzo 2014 ad aprile 2015).

Nonostante non rientrino nella Top 10, nel 2015 continuano ad essere presenti nella lista FTSE MIB anche alcuni piccoli centri urbani grazie ad aziende storiche come Campari (Sesto S. Giovanni), Mediolanum (Basiglio) e Tod’s (S. Elpidio a Mare). Si conferma infine anche la piccola realtà di Zola Predosa grazie al crescente successo dell’e-store multi-brand di moda e design Yoox.

Se, come commenta Zatta, “in Italia si nota come non siano solo le grandi città a poter raggiungere posizioni di leadership in classifica“, è pur vero che questo tipo di frammentazione si riscontra anche in Germania, un Paese molto forte economicamente, in cui la struttura urbana e industriale delle Pmi è sotto certi aspetti simile all’Italia.

Non splende il sole sul fotovoltaico italiano

L’uscita dall’energia atomica non offrirà alcun vantaggio al settore solare. Al contrario, l’attività nei mercati principali è in recessione e minaccia in modo crescente gli interessati. “Nei prossimi anni oltre la metà delle industrie del settore solare scomparirà“, ha pronosticato Danilo Zatta, Senior Director della società di consulenza internazionale Simon-Kucher & Partners, il quale, come consulente aziendale, ha assistito sia multinazionali sia PMI in Italia e a livello globale ed è il responsabile del Centro di Competenza “Energie rinnovabili” in Italia.

La domanda sta calando, anche a causa del mutato contesto politico. Il taglio ai contributi per il conto energia è solo uno degli esempi. Le aziende fornitrici di energia si affidano sempre più all’energia eolica. Dopo una fenomenale crescita nel 2010, il mercato fotovoltaico italiano ha subito una battuta d’arresto nel 2011 a causa della nuova normativa voluta dal governo italiano a partire dal 31 maggio 2011, che ha creato forte incertezza. A fine 2010 solo 2.3 Gigawatt sono installati – con il Quarto Conto Energia ne sono previsti altri 3-5 entro fine 2011 (Fonte: EPIA “Global Market Outlook for PV until 2015”). Nei magazzini di tutto il mondo sono stoccati moduli per una potenza pari a 10 GW. Il settore solare sta perdendo oltre sei milioni di euro al giorno a causa della caduta dei prezzi del 15% all’anno. Secondo Zatta, “il settore solare ha già superato da parecchio tempo il suo periodo d’oro. Per fermare questa tendenza negativa le imprese ora devono darsi da fare e calibrare le strategie di vendita“.

Le grosse giacenze di magazzino, pari a 10 GW, dei moduli solari provocano un’elevata perdita di valore e compromettono le aspettative di profitto per quest’anno. Presupponendo l’attuale livello di prezzi di circa 1,50 €/kW e una riduzione dei prezzi pari al 15% si ottiene una perdita di valore di 2,25 miliardi di euro all’anno, corrispondente a 6,2 milioni di euro al giorno. Inoltre la competizione della Cina accresce la pressione. “I cinesi sono qualitativamente all’altezza dei produttori occidentali, ma hanno costi di produzione minori e, allo stesso tempo, investono molto denaro nella distribuzione e nel rafforzamento del mercato e della notorietà“, chiarisce Zatta. Ad esempio, l’impresa cinese Yingli è il maggiore partner della FIFA e del Bayern Monaco, squadra della Bundesliga, la serie A tedesca. Le attività su grande scala, che rafforzano il mercato, sono a malapena presenti nel settore fotovoltaico italiano. Zatta critica il fatto che molte imprese italiane non abbiano né una posizione competitiva chiara né profilo di mercato ben definito. “Chi non ha le dimensioni di Bosch avrà difficoltà ad imporsi e a restare sul piano internazionale. Perciò, per le piccole imprese, è molto problematico ricercare la fortuna sul mercato statunitense o cinese, anche a causa degli scarsi mezzi finanziari“, sostiene. Inoltre manca una distribuzione convincente, specialmente per ciò che riguarda l’elaborazione del mercato e la vicinanza ai clienti. Chi non investe nel mercato e nella diffusione sarà annoverato tra i perdenti e, di conseguenza, scomparirà.

