Cgia: lo stato ancora campione di tasse

In fatto di tasse, è più famelico lo stato centrale o sono più sanguisughe le amministrazioni locali? Secondo molti le seconde, mentre in realtà, secondo l’Ufficio studi della Cgia, lo stato rimane ladro assoluto in fatto di tasse, con un totale che è pari a tre volte quello delle tasse locali.

Le analisi dell’Ufficio studi della Cgia dicono infatti che, sul totale delle entrate tributarie incassate dalle amministrazioni centrali, circa il 60% è riconducibile all’Irpef (con una quota di 161,4 miliardi), all’Iva (97,1 miliardi) e all’Ires (31 miliardi), mentre a livello locale ci sono l’Irap (30,4 miliardi), l’Imu/Tasi (21,1 miliardi), l’addizionale regionale Irpef (10,9 miliardi) e l’addizionale comunale Irpef (4,4 miliardi). Nel 2014, su un totale di 485,8 miliardi di entrate tributarie, il 78% se l’è messo in tasca lo Stato centrale e solo il 22% gli enti locali.

Pur sottolineando il fatto che, negli ultimi anni, regioni ed enti locali hanno aumentato le tasse più di quanto non le abbia tagliate l’amministrazione centrale, dalla Cgia fanno sapere che è difficile effettuare un confronto attendibile tra andamento dei trasferimenti allo stato centrale e dinamiche di crescita dei tributi locali, in quanto l’arco temporale considerato (2000-2014) è molto ampio.

Inoltre, il progressivo taglio dei trasferimenti a regioni ed enti locali, l’aumento dell’aliquota dell’addizionale regionale Irpef dello 0,33% disposto dal decreto Salva Italia nel 2011 e le modifiche ad alcune normative come quella che ha ascritto il finanziamento della sanità in capo anche alle Regioni hanno determinato profondi cambiamenti nel rapporto tra enti locali e stato centrale.

Resta il fatto che, secondo Paolo Zabeo della Cgia, “in questi ultimi anni i trasferimenti correnti statali a beneficio di Regioni ed enti locali sono passati dai 53 miliardi di euro nel 2000 ai 35 miliardi nel 2013 , ultimo anno disponibile, con una flessione del 35%, pari a 18 miliardi di euro. Sempre nello stesso periodo, le entrate tributarie a livello locale sono cresciute di 32,6 miliardi. Un importo, quest’ultimo, nettamente superiore ai 18 miliardi di tagli subiti”.

Una tendenza più accentuata negli ultimi sette anni, come sottolinea ancora la Cgia, quando le manovre finanziarie hanno disposto “22 miliardi di tagli nei trasferimenti provenienti dallo Stato (di cui circa 10 miliardi a carico delle Regioni e i restanti 12 miliardi ad appannaggio degli enti locali), cui vanno aggiunti i tagli al finanziamento del fabbisogno del sistema sanitario gestito dalle Regioni per complessivi 17,5 miliardi”.

Se la crisi azzoppa gli investimenti

Uno dei dati che fanno capire quanto ancora la crisi non abbia smesso di mordere, è quello relativo alla propensione delle imprese agli investimenti. Investimenti che, negli ultimi, lunghissimi 8 anni di crisi sono letteralmente crollati.

I conti li ha fatti l’Ufficio studi della Cgia, che ha calcolato come, tra il 2007 e il 2014, l’ammontare complessivo degli investimenti al netto dell’inflazione sia sceso di 109,4 miliardi di euro, un calo del 29,7%. Tra tutti gli indicatori economici, si tratta di quello che ha registrato la contrazione percentuale più ampia.

Analizzando i settori nei quali il calo degli investimenti è stato più sensibile, la Cgia ha rilevato che le contrazioni più significative sono state relative ai mezzi di trasporto (autoveicoli, automezzi aziendali, bus, treni, aerei, etc.), in flessione del 43,4% (-10,9 miliardi di euro), i fabbricati non residenziali (capannoni, edifici commerciali, opere pubbliche, etc.), -38,6% (-39,1 miliardi) e le abitazioni. Quello dell’edilizia, non è un mistero, è il settore più colpito dalla crisi. L’edilizia residenziale ha fatto segnare un calo degli investimenti del 31,6%(-31,7 miliardi).

