Comprare casa sì, ma con quanto?

Se la casa resta per gli italiani l’investimento più tradizionale e comprare casa il loro primo obiettivo nella vita, i soldi che servono per comprare casa da qualche parte vanno pur trovati. Se non sono i risparmi, sono quelli del proprio sudato stipendio.

Ebbene, nei primi mesi del 2014 si sono registrati prezzi ancora in discesa e compravendite in lieve aumento in tutte le realtà territoriali, in particolare sul segmento residenziale. Continua dunque la ripresa della domanda immobiliare, incentivata da prezzi più accessibili. L’Ufficio Studi del Gruppo Tecnocasa ha analizzato quanti anni di stipendio occorrono per comprare casa.

A livello nazionale Tecnocasa rileva che sono necessarie 5,8 annualità per comprare casa, in leggera diminuzione con quanto rilevato nel 2013 (6 annualità). Anche a livello locale non ci sono state variazioni di rilievo: con un calo pari a -0,6 annualità, fa eccezione Napoli (dove ne servono 6,7), seguita da Genova e Roma (entrambe in calo di 0,3 annualità), mentre si mantiene costante Bologna (5,7 annualità). La Capitale è sempre la città in cui serve il maggior numero di annualità per comprare casa: 9,5; stacca Milano ferma a 7,9 annualità (in calo di 0,2 rispetto al 2013). A Palermo e Verona ne servono meno: 3,6 nel capoluogo siciliano e 3,9 nella città veneta.

L’analisi si è basata sui prezzi al metro quadro di un immobile medio usato, raccolti dalle agenzie Tecnocasa e Tecnorete delle grandi città e riferiti a giugno 2014, e sulle retribuzioni contrattuali annue di cassa per dipendente a tempo pieno per attività economica e contratto (al netto dei dirigenti), ricavate dalla banca dati Istat. Si è inoltre ipotizzato che il reddito fosse destinato interamente per comprare casa, supposta di 65 mq. In questa analisi il valore finale della retribuzione è stato ottenuto da una stima.

Effettuando un confronto a distanza di dieci anni, Tecnocasa evince che a livello nazionale la differenza è stata più consistente: si è passati da 7,8 annualità per comprare casa nel 2004 a 5,8 nella prima parte del 2014. In questo lasso temporale è Milano la città in cui si è avuta la variazione più consistente: dalle 11,1 annualità del 2004, infatti, si è passati alle 7,9 di quest’anno. Altri due capoluoghi fanno segnare variazioni interessanti: -3,1 a Firenze (7,2 annualità) e -3 a Bologna (5,7 annualità). Bari, Genova, Torino e Verona hanno evidenziato un andamento in linea con il dato nazionale: nel capoluogo pugliese servono 2,1 annualità in meno per comprare casa, mentre le altre tre città segnano -1,9.

Patto per valorizzare l’ oreficeria made in Italy

La tradizione e l’artigianalità dell’ oreficeria made in Italy sono state rafforzate da una partnership strategica stretta siglata tra Arezzo Fiere e Congressi e Fiera di Vicenza. Le due realtà leader fanno così squadra per sostenere il settore dell’ oreficeria made in Italy che conta, ad oggi, 9mila imprese, 32mila addetti e un export pari a 6 miliardi di euro all’anno. Per livelli di fatturato l’ oreficeria made in Italy risulta infatti la quarta voce del comparto moda e accessori.

A siglare questo accordo chiave per l’ oreficeria made in Italy sono stati Fiera di Vicenza Spa e Arezzo Fiere e Congressi Srl, che organizzano rispettivamente Vicenzaoro e Oroarezzo, gli appuntamenti più importanti per gli operatori di settore e i buyer che puntano sull’eccellenza dell’ oreficeria made in Italy. L’annuncio è stato dato in occasione della giornata inaugurale di Vicenzaoro January.

L’intesa vuole potenziare in primo luogo il sistema fieristico italiano del settore orafo e argentiero e rientra nel piano straordinario di sviluppo per il Made in Italy predisposto dal ministero dello Sviluppo Economico. L’intesa e l’attività delle due società fieristiche riceveranno il supporto istituzionale ed economico ed del Mise e di Confindustria Federorafi.

Anche nel 2015 UniCredit Start Lab

Sarà presentata venerdì 30 gennaio all’UniCredit Tower Hall di Milano l’edizione 2015 di UniCredit Start Lab, il programma di sostegno delle startup innovative sviluppato da UniCredit e giunto quest’anno alla sua seconda edizione.

