Un premio al crowdfunding di Poste

Chi pensa a Poste come a un’azienda vecchia e un po’ elefantiaca, dovrà ricredersi di fronte a un riconoscimento che l’azienda ha appena ricevuto per un progetto legato a un fenomeno che più moderno non si può: il crowdfunding.

L’Associazione Italiana Financial Innovation (Aifin) ha infatti premiato PostepayCrowd, il progetto di Poste che supporta l’imprenditoria e la creatività attraverso il finanziamento raccolto con il concorso di diverse idee innovative. A Poste è andato il premio “Cerchio d’oro dell’Innovazione finanziaria 2014”.

Di fatto, PostepayCrowd è un modello di finanziamento collettivo attraverso il quale molte persone contribuiscono con differenti somme di denaro a un progetto di cui si fanno sostenitori in quanto lo sentono vicino ai propri principi e aspirazioni. In cambio queste persone ottengono il cosiddetto reward.

PostepayCrowd è stato realizzato da Poste in partnership con Eppela, la principale  piattaforma italiana di crowdfunding, ed è stato sostenuto da Visa Europe. Di fatto, la piattaforma di crowdfunding di Poste si basa su un meccanismo di co-finanziamento di alcuni progetti che riescono a raggiungere almeno il 50% del budget stabilito in partenza, tramite il coinvolgimento della rete.

PostepayCrowd ha ottenuto il primo posto nella categoria “prodotti e servizi di credito”. Poste Italiane ha poi anche ottenuto due menzioni speciali nell’ambito del premio, una nella categoria “Operations e IT” per PosteID, sistema di identità digitale integrato, e una nella categoria “Prodotti e servizi di pagamento” per SuperSim Nfc, la Sim di PosteMobile che trasforma lo smartphone in un portafoglio mobile.

Split payment e reverse charge? Mazzate per le imprese

Che il meccanismo dello split payment potesse essere un danno per le aziende, se non una vera e propria sòla, lo avevamo già scritto e intuito in tempi non sospetti. Ora anche la Cna lo mette nero su bianco, cifre alla mano. E sono cifre che fanno rabbrividire.

In una nota della Confederazione nazionale dell’artigianato si legge che “nel 2015 le imprese soggette allo split payment e al reverse charge avranno un ammanco mensile di 2 miliardi di euro“. Mica bruscolini. Secondo gli artigiani, le imprese più penalizzate dal meccanismo dello split payment saranno quelle che lavorano con la Pubblica amministrazione. “Le imprese che lavorano per la Pa – si legge ancora nella nota -, circa 2 milioni in tutto, soffriranno di un ammanco di cassa mensile pari a 1,5 miliardi, a causa del mancato incasso dell’Iva. In media, ognuna di loro avrà bisogno di 9.300 euro al mese. Le 310mila imprese destinatarie del reverse charge sconteranno, nel complesso, un ammanco mensile di circa 340 milioni, in media 1.110 euro ognuna“. Non bastasse già la crisi…

Secondo l’Osservatorio Cna sulla tassazione delle piccole imprese, queste cifre sono il combinato disposto dell’applicazione dello split payment, unita a quella del reverse charge. Così come lo split payment penalizzerà soprattutto le imprese che lavorano con la Pa, il reverse charge danneggerà invece le imprese che operano nel settore “installazione impianti, con un deficit finanziario di 212 milioni al mese. Seguono le imprese edili che si occupano di completamento di edifici, con un ammanco mensile di 104 milioni”. Imprese in buona compagnia (si fa per dire…), insieme a quelle che effettuano pulizie di edifici per altre società: -28 milioni al mese.

Accordo commercialisti-Equitalia

Il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili ed Equitalia hanno firmato un protocollo d’intesa della durata di due anni con il quale viene avviata una serie di iniziative per fornire un’assistenza attenta e mirata alle esigenze dei contribuenti. Il protocollo d’intesa porta la firma del presidente del Cndcec, Gerardo Longobardi, e del presidente di Equitalia, Vincenzo Busa.

L’accordo prevede diversi passaggi e iniziative: dalla creazione di soluzioni informatiche per la condivisione delle informazioni, all’impegno a organizzare seminari, convegni e incontri di aggiornamento e formazione a livello nazionale e locale; dall’istituzione di tavoli tecnici nazionali e locali per affrontare tematiche di interesse comune, alla promozione di studi e ricerche che approfondiscano i temi del rapporto fisco-contribuente.