Pesanti anche le cadute nel settore informatico (-30,1%, pari a -1,9 miliardi), in quello degli impianti e dei macchinari (-29,3%, -25,4 miliardi) e in quello dei software (-10,8%, -2,4 miliardi).

Le uniche tipologie di investimenti che non hanno patito la crisi sono state quelle in ricerca e allo sviluppo (+8,1%, +1,5 miliardi) e in tlc (+10,6%, +598 milioni).

Nel periodo 2007-2014, la crisi ha colpito anche gli investimenti nel settore pubblico (-30,8%), così come le famiglie consumatrici (-29,9%). L’Ufficio Studi della Cgia segnala come, fatto 100 il totale degli investimenti in Italia nel 2014, oltre il 60% era riconducibile alle imprese e il 24% circa alle famiglie consumatrici.

Imu e Tasi? Tasse raddoppiate in quattro anni

Il bello di Imu e Tasi è che ogni giorno escono cifre nuove e in un certo senso sconvolgenti su queste due imposte. Dopo che ieri abbiamo parlato delle stime di Confartigianato sulle aliquote medie di Imu e Tasi in diverse zone d’Italia e sull’aumento della tassazione specialmente sugli immobili produttivi (negozi, uffici e capannoni) tra il 2012 e il 2014, oggi registriamo altre cifre, diffuse questa volta dalla Cgia.

Gli artigiani di Mestre hanno fatto il loro conti su Imu e Tasi per gli immobili strumentali e hanno rilevato che, tra il 2011 e il 2014, “la tassazione sugli immobili strumentali ha subito una vera e propria impennata: dai 5 miliardi di gettito dell’ultima Ici pagata, nel 2014 il prelievo ha superato i 10 miliardi”. Raddoppiata.

La Cgia è poi entrata nel dettaglio dell’aumento di Imu e Tasi per le diverse categorie d’immobili: +142% per gli uffici e gli studi; +137% per botteghe ed esercizi commerciali; +107% per laboratori artigianali; +101% per le banche; +94% per gli immobili a uso produttivo.

Interessanti anche i dati sul gettito di Imu e Tasi per categoria di immobile. I capannoni hanno prodotto il gettito più significativo, passato dai 3,17 miliardi del 2011 ai 6,15 miliardi del 2014 (+94%). Seguono negozi e botteghe artigiane (809 milioni nel 2011, 1,9 miliardi nel 2014, +137%), uffici e studi (da 545 milioni a 1,32 miliardi, +142%), laboratori (da 228 milioni a 473 milioni, +107%).

I calcoli su Imu e Tasi eseguiti dall’Ufficio studi della Cgia hanno utilizzato per ciascuna tipologia di imposta l’aliquota media risultante dalle delibere dei Comuni capoluogo di provincia; relativamente alle tipologie immobiliari, è stata ricavata la rendita catastale media utilizzando la banca dati dell’Agenzia delle Entrate.

Inoltre, nell’analisi della variazione del carico fiscale prodotto da Imu e Tasi, l’Ufficio studi della Cgia non ha considerato il “risparmio fiscale concesso dalla legge. Così come avvenuto nel 2014, anche per quest’anno la Tasi per le aziende è completamente deducibile dal reddito di impresa, mentre l’Imu lo è solo per una quota pari al 20%“.

Tfr in busta paga, ci siamo

Alla fine, con qualche difficoltà in più del previsto, il Tfr in busta paga sarà realtà dal mese di aprile 2015. La norma avrebbe dovuto essere effettiva già a partire dal corrente mese di marzo, ma il decreto che l’ha resa operativa è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale solo il 19 marzo, ragion per cui chi aveva già fatto richiesta del Tfr in busta paga a partire da marzo si è trovato spiazzato.

Uno spiazzamento che, in un certo senso, potrebbe anche essere salutare dal momento che forse non è chiaro a tutti che la misura del Tfr in busta paga, voluta dal governo per rimpinguare le retribuzioni dei richiedenti in modo da poter rilanciare i consumi interni con una maggiore potenzialità di spesa, è in realtà un boomerang. Ossia, non conviene.

