Premiate le 4 imprese toscane più innovative

Sono state riconosciute le quattro aziende vincitrici del Premio Impresa Innovazione Lavoro, tutte molto attive nell’alta tecnologia e premiate dal Consiglio regionale della Toscana, che ha anche istituito questo premio, allo scopo di dare spazio a chi si impegna quotidianamente per far crescere qualitativamente e quantitativamente la propria attività.

Gian Luca Lazzeri, consigliere regionale dell’Ufficio di presidenza dell’Assemblea toscana, ha presentato così il riconoscimento: “Con questo premio abbiamo inteso riaffermare la forza delle idee e della creatività per creare nuovi posti di lavoro e strade di sviluppo. Ci eravamo prefissi e ci prefiggiamo un traguardo ambizioso, che vogliamo raggiungere premiando chi ha saputo coniugare estro, creatività e cultura affinché la nostra regione torni ad essere oltre che culla d’arte e dell’umanesimo, anche terra di saperi tecnologici e di innovazione scientifica che trovino traduzione nel saper fare impresa del nostro territorio”.

Le aziende che hanno partecipato sono in tutto 38, operanti nei vari poli e distretti tecnologici della Toscana. Il criterio di scelta e i riconoscimenti assegnati sono stati illustrati da Fabrizio Landi, presidente della commissione giudicatrice: “Abbiamo seguito i criteri della dimensione di impresa: grande, piccola e media, start-up, della qualità dell’idea, dell’impatto del prodotto e della sua realizzabilità”.

Vincitrice della categoria startup è stata la D-Orbit srl di Sesto Fiorentino, con il progetto di un dispositivo di rimozione per satelliti.
Nella categorie pmi le aziende premiate sono state due: la 01S srl di Sansepolcro (AR) con un progetto per la valorizzazione del patrimonio di informazioni della Pubblica amministrazione attualmente non disponibile e la Philogen Spa di Siena per la sperimentazione clinica di un nuovo farmaco biotecnologico per la cura del melanoma metastatico.
Infine, il premio alla grande impresa è stato assegnato alla Thales Italia Spa di Sesto Fiorentino (FI) per il progetto di una piattaforma integrata per la gestione delle operazioni aeroportuali.

Inoltre, Lazzeri ha ricordato che il Premio rappresenta un’evoluzione del Premio Vespucci, la cui ultima edizione fu quella del 2010, “perché quel riconoscimento premiava le idee, senza la garanzia che quei progetti si trasformassero in produzioni e, quindi, in sviluppo e posti di lavoro”.

Alle aziende sono state consegnate riproduzioni bronzee in scala dell’opera “La Speranza d’Oro”, donate dall’artista Niccolò Niccolai, il quale ha spiegato :“La speranza è l’unica bacchetta magica a nostra disposizione, l’unica che può mettere ordine nel caos così da far nascere progetti di ordine”.

Marco Bellandi, della Fondazione per la ricerca e l’innovazione di Firenze, partner organizzativo del premio, e Rosa Dello Sbarba, intervenuta in rappresentanza dell’assessore allo Sviluppo economico Gianfranco Simoncini, hanno riaffermato l’importanza di aver puntato “su un sistema efficiente di trasferimento tecnologico alle imprese in una logica di integrazione che vede interagire in modo proficuo le Università, le istituzioni territoriali e le imprese”.

Vera MORETTI

Ict e professionisti: a che punto siamo?

Sono sempre di più i professionisti che, per le loro attività lavorative, utilizzano strumenti mobili e applicazioni per smartphone.
Nonostante la cautela e una diffidenza iniziale, il potenziale è molto alto, poiché ad oggi ben il 42% dei professionisti trascorre quasi metà del tempo lavorativo fuori dal proprio studio, percentuale che scende al 38% per i commercialisti e al 33% per i consulenti del lavoro, mentre sale a 46% per quanto riguarda gli avvocati.

A rendere noti questi dati è l’Osservatorio Ict & Professionisti della School of Management del Politecnico di Milano, che, a seguito di una ricerca, individua negli avvocati e nei professionisti di studi associati i più assidui mobile workers, che quindi ricorrono sempre di più a pc portatili, tablet e smartphone per svolgere il proprio lavoro anche all’esterno del proprio ufficio.

Le attività più frequenti sono la lettura dell’email (19%), la navigazione in Internet (17%), la lavorazione di documenti (10%) e la consultazione di dati dello studio (9%), mentre i dispositivi più utilizzati sono gli smartphone, seguiti dai Pc portatili e dai tablet: i primi usati prevalentemente per gestire le e-mail (26%), i secondi per lavorare su documenti (26%), mentre i tablet, invece, per navigare in Internet (19%).