Inoltre, Equitalia mette a disposizione dei commercialisti, sul proprio sito, uno sportello telematico per interagire con le proprie sedi provinciali e richiedere informazioni e fissare appuntamenti con personale qualificato.

Entusiaste, come sempre, le dichiarazioni di rito dei presidenti. Il presidente del Cndcec, Gerardo Longobardi: “Questo protocollo di intesa è un nuovo frutto della scelta del nostro Consiglio nazionale di interloquire costantemente con le Istituzioni. L’importante collaborazione che si avvia oggi, è finalizzata alla creazione di un rapporto più fluido e diretto con un interlocutore per noi imprescindibile come Equitalia, puntando, tra l’altro, su servizi telematici più efficienti per la professione nonché sull’attivazione di tavoli tecnici congiunti nei quali confrontarsi”.

Il presidente di Equitalia, Vincenzo Busa: “La collaborazione con i Commercialisti si inserisce nel percorso di semplificazione intrapreso da Equitalia. L’accordo prevede una serie di attività basate sull’impegno reciproco a intercettare anche eventuali criticità che possano emergere nella gestione quotidiana del servizio di riscossione dei tributi, per favorire soluzioni legittime, trasparenti e corrette per evitare ogni possibile disagio per i cittadini e le imprese”.

Tfr in busta paga, come funziona e chi può averlo

Non tutti sanno come fare per richiedere il Tfr in busta paga. Ecco perché è necessario qualche chiarimento per non sbagliare e per sapere chi ne può fare richiesta e chi no. Intanto, il Tfr in busta paga può essere richiesto solo dai lavoratori dipendenti del settore privato, contrattualizzati da almeno sei mesi. La richiesta deve avvenire su un modulo rilasciato dall’azienda, il cosiddetto modulo Qu.I.R., ovvero modulo per la “Quota maturanda del Trattamento di fine rapporto come parte Integrativa della Retribuzione”. Una volta presentato questo modulo, per ottenere la quota di Tfr in busta paga è necessaria l’autorizzazione dell’Inps.

Vi sono però delle categorie di lavoratori che non possono ottenere il Tfr in busta paga. Nello specifico, si tratta di: dipendenti domestici e dell’agricoltura; dipendenti che operano in unità produttive in cassa integrazione straordinaria; lavoratori dipendenti che hanno utilizzato il Tfr a garanzia di un finanziamento bancario; dipendenti di aziende interessate da procedure concorsuali e fallimentari o da ristrutturazione del debito.

I lavoratori che hanno il via libera dall’Inps ottengono il Tfr in busta paga secondo la liquidazione mensile maturata dall’1 marzo 2015 al 30 giugno 2018. Nelle aziende con più di 50 dipendenti, il pagamento del Tfr in busta paga inizia dal mese successivo a quello della richiesta, in quelle con meno di 50 dipendenti tre mesi dopo.

Quello che finora pare aver frenato molti dipendenti dal chiedere il Tfr in busta paga è l’aspetto fiscale. La tassazione del Tfr in busta paga avviene infatti con le aliquote ordinarie Irpef, che sono più alte rispetto al regime fiscale agevolato previsto per il Tfr. Da questa stortura si salvano solo i lavoratori che hanno un reddito annuo fino a 15mila euro lordi, in quanto la loro aliquota Irpef coincide con quella del Tfr ed è pari al 23%.

I dolori arrivano superata la soglia dei 15mila euro: da 15mila a 28.650 euro di reddito (aliquota Irpef al 27%) la tassazione aumenta di circa 50 euro; da 28.650 a 55mila euro di reddito (aliquota Irpef al 38%) la tassazione sale di circa 300 euro; da 55mila a 75mila euro di reddito (aliquota Irpef al 41%) l’aumento è di circa 500 euro; oltre i 75mila euro di reddito (aliquota Irpef al 43%) l’aggravio è di quasi 600 euro.

Il Tfr in busta paga incide sulle detrazioni per lavoro dipendente o per i familiari a carico, ma non sul computo del reddito per la concessione del bonus da 80 euro, né ai fini dell’imponibile previdenziale. Ricordiamo infine che la scelta è libera, può avvenire in qualsiasi momento ma non è reversibile: chi fa richiesta del Tfr in busta paga lo continuerà a ricevere fino alla scadenza del 30 giugno 2018.

