Se la PA non paga, l’impresa crolla (e anche il Paese)

 

Il rischio è quello di un cedimento strutturale: dell’impresa prima, del Paese poi.  Sono 19 i miliardi di euro che la PA deve ancora alle imprese impegnate nell’edilizia e nelle opere pubbliche in Italia; pagamenti non ancora onorati che se procrastinati, potrebbero costare alle imprese un conto salatissimo, la chiusura dell’azienda.

Mentre ieri si è svolta a Roma la Manifestazione promossa dall’ANCI, l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, per gridare il loro no al Patto di Stabilità che strangola le imprese, Infoiva ha incontrato Paolo Buzzetti, Presidente di ANCE, l’associazione che riunisce i costruttori edili.

Quante sono le imprese vostre associate colpite dalla piaga del ritardo dei pagamenti da parte delle PA?
Quasi tutte le pubbliche amministrazioni pagano in ritardo. In media le imprese attendono 8 mesi in più per vedersi onorare il corrispettivo dovuto ma spesso si arriva anche a due anni. Per questo tutte le nostre aziende che lavorano con la PA , su tutto il territorio nazionale, subiscono l’odioso fenomeno. Un malcostume che per le imprese di costruzione si traduce in 19 miliardi di crediti non pagati.

Quanto è pericolosa per la piccola e media impresa oggi la combinazione fra crisi economica e ritardo nei pagamenti delle PA?
Stretta del credito da parte delle banche e ritardati pagamenti sono un cocktail micidiale per le imprese che di fronte alla mancanza di liquidità non hanno soluzioni se non quella di chiudere. Un meccanismo che ha toccato anche le imprese sane, quelle con lavori in portafoglio, che si sono trovate nell’impossibilità di proseguire i lavori, di pagare i propri dipendenti e i fornitori. Un intero settore industriale, quello delle costruzioni, che rischia di scomparire. Gli sforzi seppur apprezzabili del ministro Passera e del Viceministro Ciaccia hanno però solo scalfito un macigno fatto di politiche depressive e reiterate nel tempo. E’ necessario, quindi, intervenire subito e con maggiore coraggio.

Come commenta la presa di posizione da parte dell’ANCI di affrontare il problema sforando il patto di stabilità per pagare le imprese?
Insieme ai Comuni siamo stati i primi a denunciare l’effetto perverso che un’applicazione così restrittiva del patto di stabilità stava producendo sul tessuto economico e sulle imprese e per questo abbiamo promosso in collaborazione con l’Anci l’iniziativa pubblica del 21 marzo. Una platea di sindaci e imprenditori compatta nel chiedere al Governo un piano immediato di sblocco dei fondi degli enti locali già disponibili. Già nel 2010 tutta la filiera dell’edilizia raccolta negli Stati generali scese in piazza per manifestare una situazione che ormai era divenuta insopportabile. Oggi, a distanza di tre anni, il debito della Pa nei confronti delle imprese di costruzione è cresciuto a dismisura e quasi nullo è stato l’effetto della certificazione dei crediti che il governo Monti ha introdotto nella speranza di smuovere qualcosa. Come sempre il problema va risolto all’origine e cioè è necessario un allentamento del patto di stabilità altrimenti tutti gli sforzi risultano vani e per pagare le imprese non rimane alle amministrazioni che sforare il patto.

Il ritardo nei pagamenti della PA è un male tutto italiano. Perchè?
Il livello del debito pubblico italiano e la necessità di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013 hanno imposto all’Italia sacrifici ingenti. Gli enti locali sono stati costretti a tagliare e questo ha generato un meccanismo a cascata che ha finito per sacrificare l’anello più debole ossia le imprese. La cosa più grave è che per tutto questo tempo si è nascosto il problema sotto il tappeto, utilizzando un artificio contabile che fa emergere il debito nel bilancio della Pa solo quando viene pagato. Paradossalmente in questo modo non pagare le imprese significa non avere debiti e quindi essere virtuosi, cosa che in realtà non è. Così facendo non si è fatto altro che scaricare sulle aziende le inefficienze dello Stato.

