Stipendi e pensioni, ecco come cambiano con la nuova riforma fiscale

Stipendi e pensioni si preparano a cambiare a partire dal mese di marzo per effetto di quello che sono le nuove direttiva della riforma fiscale.

Stipendi e pensioni cosa c’è di nuovo?

Pensioni e stipendi dal mese di marzo dovrebbe aumentare grazie alla riforma fiscale. In particolare si attende il ricalcolo delle pensioni che dovrebbe avere una rivalutazione al 7,3% e del nuovo taglio sul cuneo fiscale pari al 3% per i redditi entro il 25 mila euro e del 2% per i redditi compresi tra i 25 e i 35 mila euro.

Il Governo Meloni punta alla riduzione delle aliquote da quattro come previste dal Governo Draghi a tre. Attualmente in vigore le percentuali sono:

  • del 23% per redditi fino a 15.000 euro;
  • del 25% per redditi tra 15.000 e 28.000 euro;
  • del 35% per redditi tra 28.000 e 50.000 euro;
  • del 43% per redditi oltre i 50.000 euro

Mentre con i cambiamenti voluti dal nuovo Governo gli scaglioni verrebbero ad assottigliarsi e diventare solo tre, con le seguenti aliquote:

  • aliquota del 23% per chi ha redditi fino a 15mila euro;
  • aliquota del 27% per chi ha redditi tra 15mila-50mla euro;
  • aliquota del 43% per chi ha redditi superiori ai 50mila euro.

Pensioni, quanto aumenteranno?

Le rivalutazioni sulle pensioni la perequazione automatica per adeguamento all’inflazione nel 2023 e 2024 segue il seguente schema a fasce di rivalutazione, prendendo a riferimento l’importo della pensione rispetto al trattamento minimo (TM) attuale (525 euro al mese):

  • fino a 4 volte il TM (circa 2.100 euro lordi): 100% (aumento 7,3%);
  • fino a 5 volte il TM (circa 2.625 euro lordi): 85% (aumento 6,2%);
  • tra 5 e 6 volte il TM (tra 2.625 e 3.150 euro lordi): 53% (aumento 3,8%);
  • e tra 6 e 8 volte il TM (tra 3.150 e 4.200 euro lordi): 47% (aumento 3,4%);
  • tra 8 e 10 volte il TM (tra 4.200 e 5.250 lordi): 37% (aumento 2,7%);
  • oltre 10 volte il TM (oltre 5.250 euro lordi): 32% (aumento 2,3%).

In media le rivalutazioni dovrebbero portare a questi aumenti.

  • pensione di 800 euro: circa 42 euro in più
  • pensione di 1.000 euro: 53 euro in più;
  • pensione di 1.500 euro: 79,50 euro in più;
  • pensione di 2.000 euro: circa 106 euro in più
  • pensione di 3.000 euro: circa 116 euro in più:
  • pensione di 4.000 euro: circa 137 euro in più.

Infine si ricorda che per i pensionati over 75 la pensione salirà a 600 euro. Ma è desiderio di questa legislatura, portare le pensione minime a mille euro nell”arco dei 5 anni di Governo.

Nuova IRPEF: da quale stipendio vedremo gli effetti?

Con il passaggio dal 2021 al 2022 in Italia è arrivata la nuova IRPEF. E questo attraverso una riduzione delle aliquote da 5 a 4. In pratica da un lato è stata eliminata l’aliquota IRPEF al 41%, e nello stesso tempo la vecchia aliquota al 38% è stata tagliata di tre punti percentuali scendendo al 35%. Nulla è invece cambiato per l’applicazione dell’imposta per i redditi fino a 15mila euro in quanto l’aliquota al 23% è stata confermata.

Da quale stipendio vedremo gli effetti della nuova IRPEF, i vantaggi maggiori sono per il ceto medio

Quindi, per chi si chiede da quale stipendio vedremo gli effetti della nuova IRPEF, è chiaro che la revisione delle aliquote da quest’anno, in termini di risparmio di imposta, andrà ad avvantaggiare i redditi medi e quelli medio-alti. In altre parole, la nuova IRPEF da quest’anno garantirà in termini di importo maggiori risparmi fiscali al cosiddetto ceto medio.

