Nate per costruire, destinate a crollare? Dentro la crisi delle imprese edili

di Davide PASSONI

L’Ance è l’Associazione nazionale costruttori edili e il suo presidente, l’ingegner Paolo Buzzetti, non è certo uno che le manda a dire. Sarà che quando si ha a che fare con putrelle, calcestruzzo, casseformi e mattoni, tempo per filosofeggiare non c’è; sarà che è sempre meglio dire pane al pane e vino al vino (anche se in Italia, spesso, questa onestà non paga), fatto sta che all’ultima assemblea Ance Buzzetti è stato chiaro: o si cambia rotta, o il settore delle imprese edili muore.

La crisi ha infatti reso un settore che era anticiclico per eccellenza, quello delle costruzioni, un settore prociclico al pari degli altri: crollo degli investimenti, cantieri fermi, aziende chiuse ed emorragia di posti di lavoro: 550mila in 6 anni. Una strage frutto tanto di crisi del mercato, quanto di una politica miope in materia di opere pubbliche quanto, ancora, di una drammatica assenza di liquidità che induce pubblico e privato a rinviare gli investimenti. A quando? Non si sa… Ma intanto se colossi come Ilva, Alcoa, Alitalia vacillano, dal palazzo arrivano subito leggi, interventi, liquidità. Senza nulla togliere al dramma della disoccupazione, che non ha razza, né colore, né diverso valore se l’impresa che chiude è piccola o grande, ci chiediamo: perché?

Intanto le imprese edili chiudono a centinaia. E, come ben sanno i lettori di Infoiva, si tratta per lo più di imprese piccole, familiari, artigiane, spesso tramandate di padre in figlio, sopravvissute alle peggiori crisi e messe in ginocchio da quella attuale. O ancora, si tratta di imprese messe in piedi da stranieri con esperienza, buona volontà e capitali, che in un batter d’occhio si sono viste mangiare il sogno di una vita nuova e di un riscatto sociale in un Paese che, tra tanti difetti, fa dell’accoglienza uno dei maggiori pregi.

Proprio per questi motivi Infoiva vuole dedicare alla filiera dell’edilizia in Italia il proprio focus settimanale. Perché un settore così non può e non deve morire; perché chi ha in mano le leve giuste per farlo ripartire (vero governo? vero banche?) le metta finalmente in moto; purtroppo, se la ripresa ci sarà, non potrà riparare i danni fatti dalla crisi alla stessa velocità con cui quest’ultima li ha causati: meglio però una terapia di lunga durata che alla fine rimette in piedi il paziente, piuttosto che un accanimento terapeutico che porta solo a staccare la spina al malato. E, con esso, al Paese.