Quali sono le prime misure che chiedete di mettere in campo al nuovo Governo per fronteggiare questa emergenza?
Sono necessarie poche azioni concrete. Innanzitutto occorre definire un piano effettivo di smaltimento dei debiti pregressi della PA per lavori eseguiti, da concordare con le istituzioni europee come misura una tantum. Proprio su questo punto negli scorsi giorni i Vicepresidenti della Commissione europea Rehn e Tajani hanno aperto a un’ipotesi di superamento dei vincoli del patto di stabilità per il pagamento delle imprese. Con l’Anci abbiamo proposto un Piano in tal senso che prevede lo sblocco di 9 miliardi di euro di fondi disponibili solo nel 2013, una boccata d’ossigeno per le aziende. Ma per modificare davvero questo malcostume occorre inoltre rivedere il Patto di stabilità interno, introducendo una golden rule che salvaguardi la componente di investimento nei bilanci delle amministrazioni pubbliche e applicare pienamente la direttiva europea sui ritardati pagamenti per i nuovi contratti anche nel settore dei lavori pubblici.

Alessia CASIRAGHI

Imprese, accesso al credito sempre più difficile

L’allarme lanciato da Rete Imprese Italia è uno di quelli che non può lasciare indifferenti: secondo i dati dell’Osservatorio nazionale sul credito delle Pmi relativi al terzo trimestre 2012, permane elevatissima la quota di imprese che non riesce a ottenere il credito di cui ha bisogno.

Si registra una riduzione nel terzo trimestre del 2012, rispetto al trimestre precedente, della percentuale delle piccole imprese che si sono rivolte alle banche per richiedere un nuovo prestito o la rinegoziazione di un prestito preesistente (15,4% rispetto a 21,7%). Tale dinamica trova conferma anche per le imprese artigiane (13,1% rispetto a 19,2%). Inoltre, il 30,8% delle piccole imprese ha ottenuto un ammontare pari o superiore rispetto a quello richiesto, contro il 36,5% del trimestre precedente. Il 13,7% ha ottenuto un ammontare inferiore rispetto a quello richiesto, contro il precedente 25,3%. Il 22,1% (rispetto al precedente 11,1%) ha visto rifiutata la propria domanda di credito.

Dopo diversi trimestri inizia anche a ridursi la cosiddetta “area di irrigidimento”, costituita dalla somma delle imprese che si sono viste accordare un credito inferiore, rispetto a quello richiesto, e da quelle alle quali il credito è stato rifiutato. Nel 3° trimestre 2012 l’area del credit crunch ha interessato il 35,8% delle piccole imprese, contro il 36,4% del 2° trimestre. Tale area, confermando le aspettative, è più ampia nelle regioni del Centro e del Sud.

La cosiddetta “area di stabilità”, costituita dalle imprese che hanno visto accogliere la propria domanda di credito secondo un ammontare pari o superiore alla richiesta, caratterizza le regioni del Nord (in particolare quelle del Nord Ovest), in misura circa cinque volte superiore alla media del Centro, Sud e Isole. In termini di finalità della richiesta del finanziamento, si osserva una generalizzata crescita delle esigenze di liquidità e cassa da un lato e di ristrutturazione del debito dall’altro, a scapito delle esigenze di investimento. Gli interventi creditizi sono pertanto finalizzati principalmente a consentire la semplice e ordinaria
gestione delle attività.

Sul fronte dei finanziamenti in essere, al 30 giugno 2012, i prestiti bancari ai settori produttivi domestici erano pari a 978.492 milioni di euro, in diminuzione del 2,5% su base annua (- 24.925 milioni di euro), con una leggera crescita del peso dei prestiti a medio/lungo termine a discapito di quelli a breve termine. Il 14,9% dei suddetti prestiti bancari è in favore delle imprese del “Commercio” ed il 6,1% di quelle del “Turismo”. Aggiungendo a tali percentuali la quota delle imprese artigiane che non rientrano nei settori già considerati, pari al 4,1%, si raggiunge il 25,1%, rappresentativo della quota complessiva dei prestiti bancari a favore delle imprese riconducibili a Rete Imprese Italia, pari a circa la metà del contributo che tali imprese apportano al valore aggiunto ed all’occupazione.