L’anticipo del Tfr in busta paga è infatti soggetto alla tassazione ordinaria e non a quella separata, ragion per cui, da più parti si sottolinea come sia più conveniente ricevere l’intero Tfr alla fine della propria carriera lavorativa anziché anticipato in busta paga.

Il Tfr percepito a fine carriera è infatti tassato separatamente secondo la media delle aliquote degli ultimi cinque anni, nelle quali compaiono anche le detrazioni per lavoro e per i carichi familiari. In caso di Tfr in busta paga, la quota di Tfr va a costituire reddito, con conseguente aumento della tassazione con l’aliquota marginale, quella che interessa la parte più alta del reddito.

Naturalmente, l’aumento di stipendio dato dall’introduzione del Tfr in busta paga porta a una riduzione delle detrazioni per i figli a carico e i quelle legati agli assegni familiari. Senza contare che sul Tfr di fine carriera non si applicano le addizionali regionali e comunali Irpef, a differenza di quanto accade con il Tfr in busta paga.

I conti, come scrivevamo, li hanno fatti in molti, e tra questi l’Ufficio Studi della Cgia: “Secondo i nostri calcoli – ha infatti sottolineato Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgiarispetto all’erogazione della liquidazione al termine del rapporto di lavoro, chi ne chiederà l’anticipazione pagherà più tasse per un importo che su base annua oscillerà tra i 230 e i 700 euro circa. Ovviamente l’aggravio fiscale tenderà ad aumentare al crescere del livello di reddito del soggetto richiedente”.

L’Ufficio Studi della Cgia ha calcolato che se un dipendente senza familiari a carico sceglie di avere il Tfr in busta paga, l’aggravio fiscale che lo colpisce va da 236 euro all’anno (reddito imponibile Irpef di 15mila euro) a 623 euro (reddito imponibile Irpef di 80mila euro).

La Cgia ha calcolato poi che, se colui che richiede l’anticipo del Tfr in busta paga ha moglie e un figlio a carico, l’aggravio fiscale sarà tra i 362 euro (reddito imponibile Irpef di 15mila euro) e i 696 euro (reddito imponibile Irpef di 80mila euro).

Il grande bluff delle liberalizzazioni

Quando se ne cominciò a parlare diversi anni fa, le liberalizzazioni sembravano la soluzione unica e irripetibile per fa risparmiare agli italiani carrettate di soldi e rendere finalmente felici le associazioni dei consumatori, da sempre impegnate a combattere monopoli e oligopoli che andavano a danno dei cittadini.

Invece, pare che nei i settori interessati dall’apertura alla concorrenza avvenuta con le liberalizzazioni, negli ultimi 20 anni si sia mosso assai poco, a eccezione di medicinali e telefonia. Anzi, nonostante le liberalizzazioni, i prezzi e le tariffe sono aumentati più dell’inflazione, con il risultato che i consumatori ci hanno rimesso un’altra volta

È quanto emerge da un’analisi dell’Ufficio studi della Cgia, che hanno messo i fila i settori nei quali, dal 1994 a oggi, si sono registrati gli aumenti tariffari più eclatanti, nonostante l’apertura del mercato con le liberalizzazioni. Al primo posto ci sono le assicurazioni sui mezzi di trasporto, le cui tariffe sono aumentate del 189,3%, contro una crescita dell’inflazione del 50,1%.

Seguono i servizi bancari e finanziari, con una crescita del 115,6% (inflazione +50,1%). Al terzo posto i trasporti aerei, +71,7% dal 1997 a oggi (inflazione +41,5%). Tocca poi ai pedaggi autostradali, liberalizzati dal 1999 (+69,9%, inflazione +36,5%), al trasporto ferroviario dal 2000 (+58,3%, inflazione +33,1%), al gas dal 2003 (+43,2%, inflazione +23,1%), alle poste dal 1999 (+40,4%, inflazione +36,5%), ai trasporti urbani dal 2009 (+27,3%, inflazione +9%) ed elettricità dal 2007 (+21%, inflazione +13,6%)

In controtendenza e favoriti dalle liberalizzazioni solo la telefonia (23%, inflazione +38,8%), e i medicinali (-12,1%, inflazione +50,1%). Saldi, quindi, ancora negativi.

