Enel Green Power nel mercato peruviano

Il Sudamerica è sempre più terreno di conquista per Enel Green Power. Dopo essere entrata sul mercato cileno, uruguaiano e brasiliano con forza, ora la società del Gruppo Enel mette un piede pesante anche in Perù, attraverso la sua controllata locale.

Enel Green Power si è infatti aggiudicata il diritto a stipulare contratti ventennali di fornitura di energia per 126 MW di eolico, 180 MW di fotovoltaico e 20 MW di idroelettrico dopo aver vinto un’apposita gara per le energie rinnovabili indetta dal governo di Lima.

Un diritto che farà diventare Enel Green Power il principale operatore di rinnovabili in Perù entro il 2018, con 326 MW totali aggiudicati nella gara. Inoltre, la società sarà l’unica nel Paese a operare con i propri impianti in tre diversi tipi di tecnologie rinnovabili.

Enel Green Power ha comunicato anche che l’investimento per costruzione degli impianti, che si prevede entreranno in esercizio entro il 2018, sarà di circa 400 milioni di dollari Usa, in linea con gli investimenti previsti dal piano strategico della società. Inoltre, secondo i contratti di fornitura ventennale aggiudicati ad Enel Green Power è prevista la vendita di volumi specifici dell’energia prodotta dagli impianti.

Assunzione disoccupati e sgravi, i controlli dell’ Inps

Continua l’opera di controllo dell’ Inps su pensioni, agevolazioni e contribuzioni. Dopo gli accertamenti sull’esistenza in vita dei pensionati italiani all’estero, ora l’ Inps ha comunicato di aver predisposto una nuova sezione della procedura Tutor 5N, indicata come 5N SENZA MODULO, che servirà a verificare l’eventuale indebita fruizione dei benefici previsti dalla Legge n. 407/90, qualora si registri una mancata presentazione della domanda di autorizzazione per i lavoratori denunciati.

Non sono rari, infatti, i casi di datori di lavoro che non hanno inoltrato telematicamente all’istituto la domanda di fruizione delle agevolazioni per i lavoratori inoccupati/disoccupati da almeno 24 mesi e assunti. Obbligo che decorre dall’1 novembre 2011.

Tutte le richieste pervenute in tal senso pervenute all’ Inps sono state sottoposte a un processo di verifica della sussistenza dei requisiti richiesti dalla normativa vigente: in caso di esito positivo, le richieste sono state segnate come OK, in caso negativo come KO.

L’ Inps ha poi verificato che per ciascun lavoratore per il quale l’istruttoria si è conclusa positivamente, il datore di lavoro abbia riportato nelle denunce mensili del periodo contributivo interessato il corretto codice tipo contribuzione per poter godere dell’esonero contributivo in oggetto.

Un 2015 in crescita per il settore fieristico italiano

La 27esima rilevazione trimestrale sulle tendenze del settore fieristico condotta dall’Osservatorio congiunturale di Aefi (Associazione Esposizioni e Fiere Italiane) per il periodo ottobre-dicembre 2015 indica un quadro in ripresa rispetto al trimestre precedente e un consolidamento rispetto al corrispondente periodo del 2014.

L’indagine, che ha coinvolto 26 poli fieristici italiani associati Aefi, evidenzia – attraverso i saldi positivi e negativi definiti in base alle risposte degli associati che hanno partecipato all’analisi – un trend positivo per tutti gli indicatori considerati: numero di manifestazioni, espositori e visitatori complessivi, superficie occupata e fatturato totale del settore fieristico. Diminuiscono in particolare le situazioni di stazionarietà, a vantaggio di un maggior ottimismo.

Riprende a crescere il numero di manifestazioni (il 38,45% dei quartieri coinvolti nell’indagine ha ospitato più rassegne e il 46,18% ha registrato stazionarietà, evidenziando la tenuta del sistema). Il saldo, pari al +23%, è particolarmente significativo.

Il numero degli espositori, con un saldo del +23% per gli associati che hanno risposto, conferma l’andamento positivo del settore fieristico sul trimestre precedente, quando il saldo era pari a +16%. Dall’analisi della provenienza degli espositori, emergono in forte ripresa gli italiani (+27%), mentre gli europei sono stabili e gli stranieri extra Ue fanno registrare un +4% .

