Telelavoro sì, telelavoro no

Una delle parole d’ordine che, in questo nuovo decennio, le aziende sembrano fare propria per aumentare produttività e impegno da parte dei propri dipendenti è telelavoro. Qualcuno lo chiama, all’inglese, smart working o home working, ma la sostanza non cambia. Alla fin fine, il telelavoro consente di lavora da casa o da un altro luogo come se si fosse in ufficio.

Ma come si pone l’Italia di fronte al telelavoro? Secondo un’analisi elaborata dalla School of management del Politecnico di Milano, entro un paio d’anni il 20% delle aziende consentirà ai propri dipendenti di utilizzare lo smart working.

Secondo i ricercatori del Politecnico, che hanno effettuato un’indagine a campione su 211 aziende, il trend di valorizzazione del telelavoro era già iniziato lo scorso anno, quando il 67% delle imprese in Italia ha avviato un progetto di smart working. Un dato che però non deve trarre in inganno; secondo il Politecnico, le imprese che hanno davvero adottato un sistema di lavoro smart esteso a tutti i livelli dell’organigramma aziendale sono solo l’8% del campione oggetto dello studio.

Come si può facilmente immaginare, dallo studio del Politecnico emerge che le realtà più orientate al telelavoro sono le multinazionali o aziende con oltre 500 dipendenti. I settori nei quali il telelavoro trova più spazio sono quelli delle banche, delle telecomunicazioni e dell’IT (e ci mancherebbe altro…) e dell’alimentare, che scelgono di incentivarlo soprattutto perché, come detto all’inizio, gratifica il dipendente e ne aumenta la produttività.

La sorpresa nel rapporto del Politecnico sul telelavoro arriva però sul fronte dei dipendenti. Se, infatti, molte aziende considerano lo smart working un ottimo sistema per il dipendente per conciliare vita e lavoro, è proprio il dipendente a non volere questa impostazione: solo uno su 5, infatti, in base allo studio, aderirebbe al telelavoro. La spiegazione, secondo Fiorella Crespi, responsabile della ricerca dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico è soprattutto culturale: “Le radici di questo scetticismo sono da individuare nella diversa cultura aziendale presente nel nostro Paese. A differenza del Nord Europa, si tende a privilegiare la socialità e a sviluppare uno stile di gestione delle risorse incentrato sul controllo diretto del lavoro. C’è ancora la percezione diffusa che la qualità della propria produzione sia strettamente collegata alla presenza in ufficio. Per cambiare la cultura aziendale, c’è bisogno di formazione e di ripensare il modello di leadership”.

Smart working, i tanti perché di un modello da provare

di Davide PASSONI

Quanti di voi hanno mai provato a lavorare da casa? Non parliamo di liberi professionisti o di persone che, per la natura del lavoro che svolgono, possono farlo in mobilità da qualsiasi posto si trovino… Parliamo di lavoratori dipendenti, nel pubblico o nel privato, che chiedono alla propria azienda di andare incontro ad loro esigenze specifiche, permettendo di lavorare alcuni giorni della settimana dalla propria abitazione.

Ebbene, chi lo ha provato può testimoniare quanto sostengono studi e ricerche in merito: il cosidetto “home working” o, meglio ancora, “smart working”, è una tipologia di telelavoro che consente all’azienda e al lavoratore di risparmiare (tempo e soldi) e, a quest’ultimo, di essere più produttivo. In sostanza, un doppio beneficio, sia per l’impresa sia per il dipendente.

Chi lavora a casa non è stressato dal tragitto casa-lavoro, ha una maggiore capacità di concentrazione, rende di più e meglio anche in virtù del fatto che, in questo modo, il legame di fiducia che lo lega all’azienda è ancora più forte, almeno quanto il desiderio di ripagare questa fiducia. E ciò, dicono gli studi, sia nel privato sia – udite udite – nel pubblico.  A dispetto di quanto tanti maligni pensano.

Ecco perché, allora, alla fine di gennaio è stata depositata in Parlamento una proposta di legge, trasversale agli schieramenti, per regolamentare lo smart working. Non è un caso che ad elaborare la proposta siano state tre deputate donne: proprio tra le esponenti del gentil sesso è infatti maggiormente sentito il bisogno di conciliare vita e lavoro. Vero è, però, che anche tanti imprenditori si rendono conto dei benefici e della qualità che il lavoro da casa da alla qualità di quanto una persona realizza.