Le app sono utilizzate e considerate meno, poiché solo il 26% dei professionisti utilizza applicazioni a contenuto professionale e, al contrario, il 45% di essi dimostra nei loro confronti un vero e proprio disinteresse, dovuto soprattutto alla poca mobilità della professione.
In questo caso, le categorie professionali più assidue sono gli avvocati (29%), seguiti dai consulenti del lavoro (23%) e, per finire, dai commercialisti (21%).
Gli studi multidisciplinari raggiungono la percentuale più alta, pari al 32%.

Nonostante, poi, i professionisti siano interessati all’Ict, la diffusione delle nuove tecnologie rimane piuttosto limitata.
Purtroppo non è ancora radicata la convinzione che, per sopravvivere alla crisi, tecnologia ed innovazione possono davvero fare la differenza, creando maggiore efficienza, ma anche riducendo il tempo dedicato alle pratiche amministrative, e donando, di conseguenza, più tempo agli affari e alla creatività.
Dove presenti, le tecnologie più diffuse sono la firma digitale (nel 78% dei casi) e l’home banking (76%), seguite dai software di gestione elettronica documentale (46%) e poi, in misura minore, il sito internet “vetrina” (21%), l’eLearing (20%) e il controllo di gestione per lo studio (19%).

Claudio Rorato, responsabile della Ricerca, ha dichiarato a proposito: “Oltre alle tecnologie già in uso per la dematerializzazione dei documenti e ai semplici applicativi, insomma, ancora oggi non entrano nell’attività lavorativa degli studi professionali soluzioni come Crm, portali e siti web, firma grafometrica, Workflow management. Il business delle professioni appare ancora tradizionale nei contenuti e nelle prassi di conduzione. La tecnologia potrebbe assistere invece l’apertura di nuove idee di business assistite dalle tecnologie o prassi lavorative più snelle”.

Ad impedire l’adozione di soluzioni Ict è spesso anche il budget, che rimarrà limitato anche nel prossimo biennio, perciò se l’83% degli studi professionali dichiara la disponibilità a investire in tecnologia nei prossimi due anni, l 27% di questi dedicherà un budget compreso tra mille e 3 mila euro, il 21% al massimo mille euro e solo il 16% tra 3 mila e 5 mila euro.

Chi sarà disposto ad investire, impiegherà il proprio denaro per l’acquisto di Pc più potenti e, a seguire, a server, stampanti e scanner (19%, 18% e 15% rispettivamente). Il 33%, invece, non investirà in hardware.

Alessandro Perego, responsabile Scientifico dell’Osservatorio Ict&Professionisti, ha commentato: “La natura di questi investimenti sottolinea come ci sia ancora una difficoltà a percepire concretamente la capacità di generare valore da parte delle Ict. Si privilegia la performance dello strumento, come i PC più potenti, e non quella di processo. Non emerge la volontà concreta di riorientare il business, prevalentemente ancora di natura tradizionale, verso nuove forme di servizio in grado di diversificare i rischi, proteggere la marginalità, sviluppare nuove opportunità. L’alfabetizzazione digitale, che impegni le istituzioni politiche e professionali, diventa allora cruciale per la diffusione di una cultura tecnologica presso i professionisti, per far percepire chiaramente perché una tecnologia può generare valore e, soprattutto, dove lo può creare”.

A prevalere, comunque, negli studi professionali, è la consapevolezza che la tecnologia può portare notevoli benefici, ed in particolare servizi sempre più efficienti, ma anche maggior reddito, anche se la diffidenza è ancora percepibile ed è quella che impedisce di fare il salto di qualità.

Emergono anche le difficoltà che condizionano la diffusione delle tecnologie presso gli studi.
In particolare, sono l’alfabetizzazione informatica dei titolari (42%), il livello dei costi dei software (30%), la difficoltà a conoscere realmente l’offerta del mercato (23%). Il 21%, invece, non ravvisa problemi particolari.
Analizzando le singole professioni, gli avvocati riconoscono più di tutti un valore elevato alla scarsa alfabetizzazione dei titolari di studio (49%), mentre i consulenti del lavoro individuano tra le cause più importanti la lentezza di Internet (21%). Per gli studi multidisciplinari, infine, la prima ragione è la lentezza di Internet (32%), seguita dalla scarsa alfabetizzazione dei titolari di studio (30%), dalla scarsa alfabetizzazione del personale (29%) e dai costi dei software (28%).