La caduta dei prezzi assottiglia molto il profitto. Un altro fattore potenzialmente fatale per le imprese del settore solare è infatti rappresentato dalla sottovalutazione dell’effetto leva dei prezzi sul profitto. Molte imprese del settore solare non si sono ancora attrezzate per la caduta dei prezzi, già in atto. L’analisi di 13 imprese del settore solare, quotate in Borsa, dimostra che non sono soltanto le piccole e medie imprese a essere colpite dalla caduta dei prezzi. Ciò provoca forti perdite di profitto per le aziende del settore. Finora la maggior parte delle imprese del settore solare ha dovuto combattere contro questa caduta dei prezzi per non ritrovarsi con un profitto azzerato e i conti in rosso.

I risultati dell’analisi sono allarmanti. “Questo sviluppo è drammatico. Tuttavia esistono ancora dei rimedi” spiega Zatta, il quale consiglia di limitare la caduta dei prezzi con una differenziazione degli stessi e dell’offerta di servizi a valore aggiunto. Se si riuscisse a limitare il calo dei prezzi al 5% rispetto al 10%, le imprese del settore solare realizzerebbero al posto di una perdita un utile pari a circa mezzo miliardo di euro. “Il prezzo è la maggiore determinante del profitto e questo deve risultare chiaro anche alle imprese del settore solare“, ribadisce Zatta. Inoltre critica nuovamente la mancanza di concetti fondamentali per il mantenimento di un premio di prezzo, per la differenziazione di prezzo e per l’offerta di pacchetti specifici a gruppi target. “Le imprese del settore solare sono sottoposte a pressioni su tutti i versanti e lo sforzo per eliminare tali pressioni spetta principalmente a loro stesse“, conclude.

d.S.

Quanto vale in Borsa la tua città?

Spread, Bot, indici, Ftse… La crisi economica che attanaglia il mondo ci sta facendo familiarizzare, nostro malgrado, con un sacco di termini proprio del mondo borsistico. Pochi però, forse, si rendono conto del fatto che la Borsa è qualcosa che, nella realtà, è molto più vicino alle imprese e alle famiglie di quanto non sembri. Qualcuno si è mai posto il problema, per esempio, di quanto possa valere (o meglio, capitalizzare) in Borsa la propria città?

Lo ha fatto Simon-Kucher & Partners, società di consulenza aziendale, che ha studiato la capitalizzazione azionaria delle imprese nelle varie città italiane. Risultato: Roma, Milano, Torino e San Donato Milanese restano anche per il 2012 le città di maggior capitalizzazione.

La Capitale, nonostante il suo “vestito” da vecchia signora della burocrazia e di centro dei maneggi politici, con 8 aziende e 132 miliardi di euro è ancora in vetta alla classifica. Sebbene vi sia una sola azienda in più quotata rispetto a Milano (8 contro 9), il valore è ben superiore, più del doppio. Anche se si raggruppassero le altre città in provincia di Milano al top della classifica – San Donato Milanese (4°), Sesto San Giovanni (6°) e Basiglio (11°) – la capitalizzazione risulterebbe ancora inferiore rispetto a Roma, nonostante le 13 aziende in confronto alle 9 della Capitale.

Roma deve il suo successo a Eni ed Enel, che da sole superano i 90 miliardi di euro di capitalizzazione. Milano vanta Luxottica e Telecom Italia, Torino Intesa San Paolo, Fiat Auto e Fiat Industrial. San Donato deve la sua presenza in classifica a Saipem e Snam Rete Gas, mentre Trieste, anche quest’anno quinta, deve tutto a Generali.

Lo studio di Simon-Kucher & Partners rileva anche l’incidenza della crisi. Rispetto al 2011 la maggior parte delle città ha subito infatti una diminuzione della capitalizzazione azionaria. Uniche eccezioni Milano, che resta stabile, e Firenze che, grazie a Salvatore Ferragamo, guadagna 10 posizioni passando da una capitalizzazione di 0,71 a quasi 3 miliardi di euro. Brescia con A2A dimezza la propria capitalizzazione ed esce dalla Top 10, perdendo 10 posizioni. Genova, invece, continua a non classificarsi tra le prime 10 città, anzi risulta essere all’ultimo posto. New entry è Modena che raggiunge il 17° posto.