Registro delle imprese alla mano e grazie alle segnalazioni provenienti dalla rete delle agenzie UniCredit in tutta Italia, il team Country Development Plans di UniCredit ha contattato oltre 600 aziende costituite da meno di 4 anni. Le prime 150 startup a rispondere avranno l’opportunità di conoscere in anteprima le linee guida di questa seconda edizione.

Tra le principali novità del 2015, una attenzione particolare alle agevolazioni messe a disposizione da UniCredit grazie al Fondo Centrale di Garanzia per le Startup innovative, tema che verrà affrontato nel corso dell’incontro anche con Mattia Corbetta, membro della segreteria tecnica del Ministero per lo Sviluppo Economico.

Non mancheranno poi le opportunità a supporto delle startup già presenti nell’edizione 2014: grant in denaro, co-investimenti in equity, sessioni di training manageriale e di mentorship, eventi “verticali” per la ricerca di controparti corporate e di potenziali investitori.

A testimoniare la bontà delle iniziative messe in campo nella prima edizione – che ha visto quasi 800 aziende partecipanti, 43 aziende selezionate e direttamente supportate, 4 aziende riconosciute meritevoli di grant in denaro e la prima azienda co-finanziata per un importo complessivo di 590mila euro – interverranno alcuni tra i principali protagonisti di UniCredit Start Lab 2014: Luigi Capello, Ad di LVenture Group, partner di UniCredit Start Lab nel co-finanziamento in equity; Roberto Macina, CEO di Qurami, prima azienda a beneficiare del co-finanziamento in equity; Danilo Mazzara di Accenture Strategy, mentor dell’iniziativa.

Anche quest’anno, UniCredit Start Lab si rivolgerà a realtà ad alto contenuto tecnologico e innovativo operanti nei 4 settori del Life Science, del Clean Tech, del Digital e dell’Innovative Made in Italy. Le migliori imprese di ciascuna categoria saranno selezionate secondo un modello di scoring elaborato da UniCredit che valuterà le caratteristiche dei progetti imprenditoriali, il mercato di riferimento, le competenze del team proponente e la qualità delle informazioni descrittive e finanziarie a corredo dei business plan. A valutare le startup saranno delle vere e proprie commissioni esaminatrici composte da imprenditori, investitori professionali, manager e tecnici.

Le startup che desiderano partecipare all’edizione 2015 di UniCredit Start Lab potranno iscriversi sino al 30 aprile sul sito www.unicreditstartlab.eu.

Il Notariato rilancia il rent to buy

Il Notariato rilancia l’attenzione sul tema del rent to buy – il contratto che fa da ponte tra locazione e compravendita – in un incontro con l’Agenzia delle Entrate, Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, banche, costruttori e mondo accademico per mettere a punto soluzioni giuridiche e fiscali per la concreta applicazione e diffusione di questo nuovo strumento destinato a incoraggiare le contrattazioni immobiliari e la ripresa del mercato.

Il Consiglio Nazionale del Notariato ha presentato nei giorni scorsi a Milano, in occasione del convegno: “La disciplina del rent to buy: tutele sostanziali e questioni tributarie”, organizzato dalla Fondazione Italiana del Notariato in collaborazione con il Consiglio Notarile di Milano, uno schema contrattuale idoneo per il rent to buy, per agevolare operativamente l’applicazione dell’istituto, e un decalogo informativo per i cittadini per orientarli ed informarli su questa modalità di acquisto.

Per consentire ai cittadini di comprare casa, in un momento di difficoltà di accesso al credito, e ai costruttori di smaltire l’invenduto, il Notariato ha proposto di introdurre in Italia il rent to buy. Si tratta di un’operazione unitaria attraverso la quale viene assicurato a chi ha intenzione di acquistare un immobile, la possibilità di conseguire da subito il godimento dell’immobile individuato, con pagamento di un canone periodico e di rinviare ad un momento successivo l’acquisto vero e proprio dell’immobile e il pagamento del relativo prezzo, dal quale vengono scomputati, in tutto o in parte, i canoni pagati in precedenza. Il legislatore ha introdotto il rent to buy con il decreto Sblocca Italia.