Per quanto riguarda l’attività svolta da avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro produce una grande mole di documenti cartacei che saturano gli archivi e impiegano tempo per la custodia, ma le prassi di “dematerializzazione” dei documenti e gli strumenti che possono aiutare a rendere più efficienti alcune attività non sono ancora diffusi.

Il 42% dei commercialisti, il 58% degli avvocati e il 35% dei consulenti del lavoro affronta la situazione con la scansione dei documenti cartacei, creando archivi elettronici, ma mantenendo ancora la carta o ricorrendo a fornitori esterni.
Solo il 26% dei commercialisti, il 17% degli avvocati e il 33% dei consulenti del lavoro pensa invece di ricorrere alla conservazione a norma dei documenti già in Pdf o trasformati in formato Pdf con la scansione dei documenti cartacei. Anche per i fax, il 62% dei commercialisti, l’80% degli avvocati e il 51% dei consulenti del lavoro ricorre alla fotocopia e all’archiviazione cartacea, mentre una minima parte prevede la scansione e l’archiviazione in cartelle elettroniche o l’archiviazione diretta nei server in digitale.

Per quanto riguarda le e-mail di interesse, il 69% dei commercialisti, l’87% degli avvocati e il 56% dei consulenti del lavoro le stampa e le archivia all’interno delle pratiche di competenza.

Vera MORETTI

Le pmi italiane verso tecnologia e innovazione

Ormai è stato detto e ridetto: per non soccombere e rimanere altamente competitive, le pmi devono affidarsi ad innovazione e tecnologia.

Ora però ci sono anche i numeri a confermarlo, e arrivano da una ricerca condotta dall’istituto Oxford Economics su 2.100 Cio e decisori It di Pmi operanti in tutti i principali settori, con un fatturato annuo compreso tra i 20 e i 750 milioni di dollari, in 21 Paesi del mondo.

Tra queste, come si stanno comportando le pmi italiane?
Ebbene, a quanto pare il 59% di esse, e quindi in linea con il resto d’Europa, sta evolvendo i propri modelli di business, l’offerta di prodotti e le strategie di go-to-market per rimanere al passo con i nuovi scenari di mercato.

In questa direzione, il 55% delle pmi italiane sta avviando nuove collaborazioni con fornitori e partner di altri Paesi, dimostrando la propria propensione e volontà a muoversi ed espandersi a livello internazionale: non a caso, nel 32% dei casi l’espansione del business su scala globale è considerata un fattore altamente strategico per la competitività e la crescita.

Solo il 14% delle Pmi del nostro Paese (contro il 21% a livello europeo) non genera ricavi al di fuori dell’Italia, dato destinato a scendere all’8% nei prossimi 3 anni (contro il 15% previsto in Europa). Inoltre, circa un terzo (31%) delle imprese italiane prevede che nei prossimi 3 anni tra il 21% e il 40% dei propri ricavi sarà generato su scala globale, contro il 24% odierno.

Non si tratta, dunque, di risultati negativi, anche se, tra le piccole e medie imprese in Italia, c’è la convinzione che più di tutto, per mantenersi attivi sul mercato, serve l’innovazione, considerata lo strumento per il raggiungimento dell’efficienza e il contenimento dei costi (per il 46% delle aziende, rispetto al 49% a livello europeo). In questo contesto, la tecnologia gioca un ruolo fondamentale.
A fronte di un 47% che dichiara di investire in innovazione tecnologica solo quando esiste un chiaro ritorno sugli investimenti (Roi), entro i prossimi 3 anni le Pmi italiane prevedono un incremento consistente nell’utilizzo della tecnologia a servizio del business.

In particolare, le soluzioni di business analytics ricevono le previsioni di crescita maggiore, passando dal 32% al 48% di utilizzo.
Crescerà del 36% anche l’uso dei social media, utilizzati oggi dal 28% delle Pmi, così come sperimenterà un incremento l’adozione di soluzioni cloud, sfruttate oggi dal 33% delle imprese e destinate a salire al 44% (con una crescita del 33%).
Infine, ad aumentare sarà anche l’uso di tecnologie oggi già ampiamente presenti all’interno delle Pmi come i software gestionali, utilizzati nel 47% dei casi e per i quali è prevista una crescita del 17%, e il mobile, che passerà dal 45% odierno al 48% nei prossimi tre anni.