Nella classifica si ritrovano, oltre alle grandi metropoli, anche una serie di piccoli centri urbani: Sesto San Giovanni con Campari, Collecchio con Parmalat, Sant’Elpidio a Mare con il gruppo Tod’s. Tutte città che devono la loro comparsa nel ranking a una sola azienda e, spesso, dipendono fortemente da essa.

La struttura economica decentralizzata è una delle caratteristiche dell’Italia. Le aziende non sono completamente concentrate nella Capitale, come avviene a Parigi o Londra. Siamo più paragonabili alla Germania, dove vi è una maggiore decentralizzazione – spiega Danilo Zatta, Partner di Simon-Kucher -. Ciò rende più regioni partecipi alla vita economica e non solo poche metropoli“.

Pmi, il pricing come chiave dello sviluppo


di Davide PASSONI

Dopo l’intervista al prof Hermann Simon – presidente e cofondatore di Simon-Kucher & Partners – Strategy & Marketing Consultants -, pubblicata mercoledì scorso, oggi tocca al dott. Danilo Zatta – Senior Director Simon-Kucher & Partners Italia – parlare di piccole imprese e politiche di pricing.

Cogliere con successo le sfide della modernità: quali strumenti possono utilizzare le Pmi per riuscire in questo obiettivo?
C’è una serie di strumenti molto importanti sul lato ricavi. Se guardiamo ai profitti secondo la elementare formula economica che li vede come il risultato di prezzo X volumi – costi. In molte Pmi italiane sul lato costi è stato fatto molto, perché si tratta di un aspetto tradizionalmente ben presente al manager; sul lato prezzi, invece, ciò che è stato fatto è sempre nato grazie al fiuto dell’imprenditore, mentre sul lato volumi è difficile muoversi perchè ci troviamo spesso su mercati maturi e togliere qualcosa a un competitor grazie a un comportamento aggressivo, non fa altro che innescare una guerra che, alla fine, si ripercuote in modo negativo sui margini.

E quindi?
La Pmi italiana deve capire come passare, sul lato pricing, da un approccio “di pancia” a uno più sistematico. Molte aziende sono infatti brave nella “value delivery”, ossia danno molto valore ai propri clienti, con un approccio che però porta a minor eccellenza sul piano della cosiddetta “value extraction”, ossia l’estrazione di valore dal mercato. Per migliorare in questo ambito ci sono accorgimenti sui quali poter essere più bravi a cogliere valore e portare l’impresa a un aumento in termini di marginalità e a farsi pagare dal mercato ciò che realmente essa merita.

Di quali strumenti parliamo?
Uno di questi strumenti è il peer pricing, che permette di capire come indirizzare la performance dei venditori e vendere non quello che viene facile, ossia lo sconto, ma vendere il valore. Per far in modo che non sia il direttore commerciale a imporre le politiche di vendita ma che queste vengano impostate confrontando le performance dei migliori venditori e allineando le performance di tutti verso l’alto, verso quella di colui che vende con meno sconto, vendendo il valore. Da qui si originano altre tematiche, come allineare il proprio partner commerciale agli obiettivi aziendali, quando, come spesso capita, una piccola impresa non è in grado di dotarsi si una propria forza commerciale e si affida a degli intermediari. Anche in quel caso, è necessario offrire uno sconto non fine a se stesso ma subordinato a obiettivi: se mi paghi in tempo, se mi esponi in un certo modo all’interno della tua catena, se spingi i prodotti che per me sono più importanti, ecc… Per tutte le realtà imprenditoriali c’è una serie di possibilità per assicurarsi una crescita che io definisco profittevole, ossia assicurarsi che la Pmi possa prosperare e diventare quello che noi chiamiamo un “campione nascosto”: piccole e medie realtà di successo. Capire quali sono i fattori di successo che li hanno fatti diventare leader nei loro settori di mercato per poterne replicare il successo da parte di altre imprese.

Quanto il tessuto produttivo italiano può essere un freno e quanto uno stimolo all’adozione degli strumenti di cui parla?
Il nostro tessuto produttivo può dare più opportunità perché, se vediamo il saldo commerciale dell’Italia, gran parte delle esportazioni viene da realtà di piccole e medie dimensioni: riuscire a fare un upgrade di queste realtà da semplici player a leader di settore può fare la differenza per il benessere dell’Italia tutta. Ecco perché Paesi come la Germania hanno un numero elevato di “campioni nascosti”, ossia imprese poco note al grande pubblico ma leader mondiali nelle loro nicchie di mercato.