Per onestà di ricerca, l’Ufficio Studi della Cgia ha anche precisato che l’andamento delle tariffe di energia e trasporti è stato in parte condizionato dai costi delle materie prime e da aggravi fiscali di cui non è stato possibile tenere conto nell’analisi sugli effetti delle liberalizzazioni.

I rincari avvenuti nel settore del gas – dice il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi hanno sicuramente risentito del costo della materia prima, mentre l’energia elettrica è stata influenzata dall’andamento delle quotazioni petrolifere e dall’aumento degli oneri generali di sistema, in particolare per la copertura degli schemi di incentivazione delle fonti rinnovabili. I trasporti urbani, invece, hanno subito gli aumenti del costo del carburante e quello del lavoro. Non va dimenticato che molti rincari sono stati condizionati anche, e qualche volta soprattutto, dall’ aggravio fiscale. Tuttavia, nonostante le liberalizzazioni avvenute negli ultimi decenni abbiano interessato gran parte di questi settori, i risultati ottenuti sono stati deludenti. In linea di massima, oggi siamo chiamati a pagare di più, ma la qualità dei servizi resi non ha subito miglioramenti sensibili, anzi in molti casi è addirittura peggiorata”.

La mappa delle regioni più tassate, secondo la Cgia

Ci sono tante classifiche nelle quali gli italiani amano primeggiare, ma ce n’è una nella quale preferirebbero non comparire mai: quella delle tasse. Una classifica ben poco gratificante, che varia da regione a regione e che, secondo l’Ufficio Studi della Cgia, vede in testa le regioni dove vi è maggiore concentrazione di ricchezza.

Secondo la Cgia, infatti, sono i cittadini lombardi i contribuenti più tartassati d’Italia; un risultato emerso confrontando il gettito fiscale versato da lavoratori dipendenti, autonomi, imprese e pensionati di ciascuna regione italiana.

Rilevato che la media nazionale è di 8.824 euro per abitante, l’Ufficio Studi della Cgia ha dunque scoperto che ciascun residente in Lombardia versa tra Fisco e imposte locali una media di 11386 euro; a seguire i cittadini del Lazio (10.763 euro) e dell’Emilia Romagna (10.490 euro). Vengono poi quelli del Trentino Alto Adige (10.333 euro) e della Liguria (10.324 euro).

Le regioni meno tartassate sono la Campania (6.041 euro per cittadino), la Calabria (5.918 euro) e la Sicilia (5.598 euro). I dati della Cgia sono riferiti al 2012, l’ultimo anno per il quale è possibile avere il dettaglio dei numeri a livello territoriale.

L’Ufficio Studi della Cgia ha poi spacchettato ulteriormente i dati, analizzando qual è la distribuzione di queste entrate ai vari livelli di governo, partendo dallo Stato per arrivare agli enti locali, quelli più vicini al cittadino. Secondo quanto rilevato dalla Cgia, partendo dal dato medio nazionale di 8.824 euro per abitante di cui abbiamo scritto sopra, 7.124 euro finiscono allo Stato (l’80,7% del totale), 902 euro alle Regioni (10,2%), 798 euro agli enti locali (9%).

Secondo il presidente della Cgia Giuseppe Bortolussi, “questi dati dimostrano come ci sia una corrispondenza tendenzialmente lineare tra il gettito fiscale, il livello di reddito e, in linea di massima, anche la qualità/quantità dei servizi offerti in un determinato territorio. Dove il reddito è più alto, il gettito fiscale versato dai contribuenti è maggiore e, in linea di massima, gli standard dei servizi erogati sono più elevati. Essendo basato sul criterio della progressività, è ovvio che il nostro sistema tributario pesa di più nelle regioni dove la concentrazione della ricchezza è maggiore”.

Le banche popolari non conoscono il credit crunch

Spesso quando si parla di credit crunch si rischia di scivolare nei luoghi comuni delle banche avare che chiudono i rubinetti del credito a prescindere. Invece, secondo quanto ha rilevato l’Ufficio Studi della Cgia, in questi ultimi anni nei quali il credit crunch ha strozzato le imprese, le banche popolari sono state le uniche ad aver aumentato i prestiti.