L’incertezza economica, per il 45% delle pmi nostrane, è da spiegarsi soprattutto considerando il movimento storico che stiamo vivendo, colpevole di generare apprensione molto più che in altri Paesi d’Europa, dove la percentuale in questo caso è ferma al 30%.

A seguire, secondo quanto evidenziato dallo studio, anche i costi del lavoro in costante crescita (31%) e il livello di competizione globale sempre più alto (26%) rappresentano ulteriori fattori di indeterminatezza fortemente sentiti dalle imprese in Italia.

Vera MORETTI

Pmi, l’e-commerce per agganciare la ripresa

Si fa un gran parlare del 2014 come dell’anno della ripresa dopo 5 anni di crisi terribili che, soprattutto in Italia, hanno fatto strage di imprese e del potere di acquisto delle famiglie Se fosse vero, mai come in questo caso il modo migliore per agganciarla, da parte delle Pmi, è una politica seria di investimenti sul lato tecnologico.

Lo confermano anche i dati presentati nel recente convegno di Capri organizzato da Between “Digital per Italia” ed emersi da un’analisi di Google e Doxa Digital.

Nel 2012, il valore dell’e-commerce di prodotti e servizi a livello mondiale ha superato la soglia dei mille miliardi di dollari, con una crescita media del 21,1% rispetto al 2011. L’Italia, come spesso accade quando si parla di e-commerce, tecnologia, fa registrare dati sensibilmente inferiori rispetto a quelli mondiali, eppure in decisa crescita: solo nel 2012 gli italiani che hanno acquistato online sono cresciuti del 30%, avvicinandosi alla quota di 12 milioni di unità, circa il 40% degli utenti internet del Paese.

Nel 2013 si prevede che le vendite online cresceranno ulteriormente del 18,3%, raggiungendo la cifra di 1,298 trilioni di dollari. In Europa, il mercato e-commerce ha raggiunto nel 2012 un valore complessivo di oltre 305 miliardi di euro, con un incremento del 22% sul 2011.

Andando nello specifico sui dati che interessano le piccole e medie imprese italiane, solo 3 Pmi su 10 si avvalgono del commercio elettronico come canale addizionale di vendita o di acquisto. Dalle rilevazioni effettuate su oltre 5mila aziende di piccole e medie dimensioni, emerge come le imprese italiane che hanno commercializzato i propri prodotti online all’estero sono riuscite a compensare meglio la crisi o addirittura hanno ottenuto un incremento nel proprio fatturato.

Parallelamente alla crescita del livello di maturità digitale, aumenta anche la percentuale di Pmi che intrattengono rapporti internazionali di vario tipo e la percentuale di imprese che esportano, con risultati molto promettenti per le imprese di minori dimensioni.

Servono altri dati per convincerci della necessità per le Pmi di essere finalmente digitali a 360 gradi?

Il telelavoro ha fatto boom

Telelavoro, un boom. Non solo professionisti e free lance, ma anche manager, quadri e consulenti scoprono che lavorare da remoto fa bene e fa aumentate la produttività anche del 60%. A dirlo è Hays, uno dei leader a livello globale del recruitment in middle e top management, che ha analizzato il fenomeno nel nuovo numero dell’Hays Journal.

Merito di questo boom? Della tecnologia e dei suoi device: dall’e-mail agli smartphone, dalla videoconferenza ai tablet. E, insieme a questi dell’aumento delle imprese con aspirazioni globali. Sempre maggiore è infatti il numero delle aziende che incoraggiano i dipendenti a scegliere opzioni d’impiego che prevedono il lavoro da remoto: aumenta la produttività, riduce i costi e migliora la spinta motivazionale dei dipendenti, garantendo il cosiddetto work-life balance.

Un altro “effetto collaterale” benefico del telelavoro è la possibilità di creare team multi-culturali, che possano far fruttare la diversità di retroterra ed esperienza per creare valore aggiunto da mettere ai prodotti. Paesi a forte multiculturalità come Germania, Gran Bretagna e Paesi Bassi hanno aperto la strada del remote working in Europa, con importanti piani di sviluppo per la banda larga e di accesso wireless.

Pur privilegiando il remote working, rimane fondamentale programmare incontri faccia-a-faccia che aumentino lo spirito di squadra, evitando che i professionisti perdano di vista i valori o la mission aziendale. Sempre nel caso di telelavoro, i direttori delle risorse umane dovranno stabilire come i colleghi delle sedi fisiche si debbano rapportare con i colleghi ‘da remoto’, rispettando sempre le gerarchie e le procedure aziendali. Un aspetto non da poco che, se gestito male, può anche vanificare tutti i vantaggi del remote working.