Per quanto detto, quindi, gli effetti della nuova IRPEF dal 2022 si avranno per i redditi a partire dai 15.001 euro e fino a 28mila euro. In quanto l’aliquota è scesa dal 27% al 25%. Ma anche per i redditi tra 28.001 euro e fino 50mila euro. In quanto l’aliquota è in questo caso scesa dal 38% al 35%. Invece, sopra i 50.000 euro la tassazione progressiva dal 2022 prevede l’applicazione dell’aliquota massima che è quella al 43%.

Riforma fiscale con la clausola di salvaguardia per i redditi bassi, ecco come

Per la riforma dell’IRPEF 2022 il Governo che è guidato dal presidente del Consiglio Mario Draghi ha complessivamente stanziato 8 miliardi di euro. Con i redditi medi che, come sopra detto, sono quelli più avvantaggiati dalla revisione delle aliquote IRPEF.

Pur tuttavia, come clausola di salvaguardia al fine di non penalizzare i redditi bassi, per il 2022 è confermato l’ex bonus Renzi da 100 euro al mese proprio sul primo scaglione di imposta. Ovverosia, per i redditi fino a 15.000 euro.

Leggi anche: Nuova Irpef, effetti sulle pensioni: aumentano gli importi, ma per chi?

 

Stipendi degli italiani sempre più leggeri a causa delle tasse

Gli stipendi degli italiani sono sempre più leggeri, a causa delle tasse e dei contributi che vengono mensilmente sottratti in busta paga.
A confermarlo è l’Ufficio Studi Cgia, dopo aver esaminato la composizione delle buste paga di 2 lavoratori dipendenti entrambi occupati nel settore metalmeccanico dell’industria.

Il primo caso riguarda un operaio con uno stipendio mensile netto di poco superiore ai 1.350 euro: al suo titolare costa, invece, un po’ meno del doppio: 2.357 euro. Questo importo è dato dalla somma della retribuzione lorda (1.791 euro) e dal prelievo contributivo a carico dell’imprenditore (566 euro). Il cuneo fiscale (dato dalla differenza tra il costo per l’azienda e la retribuzione netta) è pari a 979 euro che incide sul costo del lavoro per il 41,5 per cento.

Il secondo caso, invece, si riferisce a un impiegato con una busta paga netta di poco superiore a 1.700 euro. In questa ipotesi, il datore di lavoro deve farsi carico di un costo di oltre 3.200 euro; importo, quest’ultimo, quasi doppio rispetto allo stipendio erogato. Questa cifra è composta dalla retribuzione mensile lorda (2.483 euro) a cui si aggiungono i contributi mensili versati dal titolare dell’azienda (729 euro). Il cuneo fiscale (dato dalla differenza tra il costo per l’azienda e la retribuzione netta) è di 1.503 euro che incide sul costo del lavoro per il 46,8 per cento.

Sembra che negli ultimi anni la situazione sia lievemente migliorata grazie all’introduzione del bonus Renzi e il taglio dell’Irap avvenuto nel 2015 sul costo del lavoro ai dipendenti assunti con un contratto a tempo indeterminato, che hanno portato ad una riduzione del carico fiscale di circa 14 miliardi di euro.
Inoltre, sebbene la metà dei 9 miliardi di euro annui che servono per coprire la spesa del bonus Renzi sia finita nelle tasche di dipendenti che vivono in famiglie con redditi medio-alti, è altrettanto vero che secondo un’indagine realizzata dalla Banca d’Italia il 90% delle famiglie percettrici di questa agevolazione hanno dichiarato di averla spesa e di aver destinato il restante 10% al risparmio e al rimborso di debiti.

Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio Studi della Cgia, ha dichiarato: “Oltre a tagliare l’Irpef è necessario intervenire anche sulla riduzione del prelievo in capo al datore di lavoro che in Italia è tra i più elevati d’Europa. Secondo l’Ocse, infatti, tra gli oltre 30 paesi più industrializzati del mondo solo Francia, Repubblica Ceca ed Estonia hanno un carico contributivo per dipendente superiore al nostro. Una situazione che ci impone non tanto di tagliare l’aliquota previdenziale che, in un sistema ormai contributivo, danneggerebbe i lavoratori, ma di proseguire con maggiore determinazione nella riduzione delle tasse sulle imprese”.

Ha aggiunto Renato Mason, segretario Cgia: “Per far ripartire con forza la domanda interna è necessario, tra le altre cose, aumentare il numero degli occupati e lasciare a questi ultimi più soldi in tasca. Vista la scarsa disponibilità di liquidità delle imprese, nel prossimo futuro sarà sempre più difficile erogare importanti aumenti di stipendio attraverso i rinnovi contrattuali. Per tale ragione, quindi, è indispensabile incentivare la diffusione del welfare aziendale come forma di beneficio economico”.

Vera MORETTI

Divario di genere, l’Italia migliora

Che nel mondo del lavoro e nella società il divario di genere tra uomini e donne in termini di stipendi, cariche elettive ecc… sia qualcosa di perdurante e di vergognoso, è cosa nota. A sancirlo, anche quest’anno arriva Global Gender Gap Report, pubblicato dal World Economic Forum, che analizza lo stato del divario di genere in diversi Paesi europei nei campi del lavoro, della rappresentanza politica, dell’istruzione e della salute.

Nella nuova edizione, però, per l’Italia c’è una buona notizia. Rispetto all’edizione precedente, il nostro Paese ha guadagnato ben 28 posizioni piazzandosi al 41esimo posto su 145 nazioni. In questa classifica del divario di genere, si tratta della posizione migliore mai occupata dallo Stivale.

Il recupero nella classifica del divario di genere è merito in buona parte dell’ambito della rappresentanza politica, dove l’Italia è passata dalla 37esima alla 24esima posizione, grazie anche al fatto che siamo il decimo Paese europeo per donne in Parlamento e abbiamo un ministro donna su 2 al Governo.

Miglioramento anche nel campo dell’istruzione, anche se di sole 4 posizioni (dal 62esimo al 58esimo posto), mentre 4 ne abbiamo perse nell’ambito salute (dal 70esimo al 74esimo posto). Le laureate sono più dei laureati, mentre le donne hanno un’aspettativa di vita sana di 74 anni contro i 71 degli uomini.

Ma il vero punto critico del divario di genere in Italia è nell’ambito del lavoro, dove siamo 111esimi su 145 nazioni. Preoccupa il gap nei salari: 7,3% medio a favore degli uomini, con punte del 25% tra dirigenti e professionisti. A proposito di dirigenti, solo il 15,1% di manager, in Italia, è donna, contro una media del 25% in Europa

In generale, nel mondo, stanso al report il divario di genere è rimasto poco mosso, riducendosi di solo il 4% negli ultimi 10 anni in generale e di solo il 3% in ambito retributivo. Il World Economic Forum, infine, sottolinea che l’area che si è mossa più speditamente negli ultimi anni è stata il Sudamerica. Di contro, Nordafrica e Medio Oriente si sono mossi pochissimo.

Stipendi pubblici più alti di quelli privati

I lavoratori statali, nonostante abbiano gli stipendi bloccati dal 2011, guadagnano di più rispetto ai lavoratori privati, e, per la precisione, in media ricevono, in un anno, 2000 euro in più.

Questi dati sono stati resi noti da una ricerca effettuata dall’Ufficio Studi della Cgia, che ha messo a confronto le retribuzioni medie lorde dei dipendenti pubblici con quelle dei privati.
Ecco il risultato: se nel 2014 i primi hanno portato a casa mediamente 34.286 euro, i secondi, invece, 32.315 euro. Negli ultimi venti anni (1995-2014) sia gli stipendi degli uni sia quelli degli altri sono aumentati di quasi il 70%, anche se tra il 1995 e il 2010 l’incremento nel privato è stato del 58,9%, mentre nel pubblico la crescita è stata del 70,8%.

Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, ha dichiarato in proposito: “Pur avendo contribuito a ridurre la spesa, il blocco degli stipendi adottato in questi anni ha penalizzato soprattutto le soglie retributive più basse. Negli ultimi 20 anni, infatti, queste ultime sono cresciute molto meno dei livelli retributivi medio alti, senza che ciò abbia avuto degli effetti positivi sulla produttività e sull’ efficienza dei dirigenti e degli alti funzionari pubblici”.

Chi se la passa meglio sono i dipendenti degli enti previdenziali, come Inps e Inail, per i quali, nel 2014, il dato medio lordo è stato pari a 44.199 euro.
Seguono i dipendenti delle Amministrazioni locali (Comuni, Province e Regioni), con 35.651 e gli statali (occupati nelle Amministrazioni centrali) che ricevono mediamente 33.003 euro lordi all’anno.

Vera MORETTI

Stipendi sempre più magri, fisco sempre più vorace

Non lo dicono solo le tasche vuote alla fine della terza settimana. Ora lo conferma anche l’Ocse nel suo rapporto “Taxing Wages 2011”: il fisco pesa sempre più sugli stipendi dei lavoratori italiani e fa scivolare il nostro Paese dal 22esimo al 23esimo posto per salario netto, con una media di 25.160 dollari per lavoratore senza senza figli a carico.

Un dato che non è solo minore della media Ocse (27.111 dollari) ma è molto distante da quello che caratterizza Paesi come, a crescere, Francia (29.798 dollari), Germania (33.019) e Gran Bretagna (38.952). Un divario che c’è anche con le retribuzioni degli stessi lavoratori in Paesi dalle economie più critiche della nostra come Spagna (27.741 dollari) e Irlanda (31.810).

Ma lo scandalo viene dal cuneo fiscale, ossia il peso delle tasse sulle retribuzioni per i lavoratori senza figli: il dato è infatti arrivato al 47,6%, (dal 47,2% del 2010). Un aumento che ci pone al sesto posto della classifica sulla pressione fiscale sul lavoro nell’Ocse, dietro a Belgio (55,5%), Germania (49,8%), Ungheria e Francia (49,4%) e Austria (48,4%). Dati molto più alti della media Ocse, pari al 35,3% (+0,3% sull’anno precedente) e anche oltre la media europea che è del 41,5%.

Per i lavoratori con due figli a carico la situazione è differente, ma il peso fiscale resta sempre elevato in Francia (42,3%), Belgio (40,3%) e Italia (38,6%).

Del resto, la tendenza complessiva vede un appesantimento del cuneo fiscale in quasi tutte le economie Ocse (dovuto all’aumento delle imposte sul reddito), tranne che negli Usa, dove è sceso dello 0,9% grazie alla riduzione dei contributi di sicurezza sociale. Insomma, si guadagna forse di più ma si pagano più tasse ovunque. Evviva la crisi!

Vita pesante, busta paga leggera

di Davide PASSONI

Se la vita si fa pesante, lo stipendio si fa… leggero. No, non è una presa in giro ma l’amara verità di quanto tasse e contributi previdenziali ammazzano le buste paga degli italiani in un periodo nel quale non sono rimasti loro nemmeno gli occhi per piangere.

La fotografia è stata scattata, tanto per cambiare, dall’Ufficio Studi della Cgia di Mestre, secondo il quale metà dello stipendio dei lavoratori italiani è sfoltito da tasse e contributi previdenziali. Secondo l’analisi, un operaio occupato nell’industria con uno stipendio mensile netto di 1.226 euro ha un costo azienda di 2.241 euro. Un importo che è dato dalla somma della retribuzione lorda (1.672 euro) e dal prelievo a carico del datore di lavoro (pari a circa 568 euro).