In un periodo difficile come questo, per una impresa italiana è più importante sopravvivere o avere il coraggio di innovare?

Questa è stata per noi una domanda chiave nel 2009, quando ci siamo trovati faccia a faccia con la crisi. Allora pubblicammo un libro dal titolo “Battere la crisi” in cui illustravamo 33 azioni a rapido impatto per superare la crisi, libro nel quale indicammo misure rapide per poter sopravvivere. Nel momento in cui ci si trova di fronte a una crisi così forte è importante assicurarsi ossigeno per sopravvivere nel breve termine, ma non può essere questo l’obiettivo; è fondamentale capire come assicurarsi una posizione nel lungo andare e l’innovazione è lo strumento principale che si può usare per farlo: con questa si avrà un vantaggio competitivo in più nei confronti dei concorrenti e non si rischierà di finire di nuovo stretti all’angolo delle commodities.

Come si pongono altre realtà europee di fronte a questo dilemma, secondo la sua esperienza?
Nella mentalità italiana c’è più paura a entrare in nuovi concept imprenditoriali, mentre nel mondo anglosassone e tedesco vedo maggior apertura, forse anche perché le imprese piccole e medie tedesche sono più grandi di quelle italiane in termini di dipendenti e fatturato, più lontane da una gestione e da una mentalità familiare tipica nostra che, spesso, è un ostacolo al cambiamento. Inoltre, i tedeschi sono più presenti di noi sui mercati esteri, il che favorisce una maggiore apertura mentale e la volontà di capire e conoscere approcci nuovi. In Italia gli imprenditori vogliono essere convinti dalle esperienze e dai casi di aziende simili alla loro per poter abbattere la diffidenza. Quando in Italia si fanno interventi di questo genere si tratta di veri e propri casi di change management: cambiare il modo in cui le Pmi approcciano i mercati e vendono, aiutarle a cambiare mentalmente.

La globalizzazione: una scusa o una opportunità per le Pmi?
Penso sia una grandissima chance, tuttavia bisogna capire che cosa significa precisamente in termini di presenza sui mercati. A tal proposito abbiamo battezzato un nuovo segmento emergente che è quello dell’ultra low cost, che può rappresentare un’opportunità importante anche per le aziende che operano in settori di mercato elevati, proprio perché questo segmento ha un numero molto elevato di clienti potenziali. Vedo come opportunità il continuare a servire segmenti di nicchia del medio e alto di gamma, ma capire come poter cambiare l’offerta commerciale sviluppando in loco prodotti diversi, che permettano di piazzarsi in nuovi settori. Pensiamo all’Adidas, che ha sviluppato una scarpa a 1 euro per i mercati emergenti: cambiando packaging e caratteristiche del prodotto si possono servire segmenti insospettabili di mercato.

Adidas è un colosso, ma si tratta di strategie replicabili in scala minore per realtà imprenditoriali più piccole?
Sì, nel nostro Paese in questo senso c’è un potenziale molto interessante da cogliere anche nel breve, anche da parte delle piccole imprese artigiane.

Pmi, anticipare il futuro per tornare a competere


di Davide PASSONI

Per una piccola o media impresa è fondamentale capire in anticipo quali saranno i trend economici da qui ai prossimi anni, per prepararsi al meglio alle sfide del mercato e non rischiare di perdere competitività. Proprio a questo argomento il prof Hermann Simon, presidente e cofondatore di Simon-Kucher & Partners – Strategy & Marketing Consultants*, ha dedicato un libro scritto a quattro mani con il prof. Danilo Zatta, “I trend economici del futuro”. Infoiva ha incontrato il dott. Simon, che ha rilasciato questa intervista esclusiva.

Quali saranno i trend economici del futuro?
Il trend più importante nei dieci anni a venire sarà la grande accelerata della globalizzazione, che diventerà ancora più importante di quanto non sia oggi. Altro trend, il ruolo sempre più centrale dello Stato. Vediamo, per esempio, un Governo come quello italiano che emana sempre più norme e nello stesso tempo si vede limitato a causa dell’alto debito che attanaglia il Paese in questo momento. È necessario trovare un equilibrio completamente nuovo in questo dilemma. Questo trend è quello che io amo chiamare una migliore gestione del capitale. La gestione del denaro non appartiene ai governi i quali, molto spesso, con esso si arrischiano in situazioni complicate. La mia proposta è quella gestirci i titoli come nelle aziende, in modo da avere una quota uguale tra gli azionisti e dividere così utili e perdite. Questo cambierebbe radicalmente il comportamento dei manager, anche quelli dello Stato. La prima grande azienda a fare ciò è stata la Siemens.