Il decreto Sblocca Italia ha risolto alcune criticità che derivavano dalla mancanza di una specifica normativa in materia. In particolare, ha previsto la possibilità di trascrivere il contratto nei Registri Immobiliari per il periodo di durata del rent to buy, ma comunque non superiore a 10 anni.  La trascrizione vale come una vera e propria prenotazione dell’acquisto dell’immobile. Di conseguenza, non potrà vendere l’immobile a qualcun altro, né concedere un’ipoteca sull’immobile, né costituire una servitù passiva o qualsiasi altro diritto pregiudizievole. Gli eventuali creditori del venditore non potranno iscrivere un’ipoteca sull’immobile promesso in vendita, né pignorarlo. Dal momento della trascrizione del rent to buy, l’immobile è “riservato” al futuro acquirente, e qualsiasi trascrizione o iscrizione non avrebbe effetto nei suoi confronti.

Per informare e orientare i cittadini sul tema il Notariato ha pubblicato sul proprio sito un vademecum che spiega, con un linguaggio semplice e chiaro, tutto quello che c’è da sapere sul rent to buy: vantaggi e svantaggi sia per il venditore, sia per l’acquirente e quali sono le tutele previste dalla legge.

Ecco il cappio dello split payment

Quando era uscita la novità dello split payment, noi di Infoiva lo avevamo scritto: occhio alla fregatura. E in effetti di fregatura, almeno per le imprese si tratta. Lo ha certificato anche l’Ufficio studi della Cgia, secondo il quale moltissime piccole imprese che lavorano prevalentemente con lo Stato e le Autonomie locali non potranno disporre almeno di 1,5 miliardi di euro di liquidità fino alla metà di maggio. La cifra è stata ricavata considerando che nell’ultimo anno le transazioni commerciali delle imprese con la Pa ammontavano a circa 67 miliardi di euro, con un’aliquota Iva media pari al 16% circa.

Come abbiamo ricordato nei giorni del battesimo dello split payment, con questo nuovo meccanismo i fornitori della Pa che dall’1 gennaio hanno emesso regolare fattura con addebito di Iva, incasseranno solo l’imponibile. Lo split payment si applicherà non solo alle fatture emesse dal 1 gennaio 2015 ma anche alle fatture che risultano sospese al 31 dicembre 2014.

Sarà la Pubblica Amministrazione a versare l’Iva all’Erario anziché al fornitore, il quale si troverà sempre a credito di Iva: a fronte dell’Iva non incassata addebitata sulle proprie fatture emesse, il fornitore dovrà regolarmente pagare l’Iva ai propri fornitori. A parziale compensazione, il meccanismo dello split payment consente al fornitore della pubblica amministrazione di chiedere il rimborso Iva trimestrale.

In questo modo, le imprese che lavorano prevalentemente con la Pubblica amministrazione non incasseranno più l’Iva e quindi avranno una minore disponibilità di liquidità. Anche se l’Iva incassata dalle imprese ritornava comunque allo Stato, in questo modo lo split payment rischia di minare pesantemente la tenuta finanziaria di molte piccole imprese.

Se, infatti, il gap temporale tra incasso dell’Iva e giro di quest’ultima allo Stato consentiva alle imprese di avere della liquidità pronta per i pagamenti immediati, con lo split payment, come detto, le aziende si troveranno a credito di Iva e avranno l’acqua alla gola almeno fino al prossimo 16 maggio, quando il calendario fiscale consentirà alle aziende fornitrici della Pa di compensare i crediti Iva maturati con eventuali debiti fiscali verso l’Erario o con gli enti previdenziali/assicurativi. Per queste imprese si tratterà dunque di quasi 5 mesi durissimi

Pur sapendo che la novità fiscale introdotta con legge di Stabilità ha come obiettivo quello di contrastare l’evasione dell’Iva – sottolinea il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi – in questi primi 5 mesi dell’anno non saranno poche le aziende che dovranno fare i salti mortali per avere a disposizione un po’ di liquidità. Se a ciò aggiungiamo che chi lavora con la Pubblica Amministrazione sconta dei ritardi di pagamento non riscontrabili in nessun altro Paese europeo, il risultato è drammatico. Lavorare per lo Stato non sempre è conveniente”.

Expo2015, in rete cresce l’ottimismo

Forse il 2015 non sarà l’anno della tanto agognata ripresa, ma sarà di sicuro l’anno dell’Expo. Un Expo2015 che, in rete, è stata degnamente preparata nel 2014: da gennaio a dicembre 2014 il numero complessivo di post che hanno parlato di Expo2015 scritti in italiano sono stati quasi un milione, con un picco a maggio (oltre 192mila) e a luglio (quasi 102mila). Il 13 maggio 2014, con oltre 25mila menzioni, è stato il singolo giorno durante l’anno in cui si è più discusso di Expo2015.