E allora, per quale motivo regolamentare con una legge una modalità di lavoro che, almeno sulla carta, sembra dare benefici a tutti e che, proprio per questo, dovrebbe uscire quasi naturale in Paese normale? Qualche idea, noi di INFOIVA, ce l’abbiamo, ma preferiamo siano i protagonisti a esprimersi: saremmo troppo parziale e anche un po’ cattivelli se dicessimo quello che pensiamo analizzando la situazione del mercato del lavoro oggi in Italia, Paese non proprio normale…

Salerno, sì al progetto telelavoro

La Regione Campania approva il progetto sul telelavoro presentato dalla provincia di Salerno e lo finanzia con 112mila euro. Più che positivo il commento dell’assessore alla provincia di Salerno per le politiche del lavoro e delle pari opportunità, Pina Esposito: “Il progetto finanziato per 112mila euro, rientra negli obiettivi del piano triennale delle azioni positive che mira a garantire la parità tra i sessi. Si tratta di un risultato importante che agevolerà l’approccio al lavoro dei dipendenti dell’Ente, con particolare riferimento alle madri“.

Secondo Esposito, “i benefici sono molteplici e incideranno positivamente sull’organizzazione della provincia con il miglioramento delle motivazioni e la flessibilità del lavoro. Un’iniziativa che non esito a definire innovatrice, che ha visto la provincia di Salerno sensibile ed attenta al lavoro dei dipendenti, nonché al miglioramento della qualità delle prestazioni attraverso un’ottimizzazione nella gestione delle risorse umane, grazie a tempi di lavoro meno rigidi“.

Il telelavoro ha fatto boom

Telelavoro, un boom. Non solo professionisti e free lance, ma anche manager, quadri e consulenti scoprono che lavorare da remoto fa bene e fa aumentate la produttività anche del 60%. A dirlo è Hays, uno dei leader a livello globale del recruitment in middle e top management, che ha analizzato il fenomeno nel nuovo numero dell’Hays Journal.

Merito di questo boom? Della tecnologia e dei suoi device: dall’e-mail agli smartphone, dalla videoconferenza ai tablet. E, insieme a questi dell’aumento delle imprese con aspirazioni globali. Sempre maggiore è infatti il numero delle aziende che incoraggiano i dipendenti a scegliere opzioni d’impiego che prevedono il lavoro da remoto: aumenta la produttività, riduce i costi e migliora la spinta motivazionale dei dipendenti, garantendo il cosiddetto work-life balance.

Un altro “effetto collaterale” benefico del telelavoro è la possibilità di creare team multi-culturali, che possano far fruttare la diversità di retroterra ed esperienza per creare valore aggiunto da mettere ai prodotti. Paesi a forte multiculturalità come Germania, Gran Bretagna e Paesi Bassi hanno aperto la strada del remote working in Europa, con importanti piani di sviluppo per la banda larga e di accesso wireless.

Pur privilegiando il remote working, rimane fondamentale programmare incontri faccia-a-faccia che aumentino lo spirito di squadra, evitando che i professionisti perdano di vista i valori o la mission aziendale. Sempre nel caso di telelavoro, i direttori delle risorse umane dovranno stabilire come i colleghi delle sedi fisiche si debbano rapportare con i colleghi ‘da remoto’, rispettando sempre le gerarchie e le procedure aziendali. Un aspetto non da poco che, se gestito male, può anche vanificare tutti i vantaggi del remote working.

Italiani, popolo di lavoratori (forzati)

Full-time di otto ore? Una vera utopia per la maggior parte degli italiani che, intervistati per un sondaggio condotto da Regus, in realtà “sforano” spesso, se non sempre, sull’orario canonico previsto dal contratto. E, quando non ce la fanno a terminarlo in ufficio, se lo portano addirittura a casa. E questo non avviene saltuariamente ma almeno 3 volte alla settimana.

La causa? Probabilmente potrebbe essere una crescente pressione sull’orario lavorativo a causa del lento recupero economico nelle economie più mature e della rapida crescita nelle economie emergenti.

Le categorie più “a rischio” sono i telelavoratori, che registrano 11 ore di lavoro nel 14% dei casi, contro i lavoratori fissi in ufficio nel 6% dei casi.

Questa situazione coinvolge maggiormente gli uomini, che per il 12% lavorano 60 ore alla settimana contro il 5% delle donne. Queste ultime, inoltre, portano il lavoro a casa con meno probabilità, 32%, rispetto agli uomini, 48%. Le possibilità che il lavoro assorba anche il tempo libero aumentano nelle aziende piccole, 48%, rispetto a quelle più grandi, 29%.

Mauro Mordini, Direttore Regus Italia, commenta così: “Questo studio evidenzia un ovvio offuscamento del confine tra casa e lavoro. Gli effetti a lungo termine dell’eccessivo lavoro possono danneggiare sia la salute dei lavoratori che la produttività generale, in quanto i lavoratori si stancano troppo e a lungo andare perdono la motivazione, diventano depressi o possono addirittura ammalarsi“.

Vera Moretti