E per il povero impiegato, che lavora in un’azienda industriale e si porta a casa a fine mese 1.620 euro netti? Al suo datore di lavoro costa la bellezza di 3.050 euro. Anche qui una cifra data dalla somma tra la retribuzione lorda (2.312 euro) e il prelievo a carico del titolare (738 euro).

Risultati sconfortanti, che se abbinati ai recenti dati presentati dall’Istat sulla perdita del potere d’acquisto degli italiani, fanno affermare al segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi: “Pur riconoscendo che dobbiamo potenziare la qualità della nostra organizzazione produttiva, non sono del tutto convinto che le aziende debbano produrre meglio e di più. Il problema è che i consumi interni sono troppo bassi. La crisi è molto pesante, soprattutto dal punto di vista occupazionale, anche perché continuano a calare i consumi. Meno si consuma, più si sta a casa. Più si sta a casa, meno si consuma. Dobbiamo scardinare questo circolo vizioso per scongiurare di scivolare dentro una fase depressiva”.

Che aggiungere? Ciascun lavoratore dipendente faccia i conti e ci sappia dire (direttore@ejournal.it) se alla Cgia di Mestre hanno bevuto troppo o se ci hanno preso. Secondo noi… la seconda delle due. Mille grazie, stato bandito.

La bolletta energetica sale, gli stipendi calano

di Vera MORETTI

Tra le bollette in aumento, c’è anche quella energetica, ovvero quella che il Paese “paga” per assicurarsi le materie prime necessarie al proprio fabbisogno.
Nel 2012 potrebbe arrivare a 65,3 miliardi di Euro, a fronte di una stima proveniente dall’Unione petrolifera, che anche per l’anno in corso ha calcolato un aumento di ben 8,9 miliardi rispetto al 2010, per una cifra totale di 61,9 mld.

Questo accade a causa dei continui ritocchi imposti dalle manovre, che hanno portato il gettito fiscale derivante da Iva e accise sui carburanti e sugli altri oli minerali a salire nel 2011 a 37,25 miliardi, in aumento del 6,3% rispetto al 2010. Secondo i calcoli dell’Up, l’aumento è stato del 3% per le accise (+700 mln a 24 mld) e del 12,8% per l’Iva (+1,5 mld a 13,25 mld).

E cattive notizie arrivano anche dalle retribuzioni lorde per unità di lavoro equivalenti a tempo pieno al netto della cig, che hanno segnato una crescita su base annua dell’1,4%, addirittura più bassa rispetto a quella del primo trimestre 2009, mentre a livello congiunturale registrano (+0,3%) il valore minimo dal primo trimestre 2009.

Per quanto riguarda i dati Istat delle retribuzioni lorde del terzo trimestre per Ula, è stato registrato un aumento dello 0,3% nei settori di industria e servizi, per un totale di crescita tendenziale generale dell’1,4%, che sale al 2,2% nell’industria e scende allo 0’7% nei servizi.

Considerando il solo comparto industriale, l’incremento più marcato delle retribuzioni, +4,1%, è avvenuto nel settore dell’estrazione di minerali da cave e miniere, grazie all’erogazione di consistenti incentivi all’esodo in alcune grandi aziende.

All’interno del terziario, l’aumento tendenziale più ampio riguarda il settore delle attività dei servizi di alloggio e di ristorazione (+3,5%); si registra, invece, un calo nel settore del trasporto e magazzinaggio (-1,8%), per effetto del rinvio di alcuni premi di risultato solitamente pagati da alcune grandi aziende nel terzo trimestre dell’anno.

L’Istat precisa che la rilevazione riguarda salari, stipendi e competenze accessorie in denaro, al lordo delle trattenute fiscali e previdenziali, corrisposte ai lavoratori dipendenti direttamente e con carattere di periodicità, secondo quanto stabilito dai contratti, dagli accordi aziendali e individuali, e dalle norme in vigore. Si tratta perciò di retribuzioni di fatto, e non contrattuali, che invece riguardano solo le competenze determinate dai contratti nazionali di lavoro.