Il dato emerge da un’analisi della Camera di commercio di Milano attraverso VOICES from the Blogs, spin off dell’Università degli Studi di Milano, realizzata su circa un milione di commenti in Rete nel 2014, circa 90mila solo a dicembre.

Se si considera l’andamento del sentiment su Expo2015, il punto più basso si è avuto a maggio (sentiment positivo: 60,2%). Da luglio in poi, invece, il sentiment ha mostrato una decisa crescita che ha toccato a novembre il punto più elevato (79,4% in Italia e 78,6% a Milano), dato che prosegue a dicembre (75,1% in Italia, 76,7% A Milano). Se si considera l’intero 2014 nel suo complesso, il valore medio del sentiment è stato pari al 68,8%.

A dicembre, le ragioni di un sentiment positivo verso Expo2015 sono stati gli eventi, ma anche orgoglio nazionale. Gli eventi collegati a Expo2015 hanno suscitato l’interesse di quasi un milanese su due e di un italiano su tre, mentre uno su dieci si è sentito coinvolto per un motivo di orgoglio nazionale.

Di Expo2015 parlano di più gli uomini rispetto alle donne, un gap che è cresciuto nell’ultimo mese (totale commenti da utenti uomini: 64,2% rispetto al 57,1% di novembre), anche se le donne sono più positive.

Tra le cinque principali città che hanno discusso di Expo2015, a dicembre 2014 al primo posto sempre Milano, con un peso però in discesa rispetto a novembre (57,5%: -11,7% rispetto al mese di novembre), segno che l’interesse per Expo2015 è sempre più nazionale. Al secondo posto Roma (15,4%, circa un commento su sette), poi Torino (3,6%) e Firenze (3,2%).

Un italiano su 5 non usa lo smartphone

Alla faccia della tecnologia e dell’amore per gli smartphone, sembra che gli italiani tanto tecnologici non siano. Almeno a guardare i risultati di un’indagine condotta da Demoskopea per Facile.it, nella sua veste di comparatore nel settore delle tariffe telefoniche. Da questa indagine risulta che oltre un italiano su 5 (il 20,5%) usa ancora un telefono tradizionale e non uno di nuova generazione.

Di questa percentuale, la maggior parte è costituita da donne, che sono il 24,2 contro il 16,3 degli uomini. Il campione intervistato da Demoskopea è rappresentativo degli italiani che hanno già compiuto i 15 anni (pari a circa 40,5 milioni di persone) e ha risposto a diversi quesiti che hanno messo in luce il suo rapporto con il terminale mobile, smartphone o no.

Nonostante l’opinione diffusa e lo stereotipo che dipinge l’italiano medio come un cellulare-dipendente o drogato di smartphone il 66% del campione ha dichiarato di possedere un unico numero di cellulare, per il quale spende in media molto poco. Il 67% del campione non supera la soglia dei 15 euro mensili e un italiano su 3 (33,2%) riesce a spendere una cifra compresa fra i 9 e i 10 euro, che si riducono a meno di 8 euro per il 16,6% degli intervistati .

L’indagine condotta da Demoskopea rivela anche che l’89% degli utenti preferisce ancora la scheda ricaricabile al contratto, riuscendo a limitare eventuali extra budget che potrebbero verificarsi con un abbonamento. Una tendenza al risparmio che si riflette anche nell’acquisto del terminale: secondo i dati di mercato, nell’ultimo anno le vendite di smartphone di prezzo compreso tra 85 e 130 euro sono cresciute del 65%.

Secondo Paolo Rohr, Direttore BU Utilities e Telefonia di Facile.it, «sono molti i fattori che hanno contribuito a ridurre le spese di telefonia cellulare degli italiani. Da un lato la forte concorrenza e la riduzione delle tariffe offerte sul mercato che, è bene ricordarlo, in un tempo relativamente breve si sono ridotte di quasi il 20%, ragion per cui diventa ancora più importante confrontare le proposte delle compagnie; dall’altro la diffusione sempre più massiccia di strumenti di messaggistica gratuita. Dall’indagine è emerso, ad esempio, che quasi il 58% degli intervistati usa abitualmente Whatsapp, con evidenti vantaggi sulle spese».