E dai nuovi mercati?
Un altro trend è che dai Paesi in via di sviluppo vediamo affacciarsi un nuovo tipo di prodotti: l’esempio è la Tata Nano, ma abbiamo già visto altri prodotti arrivare nei Paesi industrializzati. Questo trend io sono solito chiamarlo Internet Total Networking, che influisce particolarmente sui consumatori grazie all’impatto che ha il web.

Soprattutto in Paesi come la Cina, dove Internet gioca un importante ruolo politico…
Infatti sul Financial Times ne ho scritto. In questo caso esiste un controllo totale del partito, è incredibile. Perché non puoi tenere sotto controllo 200 milioni di persone. La Cina ha una situazione particolare e ha se stante…

L’economia si sta allontanando sempre di più dalla finanza: quali sono i rischi di questo distacco?
Il mercato reale e il mercato finanziario non possono essere separati, e quindi non ha senso che i politici parlino solo di mercato finanziario, perché è proprio questo che ha creato la crisi. Sono collegati e non possono essere separati. Oggi i problemi riguardano lo Stato, il settore pubblico, l’alto debito come in Italia, il Pil; ma l’Italia non è la sola, sono molti altri i Paesi che versano in simili condizioni. L’economia in sé va abbastanza bene, ma per la situazione del debito pubblico per l’economia, l’unica soluzione è la riduzione drastica del ruolo dello Stato. Nient’altro. Ancora oggi la spesa pubblica cresce più del Pil ed è per questo motivo che abbiamo accumulato questo debito. E questo non è più possibile.

C’è chi sostiene  che la situazione di oggi non sia più sostenibile e che la responsabilità di tutto ciò sia più politica che economica. È d’accordo?
Sì. In una democrazia le persone chiedono sempre più di ciò che può essere finanziato. Credo che l’unica soluzione a ciò non siamo limitazioni finanziarie che possono essere abbandonate in qualsiasi momento, ma la reintroduzione di una gold standard. Se ci sarà questa, vi sarà anche una limitazione sulla spesa pubblica.  L’erogazione di moneta è collegata con il volume dell’oro, che è fisso. Questo è successo per 200 anni per il dollaro americano. Il 15 luglio 1971 Nixon ha introdotto la gold standard e, dopo 200 anni di stabilità, in 40 anni è stato perso  il 90% del valore.

*Simon-Kucher &a Partners – Strategy & Marketing Consultants è una società di consulenza globale, con più di 500 consulenti in 23 uffici in tutto il mondo, focalizzata sulla Smart Profit Growth. Fondata nel 1985, l’azienda ha più di 25 anni di esperienza ed è riconosciuta come leader mondiale nella consulenza sul pricing.

Pricing debole? I tuoi profitti calano del 25%

Il 65% delle aziende non è in grado di modificare i prezzi in modo conforme al valore offerto dai loro prodotti e servizi. La conseguenza è che il 25% dei profitti vanno perduti. Invece di concentrarsi sul profitto, il 46% degli amministratori delegati combatte una guerra di prezzo per conquistare volumi e quote di mercato. Infine, quando le aziende decidono di aumentare i prezzi, quello che ottengono è solo la metà di quanto previsto.

Sono i risultati del Global Pricing Study 2011, condotto dall’impresa di consulenza Simon-Kucher & Partners, presente sia in Italia che a livello mondiale. L’indagine getta luce su cultura del profitto, potere relativo al pricing e prospettive di profitto di più di 3.900 dirigenti di tutti i principali settori sia manifatturieri che di servizi, chiarendo anche il modo in cui intendono fronteggiare il rischio dell’inflazione. Circa la metà degli intervistati in Europa, USA e Asia proviene da aziende con un fatturato superiore a un miliardo di euro; un terzo degli intervistati è costituito da top manager. I risultati dello studio dimostrano che le aziende sottovalutano la minaccia dell’inflazione e sono scarsamente preparate quando si tratta di aumentare i prezzi. Ma l’inflazione è inevitabile. “Per garantire i profitti i dirigenti devono prepararsi a fronteggiare l’inflazione. Nella maggior parte dei casi è sbagliato usare il tasso d’inflazione come benchmark per stabilire l’aumento dei prezzi“, spiega Danilo Zatta, Senior Director in Simon-Kucher & Partners.
 