Una fotografia delle microimprese italiane ed europee

Non solo stampe e fotocopie nel DNA di Epson. L’azienda ha un occhio attento nei confronti delle dinamiche che caratterizzano le microimprese, un mondo che comprende molti dei sui clienti.

Epson ha infatti presentato i dati emersi dalla ricerca Epson Micro-Business, condotta su 1.250 imprenditori europei (250 in Italia) e focalizzata sulle esigenze e le sfide che le aziende di piccole dimensioni (1-10 addetti) devono oggi affrontare. E le soprese non mancano.

Le piccole imprese avranno infatti, probabilmente, un ruolo chiave nel guidare la ripresa dell’economia italiana e, tra i numerosi dati raccolti dalla ricerca, uno in particolare fa riflettere: l’89% delle piccole imprese italiane intervistate riferisce di comprare attraverso Internet e ben il 94% utilizza questo strumento per vendere i prodotti/servizi. Percentuali elevate e destinate a crescere nei prossimi due anni, che paiono dimostrare la volontà nel nostro paese di utilizzare i new media per fare business.

Dalla ricerca emerge poi come, in Italia, solo il 4% delle piccole imprese coinvolte nell’indagine stia perseguendo al momento una politica di crescita aggressiva. Il 29% degli imprenditori intervistati ha infatti affermato che “l’obiettivo principale è mantenere risultati costanti” e una percentuale analoga sta lavorando per “stabilizzare il business”. Per un quarto delle piccole imprese si tratta di una “battaglia per la sopravvivenza”.

Il nostro è un Paese – ha affermato Giuseppe Vivace, segretario generale CNA Lombardia – caratterizzato da una cultura artigiana capace di immaginare, progettare e trasformare le idee in prodotti fisici. C’è una grande capacità innovativa nelle piccole imprese che fa fatica ad emergere, dobbiamo facilitare l’innovazione chiedendo anche alle istituzioni pubbliche maggiore sensibilità, risorse e semplificazione.”

L’indagine Epson dimostra poi come i piccoli imprenditori italiani riconoscano l’importanza di acquisire nuovi clienti e fidelizzare quelli esistenti e considerino il servizio clienti un fattore critico di differenziazione dai concorrenti. Il 60% delle aziende italiane concorda anche sul fatto che la ricerca di nuovi clienti sia l’unica strategia di crescita nel contesto attuale e la base per un successo continuo nel tempo. Altrettanto importante è il coinvolgimento e la fidelizzazione dei clienti già esistenti, che è sempre più parte integrante dei piani strategici delle aziende. Ma con quali strumenti? Un efficace impiego della tecnologia (72%), il prezzo del prodotto/servizio (68%), il passaparola (66%) e il brand engagement (65%).

E a proposito di tecnologia, la ricerca dimostra che il 90% delle aziende italiane (il 92% in Europa) usa il PC/Laptop/Netbook per gli affari, mentre circa la metà impiega tecnologie di stampa nelle attività lavorative. Decisamente superiore alla media è l’utilizzo dello smartphone per gli affari, con un 51% in Italia contro il 26% della Francia e 24% della Germania.

Sembra però che l’approccio delle micro-aziende italiane sia quello di dilazionare nel tempo l’aggiornamento tecnologico, rimandando gli investimenti in nuove tecnologie, che invece potrebbero aiutare in modo significativo l’innovazione e la produttività dei dipendenti. In alcuni casi la tecnologia adottata dalle imprese di piccole dimensioni in Italia è una delle più datate in Europa: l’età media di un PC/Laptop è di 4,6 anni, mentre le tecnologie di copia e scansione hanno in media 3,8 anni (in confronto ai 2,3 anni riportati dalla media europea) e lo stesso vale per le tecnologie per la presentazione.

L’arrotino è sempre meno ambulante

di Vera MORETTI

E’ la fine degli arrotini “ambulanti”, quelli che, dai cortili delle case, chiamavano a squarciagola le massaie e aggiustavano lì per lì forbici e coltelli.
Ormai, un po’ perché di massaie ce ne sono sempre meno, un po’ perché i tempi evolvono, anche chi fa questo lavoro lo fa in un laboratorio attrezzato.