Imu terreni montani, si slitta al 10 febbraio

Come al solito, il nostro fisco fa le cose per bene. A poche ore di distanza dalla scadenza per il pagamento dell’ Imu terreni montani, quando ancora nessuno sapeva che cosa fare, se pagare o no, ecco un comunicato stampa del governo emesso venerdì 23 gennaio alle 16. Così, giusto per tenere alta la suspance

In sostanza, ora c’è tempo fino al 10 febbraio per capire chi dovrà pagare l’ Imu terreni montani e chi no. Meglio di nulla, ma siamo sicuri che non ci sarà ancora qualche colpo di scena? Intanto, ecco il testo integrale del comunicato del governo sull’ Imu terreni montani.

Comunicato Stampa del Consiglio dei Ministri n.46 del 23/01/2015 terminato alle ore 16,00

Il Consiglio dei Ministri si è riunito oggi venerdì 23 gennaio alle ore 15.40 a Palazzo Chigi, sotto la presidenza del Ministro dell’Economia e delle Finanze, Pietro Carlo Padoan. Segretario il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Graziano Delrio.

IMU TERRENI MONTANI

Misure urgenti in materia di esenzione IMU (decreto legge) 

Il Consiglio ha approvato su proposta del Presidente, Matteo Renzi, e dei Ministri dell’Economia e delle Finanze, Pietro Carlo Padoan, e delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, Maurizio Martina, il decreto legge contenente misure urgenti in materia di esenzione IMU che va a ridefinire i parametri precedentemente fissati, ampliandone la platea. 

Il testo prevede che a decorrere dall’anno in corso, 2015, l’esenzione dall’imposta municipale propria (IMU) si applica: 

ai terreni agricoli, nonché a quelli non coltivati, ubicati nei Comuni classificati come totalmente montani, come riportato dall’elenco dei Comuni italiani predisposto dall’Istat;

ai terreni agricoli, nonché a quelli non coltivati, posseduti e condotti dai coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali, di cui all’articolo 1 del decreto legislativo del 29 marzo 2004 n. 99, iscritti nella previdenza agricola, ubicati nei Comuni classificati come parzialmente montani, come riportato dall’elenco dei Comuni italiani predisposto dall’Istat.

Tali criteri si applicano anche all’anno di imposta 2014. Per l’anno 2014 non è comunque dovuta l’Imu per quei terreni che erano esenti in virtù del decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze, di concerto con i Ministri delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, e dell’Interno, del 28 novembre 2014 e che invece risultano imponibili per effetto dell’applicazione dei criteri sopra elencati. I contribuenti, che non rientrano nei parametri per l’esenzione, verseranno l’imposta entro il 10 febbraio 2015.

Brand del lusso, +8% nelle performance digitali

Migliorano tra i top player del lusso le performance legate all’esperienza digitale che il consumatore fa del brand: lo dicono i risultati dello studio “The Race is On” (disponibile in download gratuito a questo sito) realizzato da ContactLab ed Exane BNP Paribas, che ha registrato una crescita complessiva dell’8% tra ottobre 2014 e gennaio 2015 delle performance digitali dei 28 brand del lusso mappati dalla Digital Competitive Map, un tool proprietario messo a punto dalle due società.

La ricerca, presentata da Luca Solca, Managing Director Sector Head Global Luxury Goods di Exane BNP Paribas nei giorni scorsi a Milano al convegno di AltagammaConsumer and Retail Insight 2015” conferma la collaborazione tra Exane BNP Paribas, leader in Equity research e ContactLab, leader in Italia nel digital direct marketing e unica italiana inclusa da Gartner nell’edizione della Market Guide for Email Marketing rilasciata a giugno 2014.

I brand del lusso si stanno muovendo velocemente per esprimere appieno il proprio potenziale nell’offrire un’esperienza digitale soddisfacente al consumatore: complessivamente il panel ha registrato una crescita dell’8% nelle performance solo nell’ultimo trimestre 2014. Quasi tutti i 28 brand analizzati hanno migliorato rispetto alla precedente rilevazione il proprio posizionamento all’interno della mappa competitiva. In particolare i brand del lusso europei hanno fatto i progressi maggiori in termini di digital engagement.