Se si considera il periodo che ha interessato la fase più dura del credit crunch (2011-2013), le banche popolari hanno aumentato i prestiti alla clientela del 15,4% a differenza di quanto hanno fatto gli istituti bancari strutturati come Spa, che li hanno diminuiti del 4,9%. Nemmeno le banche di credito cooperativo sono rimaste immuni dalla tirchieria: -2,2% di prestiti nel periodo considerato e benvenuto credit crunch.

La Cgia ha dato un’occhiata anche alle banche estere che operano in Italia e l’andazzo è risultato il medesimo, in linea con il mercato e in controtendenza rispetto alle banche popolari: -3,1% di prestiti.

L’Ufficio studi della Cgia ha anche precisato che i dati per tipologia di banca utilizzati nella ricerca si riferiscono agli istituti residenti in Italia e alla Cassa depositi e prestiti Spa e non tengono conto di quanto fatto dalle filiali estere delle banche italiane, spesso in realtà economiche nelle quali il credit crunch è stato ed è meno marcato che nel nostro Paese.

A differenza degli altri istituti bancari – ha commentato il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi -, in questi anni di grave crisi le Banche popolari sono state le uniche ad incrementare gli impieghi alle famiglie e alle imprese. A conferma che queste ultime hanno continuato a fare il proprio lavoro, nonostante le condizioni proibitive”.

Cementificazione, Italia sotto assedio

Quando si parla di cementificazione del territorio in Italia, spesso non si un’idea precisa della portata del fenomeno che ha trasformato il nostro Paese in una colata di cemento. A far prendere maggiore coscienza dello scandaloso stato dell’arte ci ha pensato l’Ufficio studi della Cgia, che ha elaborato i dati in materia di cementificazione e sfruttamento del suolo diffusi dll’Ispra, l’Istituto superiore per la Ricerca Ambientale.

Secondo l’analisi della Cgia, nel 2012, ultimo anno per il quale sono disponibili i dati, l’estensione del suolo interessato dalla cementificazione o dall’asfalto è stata pari al 7,3% dell’intera superficie nazionale. Le regioni meno virtuose in tal senso (e più popolate) sono Lombardia e Veneto (entrambe col 10,6%), Campania (9,2%), Lazio (8,8%), Emilia Romagna (8,6%), Puglia e Sicilia (a pari merito con l’8,5%).

Se si parla di aumento percentuale della cementificazione, i dati della Cgia fanno ancora più riflettere. A fronte di una media nazionale del +1,9%, gli aumenti a livello regionale registrati tra il 1989 e il 2012 sono impressionanti: il Veneto ha fatto registrare un incremento doppio, +3,8%, il Lazio +2,9%, la Sicilia +2,6%, le Marche +2,5%, la Lombardia +2,4%.

Considerando che la cementificazione è strettamente legata al dissesto idrogeologico che tanti danni ha creato anche con le recenti alluvioni, la Cgia fa notare che nelle regioni più piccole come Basilicata, Calabria, Umbria, Valle d’Aosta e Molise il 100% dei comuni è a rischio. In riferimento a questa criticità, il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi ha commentato: “Le realtà maggiormente interessate dalla cementificazione sono anche quelle che in questi ultimi anni hanno subìto i danni ambientali più pesanti a seguito di allagamenti, esondazioni, frane e smottamenti, che hanno martoriato i residenti di questi territori. In altre parole, dove si è costruito di più, i dissesti idrogeologici sono stati maggiori”.

Aprire partita Iva, c’è ancora chi ci crede

Abbiamo visto nei giorni scorsi come, secondo la Cgia, il popolo delle partite Iva sia ormai il popolo dei nuovi poveri. Eppure c’è ancora chi ci crede e, in questo scorcio di 2014 si sta chiedendo se aprire partita Iva o no. Sempre che se ne voglia assumere i rischi, aprire partita Iva è una decisione da prendere entro il 31 dicembre.