Di conseguenza, è peggiorata la capacità degli operatori di fare fronte al proprio fabbisogno finanziario, ossia sono aumentate le imprese in difficoltà nell’effettuare i propri pagamenti (- 41% dal -33,7% del 2° trimestre). In particolare, sono le ditte individuali a manifestare le maggiori difficoltà, ma anche le altre tipologie d’impresa hanno fatto registrare un significativo deterioramento. In questo quadro, le imprese del Nord Ovest presentano la situazione migliore, come pure quelle dell’Italia Centrale. Dall’analisi settoriale emergono in forte sofferenza le imprese del settore del turismo e quelle manifatturiere, mentre segnali di recupero si osservano nel comparto delle imprese dei servizi e – in misura inferiore – in quello delle costruzioni.

Credem fa “Gran Cassa” per le imprese

Buone notizie per le piccole imprese italiane in crisi di liquidità. Credem ha infatti attivato un plafond di finanziamenti di 1,1 miliardi di euro a loro favore. Una iniziativa che, secondo la banca, costituisce un forte segnale di fiducia verso il mondo delle piccole aziende, che costituiscono la struttura portante del nostro sistema economico.

La cifra messa sul piatto è consistente e, per una iniziativa del genere, ci voleva un nome altisonante: Gran Cassa. L’iniziativa è rivolta a un bacino di 36mila aziende già clienti della banca, in particolare artigiani, agricoltori, liberi professionisti e piccole imprese, interessate a gestire esigenze di liquidità, generalmente accentuate verso fine anno per il pagamento di tredicesime, e acconti per imposte di fine novembre, anticipi di Iva, saldo Ici, oltre ad altre necessità finanziarie quali il finanziamento del magazzino o il pagamento anticipato dei fornitori. I finanziamenti sono chirografari e saranno erogati senza particolari formalità e senza ulteriori garanzie.

Le imprese, potenzialmente interessate a questa iniziativa, attiva sino a fine dicembre 2012, appartengono al segmento small business del Gruppo, i cui impieghi, nel primo semestre di quest’anno, ammontano ad oltre 4 miliardi di euro e rappresentano il 21% circa del totale degli impieghi del gruppo Credem. Nel primo semestre 2012 gli impieghi totali di Credem hanno raggiunto i 19,8 miliardi di euro, con una crescita dell’1,3% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

Il plafond complessivo di 1.130 milioni di euro è ripartito in più regioni italiane, in relazione al tessuto economico e al numero di aziende clienti: oltre 300 milioni di euro sono riservati al mercato Emiliano-Romagnolo, 147 milioni alla Lombardia, 85 milioni alla Toscana, 56 milioni al Veneto, 45 milioni al Piemonte, 40 milioni al Lazio, 93 milioni alla Campania, 111 milioni alla Puglia, 122 milioni alla Sicilia solo per citare le principali Regioni.

Secondo Massimo Arduini, responsabile Marketing e Business Imprese di Credem, “questa importante iniziativa si inquadra nel costante impegno di Credem a favore delle imprese e segue altri precedenti progetti attivati in favore delle piccole imprese. Gran cassa è un’ulteriore chiara dimostrazione, anche in questo periodo di particolare congiuntura economica, di concretezza dell’offerta Credem agli imprenditori finalizzata a consolidare sempre più il legame banca-impresa“.

d.S.

Imprese italiane: meno prestiti e più debiti

Cornute, tassate e mazziate. Sono le imprese italiane fotografate dalla Cgia di Mestre quando prova a fare il punto sulla loro situazione patrimoniale in questo disastrato 2012. E il risultato di questa fotografia sta tutto nelle parole di Giuseppe Bortolussi, segretario dell’associazione mestrina: “Ricevono sempre meno prestiti e nel contempo fanno sempre più fatica a restituire quelli ricevuti. Tra l’agosto del 2011 e lo stesso mese di quest’anno, la contrazione degli impieghi erogati dalle banche alle imprese italiane è stata di circa 27 miliardi di euro, mentre le sofferenze in capo al sistema imprenditoriale sono aumentate di 12,3 miliardi di euro. Ormai l’ammontare complessivo delle insolvenze sfiora gli 88 miliardi di euro: un vero e proprio record mai raggiunto dopo l’avvento dell’euro“.