Il report evidenzia che i maggiori progressi nelle performance digitali sono stati realizzati da brand del lusso come Gucci, Cartier, Bulgari, Saint Laurent, Brunello Cucinelli, Michael Kors, seguiti da Ralph Lauren, Tory Burch, Tiffany e Zegna. Tra tutti i 28 brand mappati i passi avanti più significativi si sono avuti sull’asse della digital customer experience, che prende in considerazione parametri legati a tre macroaree di osservazione: l’esperienza di acquisto online, di navigazione sul web e la cross-canalità del brand. I brand del lusso insomma sembrano intenti a raggiungere l’eccellenza in primo luogo sui servizi correlati all’e-commerce, per poi espandersi ulteriormente e ancor più nel dettaglio nel mondo digitale.

Più lenta è invece la progressione sull’asse dell’e-commerce strategic reach, che più rappresenta le scelte strategiche dell’alta direzione. Globalmente i risultati sono cresciuti in quest’ambito del 4%: un dato che ci racconta di una certa cautela ancora presente nelle decisioni del top management e, nello stesso tempo, di una complessità di attuazione di tutti gli aspetti legati ad un’espansione su scala globale.

Si vedono segnali di crescita (+7% rispetto alle precedenti rilevazioni) anche nelle performance di questi brand in termini di esperienza cross canale di acquisto. In particolare i brand del lusso sono sempre più attenti a garantire al consumatore un’esperienza di acquisto fluida. C’è chi ad esempio dà la possibilità di acquistare online e ritirare in negozio, magari localizzando il punto vendita più vicino alla propria residenza; oppure al contrario consente al consumatore di visualizzare online la reale disponibilità dei prodotti in negozio. Alcuni brand cominciano anche a realizzare app per mobile.

Altro fattore di crescita delle performance dei brand del lusso è il miglioramento dell’usabilità dei canali online. Un merchant su quattro ha rinnovato il proprio sito, altri hanno introdotto una versione mobile, così che ad oggi la quasi totalità dei marchi mappati dalla Digital Competitive Map (26 su 28) offre agli utenti un’esperienza di navigazione ottimale sia da smartphone che da tablet.

Questo ultimo punto è molto importante se si prende in considerazione il risultato di un’altra rilevazione firmata ContactLab, che analizza periodicamente i dati di spedito provenienti dalla sua piattaforma. Su un benchmark di oltre 1 miliardo e mezzo di email inviate il 38% delle aperture avviene su mobile, usanza in costante crescita destinata a radicarsi sempre di più e a sostituire le modalità di fruizione tradizionale dell’email.

La Digital Competitive Map è un tool proprietario messo a punto da ContactLab che misura attraverso 66 diversi parametri quantitativi le capacità di engagement di un brand con il proprio pubblico, mettendole a confronto con quelle degli altri player del suo settore. ContactLab ha applicato con Exane BNP Paribas questa metodologia per analizzare un set di brand del lusso selezionato dalla firma di Equity research.

La rilevazione, valida su qualsiasi settore di mercato, è in grado di indicare per un brand la qualità dell’esperienza di navigazione su ogni device, il livello del servizio di e-commerce e il numero dei Paesi serviti. La mappa prende in considerazione parametri come la varietà dell’offerta, la logistica e le condizioni di vendita, la copertura linguistica e l’integrazione cross canale tra il negozio fisico e l’online store.

Xti, scarpe in franchising dalla Spagna

L’offerta italiana di negozi di calzature e accessori è piuttosto ampia, ma questo non impedisce ad alcuni marchi stranieri di aprire dei punti vendita in franchising nel nostro Paese. Uno di questi marchi è lo spagnolo Xti che, come comunica l’azienda conta già su “oltre 4mila corner in negozi multimarca, 18 monomarca diretti fra Spagna e Portogallo, oltre 600 modelli a stagione e un’azienda fra i maggiori esportatori del mondo con più del 60 per cento dell’intera produzione”.

La casa madre di Xti offre al potenziale franchisee “un brand riconosciuto a livello internazionale, formazione iniziale e assistenza per tutta la durata del rapporto commerciale, un adeguato mix di prodotto garantito da un’ampia gamma e adattato alle diverse tipologie di clientela. Collezioni costantemente rinnovate”.

Dettagli

Superficie media del punto vendita: da 100 a 250 mq

Bacino d’utenza: almeno 50mila abitanti

Investimento iniziale: da 50mila a 100mila euro

Fatturato medio annuo: da 400mila a 1 milione di euro

Fee d’ingresso: 9mila dollari

Royalties: nessuna

Durata del contratto: 5 anni

Per maggiori informazioni http://www.xti.es/