Il Ddl di Stabilità cambierà un po’ di regole anche per i lavoratori autonomi che possono accedere alla posizione con il regime dei minimi. Aprire partita Iva dopo il 1 gennaio 2015 comporterebbe pagare un’imposta sostitutiva del 15% e non del 5% come ora. Inoltre, il monte dei ricavi non sarà più fissato a 30.000 euro, ma varieranno in base al tipo di attività svolta e la cifra sarà calcolata con un coefficiente di redditività variabile. Non sarà più uguale per tutti

Chi è scoraggiato dall’aprire partita Iva in regime dei minimi a fine anno perché dovrebbe sostenere fiscalmente i costi dell’operazione per poche settimane e pagare le imposte relative già nel 2015, può stare tranquillo se non percepisce alcun compenso, il timore è infondato. Deve anche tenere conto che, aprire partita Iva entrando adesso nel regime dei minimi, significa avere applicate le vecchie regole fino al termine del quinquennio concesso o fino al compimento del 35esimo anno di età se under 35.

Anche a fine 2014, il profilo del lavoratore che sceglie di aprire partita Iva in regime agevolato è quello di un autonomo che non ha un grande giro d’affari o investimenti cospicui da fare. Diverso il discorso per chi vuole aprire una start-up: il Ddl di Stabilità prevede per le start-up che il reddito imponibile considerato sia pari a un terzo del totale. Una spintarella per il neo imprenditore che vuole aprire partita Iva.

Nuove partite Iva o nuova povertà?

All’inizio della crisi, l’apertura di nuove partite Iva sembrava la via più facile per reinventarsi se espulsi dal mercato del lavoro. Purtroppo, la tendenza si è fermata ben presto e i numeri relativi alle aperture di nuove partite Iva hanno cominciato, mese dopo mese, un inesorabile calo.

Anche a settembre 2014 la tendenza si è confermata, dopo il calo già sensibile di agosto anno su anno (-4%): la flessione a settembre nel numero di nuove partite Iva è stata dello 0,2%, per un totale di 41.190 nuove partite Iva.

La distribuzione per natura giuridica mostra che le persone fisiche hanno avviato il 74,2% delle nuove partite Iva, il 20% lo hanno fatto società di capitali, il 5% società di persone, in fondo alla classifica i “non residenti” e “altre forme giuridiche” (1%).

Rispetto al mese di settembre 2013, si registra un aumento di nuove partite Iva per le sole società di capitali (+16%), mentre le altre forme giuridiche mostrano un calo, più marcato per le persone fisiche (-3,3%) e più contenuto per le società di persone (-0,9%).

Riguardo alla ripartizione territoriale, il 42,2% delle nuove partite Iva si è registrato al Nord, il 22,7% al Centro e il 35% al Sud e Isole. Crescono la Basilicata (+9,9%), l’Abruzzo (+6,4%) e la Liguria (+4,9%), calano la provincia di Trento (-11,4%), la Sicilia (-6,9%) e la Valle d’Aosta (-6,4%).

Il commercio continua a registrare il maggior numero di nuove partite Iva (26,1%), seguito dalle attività professionali (12,3%) e dall’edilizia (9,4%). Relativamente alle persone fisiche, la ripartizione è relativamente stabile, con il 63,7% di aperture di nuove partite Iva da parte del genere maschile. Il 48,6% viene avviato da giovani fino a 35 anni e il 34,4% da persone comprese nella fascia dai 36 ai 50 anni. Rispetto settembre 2013, tutte le classi di età registrano cali, ad eccezione di quella più anziana (over 65).

Da notare infine che a settembre 11.142 persone fisiche, pari al 27,1% del totale delle nuove partite Iva, hanno aderito al regime fiscale di vantaggio per l’imprenditoria giovanile e lavoratori in mobilità; un regime che limita per cinque anni l’imposta dovuta al 5% degli utili dichiarati, esonerando i contribuenti interessati dal pagamento di Iva ed Irap.

Nonostante questo, però, la sensazione che dietro al calo di nuove partite Iva ci sia il timore sempre più forte di andare incontro a un futuro di povertà è forte. In questo senso, la ricerca della Cgia di cui abbiamo parlato lunedì ha confermato il segnale.