Parole che esplodono dopo che la Cgia ha analizzato l’evoluzione dei prestiti e delle sofferenze registrate dal sistema imprenditoriale italiano negli ultimi 12 mesi dell’anno (agosto 2011-agosto 2012). A livello territoriale, è il Centro ad aver subito la più significativa variazione di crescita delle sofferenze: tra il luglio 2011 e lo stesso mese di quest’anno (ultimo dato disponibile) l’incremento è stato dell’17,3%, contro il +16,9% registrato nel Nord Est, il +15,1% del Nord Ovest e il +14,6% del Sud.

Lato prestiti, invece, è il Nord Ovest l’area che ha subito la flessione più evidente: sempre tra luglio 2011 e luglio 2012, la contrazione è stata del 2,67%, rispetto al -1,67% fatto segnare dal Nord Est, al -1,58% registrato nel Sud e al -1,50% maturato nel Centro. Ancor più significativa la situazione che si è verificata dall’inizio di novembre del 2011, mese in cui lo spread italiano ha raggiunto il livello record di 558 punti base: in questi ultimi 10 mesi (novembre 2011 – agosto 2012) i prestiti hanno subito un forte rallentamento. Rispetto al periodo agosto 2011-agosto 2012, la contrazione è quasi raddoppiata, mentre la crescita delle sofferenze ha subito una decisa frenata.

Dopo quattro anni di crisi – dice ancora Bortolussisoprattutto le piccole imprese stanno soffrendo per la mancanza di liquidità. Per soddisfare gli ordini e la domanda, le piccole imprese devono pagare le forniture, acquistare le materie prime e i servizi, pagare le utenze, onorare gli impegni economici assunti con i propri dipendenti, versare le tasse e i contributi ed è chiaro che senza liquidità molte esperienze imprenditoriali rischiano di cessare l’attività. Ricordo che dall’inizio della crisi ad oggi sono quasi 50mila le imprese italiane che hanno fallito e circa un terzo di queste hanno chiuso i battenti per mancati pagamenti“.

Con le due operazioni effettuate dalla Bce nel dicembre 2011 e nel febbraio di quest’anno gli istituti di credito italiani hanno ricevuto 132 miliardi di liquidità netta, ad un tasso d’interesse dell’1%. E’ vero che gran parte di questi soldi sono stati impiegati per l’acquisto di titoli di Stato al fine di evitare il crac finanziario del nostro Paese, ma adesso bisogna evitare che a collassare sia l’economia reale, ovvero le imprese e i propri dipendenti. Per questo è auspicabile che le banche ritornino a fare il loro mestiere, vale a dire rischiare assieme alle imprese“, è l’amara conclusione di Bortolussi.

Mutuo? Scordatelo se hai un solo reddito

La crisi del credito non colpisce solo le imprese: anche le famiglie devono fare i conti con una stretta creditizia che, specialmente per quello che riguarda i mutui. Se infatti per un’azienda è sempre più difficile ottenere un finanziamento, per i nuclei familiari che intendono acquistare una casa la possibilità di accedere a un mutuo è spesso una chimera. Specialmente per le famiglie monoreddito, sempre meno propense a chiedere questo tipo di finanziamento.

Una tendenza figlia della crisi economica generale e di quella dell’edilizia in particolare, messa in luce da Mutui.it, che ha rilevato come solo il 2% delle richieste di mutuo arriva da famiglie monoreddito. Un’indagine svolta su un campione di oltre 160mila richieste di mutuo presentate negli ultimi sei mesi da famiglie con un solo reddito e almeno un figlio.