Il mancato sfruttamento del potere del pricing
Il potere del pricing consiste nella capacità delle aziende di spuntare dei prezzi in linea con il valore offerto ai loro clienti. Soltanto un terzo dispone di un sufficiente potere di pricing e di competenze per trasformare il valore in denaro. Il restante 65% delle aziende ammette di non avere alcun potere di pricing, o di averne poco, e ciò spiega per quale motivo non sia possibile raggiungere il prezzo obiettivo. Le scarse prestazioni sono costose e riducono di un quarto i profitti.
 
Sotto questo aspetto esistono profonde differenze tra i diversi settori e Paesi: il settore chimico (14%) e quello di trasporti & logistica (19%) detengono il minor potere di pricing. L’Italia e la Spagna, a causa del difficile contesto economico, sono i Paesi più deboli per quanto riguarda il potere di pricing. Le aziende situate in Polonia, USA e Francia, così come i settori farmaceutico e dei beni di largo consumo, si trovano all’altro opposto e spesso spuntano dei prezzi di mercato in linea con il valore offerto. Che cosa differenzia le aziende con un forte potere di pricing da quelle che ne hanno poco? “Le determinanti primarie di un elevato potere di pricing sono il valore per il cliente e il marchio“, spiega il dott. Zatta. “Ogni azienda è in grado di sviluppare un elevato potere di pricing. Se un’azienda offre ai suoi clienti un valore reale, comunicandolo mediante un marchio superiore, potrà tradurlo in denaro“. Le aziende che giustificano le loro scarse prestazioni attribuendo la colpa alla concorrenza si autoingannano.
 
La guerra dei prezzi continua
Il 46% delle aziende è ancora impegnato in una guerra dei prezzi. La grande maggioranza dei dirigenti (83%) ne attribuisce la colpa ai concorrenti – sebbene ciò non sia statisticamente possibile. Paragonando i Paesi, il Giappone risulta con l’84% il mercato più competitivo nella guerra dei prezzi, seguito dall’Italia (69%) e dalla Spagna (65%). “I dirigenti devono impegnarsi di più per incrementare i profitti e non puntare solo sulla quota di mercato. Il prezzo è la maggiore leva per il profitto“, afferma Zatta.
 
La sottovalutazione della minaccia dell’inflazione
Il pricing è un argomento che è sempre stato trascurato da molte aziende e, con l’inflazione dietro l’angolo, ne pagheranno le conseguenze: i risultati del sondaggio rivelano che la grande maggioranza delle aziende è in grado di ottenere solo la metà dell’aumento di prezzo target. Solo il 36% delle aziende raggiunge almeno i tre quarti dell’aumento di prezzo originariamente pianificato. L’industria delle telecomunicazioni (25%) è chiaramente al di sotto della media, ma anche gli USA (31%) risultano deboli per ciò che riguarda l’attuazione dei prezzi.
 
In mancanza di esperienza i dirigenti usano il tasso d’inflazione come benchmark per i target relativi agli aumenti di prezzo. Il 68% dei dirigenti pianifica un aumento dei prezzi inferiore o in linea con i tassi d’inflazione. “È fatale usare il tasso d’inflazione come benchmark, tenendo conto che la maggior parte delle aziende sono in difficoltà quando si tratta di aumentare i prezzi. Questo non è sufficiente“, conclude Danilo Zatta. Soltanto i settori delle costruzioni, dei beni industriali e dei trasporti & logistica prevedono di aumentare i prezzi oltre il tasso d’inflazione.
 
Nell’affrontare il rischio dell’inflazione il know-how nel pricing diviene lo spartiacque fra aziende profittevoli e quelle con scarsa marginalità. I risultati dello studio rivelano la formula del successo: quanto migliore è il know-how relativo al pricing, tanto maggiori saranno il potere di pricing e i profitti. Profitti superiori di almeno il 25% lo dimostrano.