Nuovo sportello franchising a Como

Anche Como ha il proprio sportello franchising. Prosegue così l’opera di Confcommercio e di Assofranchising sul territorio per la diffusione di uno strumento importantissimo per l’autoimprenditorialità come lo sportello franchising. Specialmente in un periodo di crisi nel quale, invece, il settore del franchising ha dimostrato di tenere molto bene (+5,5% in giro d’affari e +4,6% in addetti dal 2009 al 2013).

Confcommercio e Assofranchising hanno infatti attivato da giovedì 26 febbraio lo sportello franchising nella locale sede dell’associazione di categoria, in via Ballarini. Allo sportello franchising è presente un operatore qualificato dedicato (ogni lunedì dalle 14 alle 17), a disposizione di quanti vogliono aprire un’attività mettendo in gioco se stessi e la propria vocazione all’autoimprenditorialità.

A Como l’interesse per la formula del franchising c’è e abbiamo numerose richieste – ha commentato il presidente di Confcommercio, Giansilvio Primavesi -. Questo sportello si propone di aiutare chiunque fosse interessato a mettersi in gioco e voglia dunque chiarire bene la situazione, conoscere vantaggi e svantaggi e risolvere eventuali problemi“.

Professionisti in crisi, in tutti i sensi

Che i professionisti abbiano patito più degli altri gli effetti della crisi non è una diceria ma un dato di fatto. Lo certifica un’indagine su circa 600 professionisti della Consulta provinciale delle professioni realizzata dalla Camera di commercio di Milano attraverso il Consorzio Aaster, dalla quale emerge che il 45,5% ha risentito “significativamente” dell’impatto della crisi, il 37,8% solo in forma contenuta, mentre il 16,7% è passato pressoché indenne.

In più, per affrontare la crisi il 30% dei professionisti attinge ai risparmi personali, uno su due sta cercando di cambiare professione, mentre il 56% di loro chiede una semplificazione amministrativa e burocratica.

La prima causa di difficoltà per i grandi studi è il mancato pagamento dei clienti privati e per i per i professionisti in crisi la mancanza di commesse. I più strutturati hanno reagito con la ristrutturazione del lavoro interno, il taglio dei costi e l’aumento delle ore di lavoro, mentre i piccoli cercando di aumentare le conoscenze. Tutti hanno ridotto i prezzi.

Magrissimi i guadagni. La metà dei professionisti, per la maggiore presenza dei free lance, non supera i 1.500 euro mensili, il 18% supera i 3mila. Tra i meno giovani oltre 45 anni, il 23% supera i 3mila euro, mentre le donne nel 60% dei casi sono sotto i 1500 euro.  Redditi più elevati per ingegneri e professioni giuridiche, meno per architetti, veterinari e professionisti di ambito creativo.

Ancora la ricerca sottolinea come, tra i professionisti, sono insoddisfatti per il reddito il 67% e per gli orari di lavoro il 40%. Ma sono contenti per l’autonomia professionale ben il 51%. E per sconfiggere la crisi, i professionisti affrontano il lavoro in rete: solo il 13,6% di loro fa da sé. Il 70,3% non esce per lavoro dalla dimensione della provincia, mentre la maggior parte non ha creato un’impresa. Quelli con sola partita Iva sono il 65%.

La crisi ha colpito in modo profondo i professionisti – ha dichiarato Potito Di Nunzio, Presidente della Consulta delle Professioni della Camera di commercio di Milano e presidente dell’Ordine dei consulenti del lavoro di Milano -. In particolare i free lance meno organizzati rispetto agli studi professionali. Ma anche questi ultimi stanno facendo fronte ad una incisiva riorganizzazione interna. Ecco perché è ancora più importante una maggiore collaborazione tra professionisti e imprese, che possa generare effetti positivi su una possibile ripresa”.

Edilizia, ma quando riparti?

Da quando è partita la crisi nera, 7 anni fa, il settore dell’ edilizia è forse quello che, in Italia, l’ha patita con maggior ferocia. E, mentre tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015 l’economia ha provato a dare qualche segnale di risveglio, per l’ edilizia sembra ancora notte fonda.

Lo conferma un’analisi di Confartigianato, secondo la quale quello appena passato è stato l’ennesimo anno nero per l’ edilizia italiana. Il 2014, infatti, ha visto crollare il valore della produzione di quasi il 7% (6,9%), valore che, nella media dei Paesi Ue, è invece cresciuto dell’1,9%. Un dato su tutti che deve far riflettere, secondo Confartigianato, è quello della Spagna, dove il settore dell’ edilizia è sì sprofondato del 57,1% nel quinquennio 2004-2009, ma lo scorso anno si è impennato del 16%, mentre la locomotiva Germania è cresciuta del 2,4%.