Qual è, dunque, l’identikit di questa persona con tanta voglia di mutuo? E quale importo riesce a finanziare prima di rischiare il tracollo delle finanze personali? L’età media di chi fa domanda di mutuo è di 42 anni, si tratta per lo più di uomini (76%) con un nucleo familiare superiore alle 3 unità e uno stipendio mensile più elevato della media, circa 2.100 euro netti. Il che porta queste persone ad avanzare una richiesta media di finanziamento pari a 122mila euro, da restituire in un periodo di quasi 23 anni. La percentuale da finanziare attraverso il mutuo si ferma al 52% del valore dell’abitazione.

Un trend che commenta così Lorenzo Bacca, responsabile business unit di Mutui.it: “Affrontare l’iter della richiesta di un finanziamento per l’acquisto di una casa potendo far fede su un solo reddito dimostrabile è piuttosto complesso; i casi sono limitati e le richieste formali arrivano solo da soggetti che dispongono di stipendi elevati e possono accontentarsi di finanziare circa il 50% del valore dell’immobile“.

Il 66% delle domande di mutuo è rivolta all’acquisto della prima casa, mentre solo il 6% delle richieste è destinata all’acquisto di una seconda abitazione e il 10% dei casi punta a rifinanziare un mutuo già in essere. Sulla tipologia di tasso non c’è partita: preferito è indubbiamente quello variabile (48% del campione), mentre il tasso fisso è fermo al 36%.

Tutti fattori che, per queste famiglie monoreddito, mettono al centro della questione il cosiddetto concetto di “rata sostenibile“: il reddito mensile, infatti, tolta la rata del mutuo ed eventuali altri finanziamenti deve consentire la conduzione di un normale tenore di vita e per questo i nuclei con una sola entrata mensile ottengono più difficilmente un mutuo da rimborsare con rate elevate. In più, l’età media più elevata di chi chiede un mutuo già con una famiglia da mantenere riduce la possibilità di avvalersi dei genitori come garanti.

Un’analisi, quella di Mutui.it, la quale non fa che confermare non solo e non tanto le difficoltà delle famiglie nella gestione di un bene primario come è la casa ma la difficoltà di un settore intero quale è quello dell’edilizia. Scarsi investimenti pubblici e privati, un indotto che frena, imprese artigiane che chiudono da una parte. Surplus di offerta, prezzi di mercato superiori alle capacità di spesa delle persone, stretta sui mutui dall’altra. Un settore che è stato sempre in prima linea nella ripresa dopo periodi di difficoltà economica ora non sembra avere le forze necessarie per risollevarsi. Speriamo di no: l’Italia è una repubblica fondata sul mattone.

Sangalli: “Governo svelto, o ci schiantiamo”

Il presidente di Confcommercio Giancarlo Sangalli non usa mezzi termini durante la relazione annuale dell’associazione: è necessario “derubricare definitivamente l’ipotesi di ricorrere all’inasprimento dell’Iva come clausola di salvaguardia dei saldi della manovra salva-Italia. Gli aumenti Iva rischiano, tra il 2011 ed il 2014, di tradursi in minori consumi reali per circa 38 miliardi di euro. Insieme al carico da 90 delle maggiori accise e dell’impennata della fiscalità energetica, sarebbe la Caporetto delle famiglie, delle imprese, del lavoro. Bisogna, dunque, procedere ad una spending review senza timidezze“. Insomma: muoversi alla svelta oppure ci schiantiamo.

Una stilettata da parte di Sangalli anche alle banche, le quali “erogano alle imprese con il contagocce. E le gocce sono insufficienti a bagnare il terreno della crescita divenuto arido, troppo arido“. Sarebbe necessario, invece, premere sul “pedale della collaborazione tra banche e imprese secondo quella relazione di prossimità territoriale che è tanta parte della storia italiana del sostegno creditizio all’economia reale“.

Per non parlare dell’Imu, che Sangalli definisce “una vera e propria mazzata per gli immobili legati all’esercizio dell’attività d’impresa“. E chiude con un monito: “Dalla parte delle imprese e del lavoro: è la scelta di campo che chiediamo alla politica tutta, ma, oggi, anzitutto allo strano governo ed alla sua strana maggioranza: il tempo stringe. La risposta è urgente“.