Quello che conta rimane l’abilità manuale e l’aggiornamento, nonché lo scambio di informazioni sul mestiere.
Questo è quanto ha dichiarato Lorenzo Preattoni, presidente dell’Aaec, associazione nazionale volontaria arrotini e coltellerie. Stare al passo coi tempi è una necessità che si è acuita con il calo di fatturato registrato con la crisi economica.

Il problema dell’aggiornamento e dello scambio è sentito maggiormente a Sud, come testimoniato da Emanuele Doronzo, vicepresidente pugliese dell’Aaec e arrotino da 39 anni.
A quanto pare, infatti, “soprattutto al Sud c’è poca disponibilità ad aprirsi al confronto con altri colleghi, è un mondo chiuso che comporta il non crescere qualitativamente, tranne per coloro che hanno una spiccata voglia di ricerca e lo fanno singolarmente. Purtroppo non ci sono scuole, e noi impariamo solo perché abbiamo voglia di farlo, e perché è solo così che avviene la crescita“.

Un altro fattore determinante per resistere alla crisi è senza dubbio la fidelizzazione del cliente perché, è indubbio, se il lavoro viene eseguito con sapienza e precisione, si torna dallo stesso artigiano, del quale ci si fida.

Ma anche specializzarsi è molto importante perché, come sottolinea Preattoni, “è diverso affilare coltelli da carne o per sfilettare pesce, o coltelli da macellaio che vengono usati per tagliare la gomma, perché cambia completamente la funzione originaria, ed è l’arrotino che può migliorare la funzione adattandola al tipo di lavoro“.

Per garantire la qualità del lavoro, sembra ormai indispensabile avere un laboratorio dove operare, perché è difficile poter lavorare in strada senza macchinari e, con gli utensili sofisticati di oggi, le macchine sono necessarie. Ciò viene dimostrato anche da quanto denunciato dai consumatori, i quali si lamentano degli arrotini da strada, che spesso rovinano i coltelli.
La tecnologia oggi è importante molto più della tradizione quindi fare l’ambulante rappresenta ormai un lusso che si possono concedere in pochi, ovvero gli arrotini più esperti e che viaggiano con un furgone che dispone di tutti i mezzi necessari a svolgere il proprio lavoro con precisione.

Come una volta, anche adesso la clientela tipica degli arrotini è quella “piccola”, ovvero privati e piccole imprese, anche se qualcuno riesce a lavorare anche per le grandi catene.
Il maggior lavoro viene dal settore agricolo, seguito dalla macelleria e dal calzaturiero, ora però in forte calo.

E le nuove generazioni? Ci sarà un ricambio o dovremo assistere all’estinzione di questa categoria? Doronzo spiega: “Negli ultimi anni ho visto un interesse maggiore per l’attività, ma purtroppo pochi dei giovani che si sono avvicinati al mestiere l’hanno fatto con passione, anche perché è un lavoro che richiede un’abnegazione totale. Io lavoro circa 12-13 ore al giorno qui in negozio, in piedi da mattina a sera. O ami il lavoro veramente o sei un qualunque“.

Il cloud computing fa volare le aziende

Il cloud computing fa bene alle Pmi e le fa volare alto. Questo è quanto emerge dall’indagine “Cloud adoption, benefits and strategy” condotta da IDG per NetApp, secondo la quale sempre più aziende scelgono il cloud computing per aumentare il proprio business.

Il sondaggio ha coinvolto 113 membri del CIO Forum su Linkedin e ha mostrato una forte crescita di interesse per il cloud all’interno di aziende grandi e piccole. I vantaggi che ne derivano sono maggiore flessibilità, riduzione dei costi, rapido provisioning di nuovi servizi e applicazioni.

L’86% degli intervistati ha sostenuto di essere in fase di implementazione o sviluppo di progetti di cloud computing e il 37% del campione ha dichiarato di aver dato molta importanza alle strategie cloud a livello aziendale, anziché a livello di business unit o dipartimento.

Secondo quanto riporta lo studio, le aziende sarebbero molto interessate a un “approccio concreto e meditato al cloud computing che comprenda modelli di cloud privato e pubblico in base alle necessità delle applicazioni e il supporto di partner competenti. È ormai evidente infatti che un’infrastruttura cloud mal progettata non può avere successo nel lungo termine”. Con il risultato che “una strategia cloud efficace permette di ridurre i costi, migliorare la flessibilità del business e assicurare una veloce risposta alle esigenze del business. Ma per ottenere risultati significativi è essenziale adottare un approccio olistico e globale, in grado di sfruttare al meglio le competenze sia dal lato IT sia dal lato business dell’azienda”.