La crisi dell’ edilizia ha portato nel 2014 alla chiusura di altre 13mila imprese artigiane (13111, -2,4%) in un settore dove le imprese artigiane sono quasi 550mila (536.814), danno lavoro a quasi un milione di persone (835.963) e cubano il 38,8% dell’artigianato italiano.

A commento dell’analisi sulla crisi del settore dell’ edilizia condotta da Confartigianato, le parole più autorevoli sono quelle di Arnaldo Redaelli, presidente di Confartigianato Edilizia: “Di fronte a questo scenario – emerge in modo evidente la necessità di misure strutturali per rilanciare le costruzioni e dare una scossa salutare a tutta l’economia italiana, assicurando una risposta alla domanda abitativa, infrastrutturale e di riqualificazione urbana. È necessario far ripartire gli investimenti in infrastrutture, sbloccando la realizzazione di opere pubbliche a livello locale e modificando le regole del patto di stabilità interno. Inoltre, non è più rinviabile il piano contro il dissesto idrogeologico e per la messa in sicurezza antisismica“.

Nonostante questo, però, la voglia di vedere positivo nella strage dell’ edilizia c’è. Secondo Confartigianato, infatti, il settore delle costruzioni ha mostrato “un timido segnale positivo alla fine del 2014”: tra novembre e dicembre, il valore della produzione ha segnato un +2,3% a fronte di una -0,5% nell’Ue a 28. Fiammella in fondo al tunnel della crisi per l’ edilizia?

Tfr in busta paga? No, grazie

Avrebbe dovuto essere una rivoluzione, si sta dimostrando un flop. Parliamo del Tfr in busta paga, che è possibile scegliere da questo mese e che, stando ai primi dati, sta registrando un’adesione piuttosto scarsa.

Una freddezza di fronte al Tfr in busta paga confermata da Confesercenti la quale, attraverso un sondaggio effettuato con Swg, ha rilevato che, all’inizio del mese, ne hanno fatto richiesta solo 6 dipendenti su 100, mentre un risicato 11% vorrebbe farlo entro la fine del 2015. Ben l’83% intende invece non richiedere il Tfr in busta paga, ma preferisce lasciarlo in azienda.

Un dato, quello sui dipendenti, confermato dalle imprese, come sottolinea Confesercenti: “l’82% non ha ricevuto o pensa di non ricevere richieste di Tfr in busta paga da parte dei propri dipendenti”.

Qual è il motivo che ha spinto molti italiani a non aderire alla possibilità del Tfr in busta paga? Secondo Confesercenti, il 58% degli intervistati non se n’è servito per “la volontà di non erodere la liquidazione da riscuotere a fine rapporto di lavoro“, mentre il 10% ha dichiarato di non aver richiesto il Tfr in busta paga per non creare difficoltà all’azienda.

C’è però da sottolineare che la maggior parte degli intervistati non ha scelto l’opzione del Tfr in busta paga per ragioni fiscali. La nota di Confesercenti a commento del sondaggio sottolinea infatti che c’è “un rilevante 30% che dichiara di non avere approfittato dell’opzione per via dell’eccesso di fisco: il Tfr, se percepito in busta paga, viene infatti tassato con aliquota ordinaria, e non ridotta come quando viene preso alla fine del rapporto di lavoro. Oltretutto, incide negativamente sulle tabelle Anf e sulla determinazione dell’Isee (questione dirimente soprattutto per le fasce di reddito più deboli, che sarebbero dovute essere le principali beneficiarie del provvedimento)“.

Ma a che cosa servirà il Tfr in busta paga a coloro che lo hanno scelto? Secondo il sondaggio di Confesercenti, i lavoratori che hanno chiesto di avere il Tfr in busta paga, “utilizzeranno la liquidità aggiuntiva soprattutto per saldare debiti pregressi, destinazione indicata dal 24% del campione” (1.500 su 3.800). Il “20% lo destinerà alla previdenza integrativa, mentre solo il 19% lo impiegherà per acquisti di vario genere. Il 35%, invece, non ha ancora un programma“.

Insomma, i risultati parlano chiaro – il Tfr in busta paga non convince – e anche Confesercenti ne è consapevole: “Dalla nostra indagine – ha infatti commentato il segretario generale di Confesercenti Mauro Bussoni, – emerge chiaramente come gli italiani continuino a valutare positivamente l’istituto Tfr, e ritengono che sia più utile mantenere intatta la liquidazione piuttosto che usufruire di poca liquidità in più ogni mese“.

Tax Free Shopping in Italia in calo

Una delle modalità di acquisto che, da sempre, sorreggono il successo dei prodotti made in Italy è il Tax Free Shopping, preferito dai turisti stranieri che visitano il nostro Paese per portarsi a casa le eccellenze del nostro artigianato.

Secondo l’analisi annuale effettuata da Global Blue, però, nel 2014 il Tax Free Shopping in Italia ha fatto registrare un dato inferiore alle attese, addirittura un calo: -3% rispetto al 2013. Un saldo negativo sul quale ha inciso principalmente la picchiata degli acquisti da parte dei turisti russi, generalmente in più innamorati del made in Italy e poco attenti alla spesa pur di portarsi a casa il meglio dell’Italia: -16% sul 2013, a causa dell’indebolimento del rublo e della situazione politica complicata che la Russia sta attraversando.

Gli altri campioni del Tax Free Shopping, ossia i turisti cinesi, non hanno tradito le aspettative, con un incremento degli acquisti pari al 13% che ha consentito loro di occupare un quarto del mercato nazionale del Tax Free Shopping, posizionandosi al primo post tra i top spender con uno scontrino di 895 euro.

Secondo i dati di Global Blue, a fronte del -3% del fatturato, il Tax Free Shopping ha però fatto registrare un aumento del valore dello scontrino medio del 2% rispetto al 2013, raggiungendo quota 733 euro. Come detto, la parte del leone l’hanno fatta i cinesi e, nonostante le loro difficoltà, i russi (25% e 24% del mercato italiano del Tax Free Shopping); dietro di loro i turisti americani (6%, spesa media di 810 euro) e i turisti giapponesi (5%, nonostante un calo degli acquisti del 15% sul 2013).

Restando in Asia, altri turisti che hanno un ottimo rapporto con il Tax Free Shopping in Italia sono i coreani (4% e una spesa media di circa 630 euro, +18% nel 2014) e i cittadini di Hong Kong, che vantano il record dello scontrino medio più alto: 1.115 euro. Global Blue rileva anche una buona performance del Tax Free Shopping da parte dei turisti svizzeri, i quali hanno dalla loro una moneta sempre più forte che promette maggiori acquisti in Italia nei prossimi mesi.

Ma quanto cresce lo stress da lavoro!

Negli ultimi cinque anni, lo stress da lavoro è cresciuto, non solo in Italia ma anche nel mondo. E la colpa non è solo della crisi. A rovinare le giornate in ufficio degli italiani facendo aumentare lo stress da lavoro non sono solo le preoccupazioni sulla instabilità del lavoro e l’insicurezza del futuro, ma anche la routine del lavoro. Lo testimonia una ricerca globale svolta da Regus, il principale fornitore di spazi di lavoro flessibili, su un campione di 22mila manager e professionisti in oltre 100 Paesi.

La ricerca ha certificato che oltre il 53% degli intervistati a livello globale ritiene che il livello di stress da lavoro sia aumentato sensibilmente rispetto a cinque anni fa. Nello specifico, per gli italiani, le cause principali dello stress da lavoro sono, oltre alla instabilità del posto (30% contro il 15% della media globale), le tecnologie obsolete e inaffidabili (30%), la carenza di personale e collaboratori (27%), la scarsa flessibilità degli orari e dei luoghi di lavoro.

Secondo Regus, che offre soluzioni flessibili per gli spazi di lavoro, proprio il lavoro flessibile da remoto aiuterebbe a ridurre lo stress da lavoro. Tre quarti degli intervistati (media globale 74%, in Italia 73%) ritiene infatti che lavorare qualche volta in un ambiente diverso dall’ufficio abituale, possa costituire un piccolo sollievo dallo stress da lavoro: il 61% degli italiani (contro una media globale del 59%) pensa che chi ha la possibilità di svolgere il proprio lavoro con maggiore flessibilità possa raggiungere un miglior equilibrio tra la vita e il lavoro.

Il 61% di chi, in Italia, già sperimenta il lavoro flessibile (58% a livello globale) ritiene di essere maggiormente soddisfatto e di soffrire meno di stress da lavoro e anche il 43% (55% media globale) dei lavoratori autonomi e dei free lance sostiene di avere raggiunto un buon bilanciamento tra lavoro e tempo libero.