Crescono anche le superfici occupate: il 46,14% dei partecipanti all’indagine registra infatti un incremento, nonostante il saldo del +19% sia più contenuto rispetto al trimestre precedente (+29%). Il maggiore contributo all’aumento della superficie complessiva occupata proviene dagli espositori italiani, +15%, mentre registrano una leggera contrazione le aree occupate dagli espositori stranieri.

Particolarmente positivi i dati relativi ai flussi di visitatori del settore fieristico: in aumento per il 61,52% degli intervistati, invariato per il 11,57% e diminuito per il 26,91%. Il saldo del +35%, al netto della componente stazionaria, conferma la dinamica positiva, con un incremento marcato rispetto al trimestre precedente (+25%).

Lo spaccato dei visitatori evidenzia una crescita sostenuta degli italiani, +27%, seguiti dagli europei (+19%). Stabili quelli provenienti dai Paesi extra Ue, che registrano un saldo nullo. Il tasso di crescita più contenuto dei visitatori esteri è imputabile principalmente al calo del flusso di viaggiatori causato dalle tensioni geopolitiche registrate nell’ultimo trimestre dell’anno.

Infine, a dimostrazione di un trend di ripresa del settore fieristico, l’andamento del fatturato segna, nel trimestre in esame, un +27%; un dato particolarmente positivo nonostante il leggero decremento rispetto al trimestre precedente (+33%).

Ottimistiche le previsioni per l’anno appena iniziato, che promette di essere buono per il settore fieristico, sia per quanto riguarda il numero di espositori, in aumento per il 46,14% dei quartieri che hanno partecipato all’indagine, sia per i visitatori, per cui si prevede un +35%.

Smart working e Pmi, un rapporto difficile

Che lo smart working rischi di diventare una moda più che il vero, nuovo modo di coniugare lavoro, produttività e vita privata? Il rischio c’è almeno stando al movimento che si è registrato prima, durante e dopo la Giornata del Lavoro Agile celebrata la scorsa settimana.

Sono sempre più, infatti, le grandi aziende italiane ed estere presenti in Italia a introdurre politiche di lavoro agile. Di questi giorni sono le uscite di Barilla, Alstom e Siemens, più consolidate e strutturate le esperienze di Vodafone, Microsoft. Tutti grandi nomi, per i quali le dimensioni e la portata del know how tecnologico rendono le politiche di smart working uno sviluppo quasi naturale delle loro policy di HR. Ma le Pmi?

Quello tra Pmi e smart woking, in Italia, è un matrimonio ancora tutto da fare e la cosa non è certo incoraggiante, visto che le piccole e medie imprese sono l’ossatura su cui si regge buona parte dell’economia del nostro Paese. La difficoltà di introdurre nelle Pmi una cultura del lavoro agile è confermata da un’analisi dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano.

Secondo i risultati di questa analisi, nelle Pmi italiane, la diffusione dello smart working è ancora molto limitata: oltre una Pmi su due non sa che cosa sia e, se lo conosce, sostiene di non esserne interessata. Solo un misero 5% di piccole e medie imprese afferma di avere un progetto di lavoro agile strutturato. Nel 29% dei casi si è dimostrato interesse e nel 9% qualche forma di lavoro flessibile è stata introdotta in azienda.

L’analisi del Politecnico di Milano ha rilevato l’importanza del ruolo delle funzioni di staff nell’ideazione, avvio e coordinamento dei progetti di smart working. Progetti nella maggior parte dei casi in capo alle funzioni HR (71%) e IT (37%) dell’azienda, con un 60% di casi in cui la funzione Facility Management si trova a gestire fasi rilevanti delle politiche di lavoro agile, pur non essendone la struttura direttamente responsabile. Sorprende, per certi versi, il 66% dei casi in cui sono coinvolte nelle iniziative di smart working le rappresentanze sindacali aziendali.

Un altro fattore che dovrebbe giocare a favore della implementazione di politiche di smart working è la rapidità con cui queste possono essere ideate, organizzate e avviate. Sempre secondo il Politecnico, il 32% delle aziende che si muove verso queste politiche ha iniziato a progettarle l’anno scorso e il 12% nella prima parte del 2015.

Se, dunque, nelle piccole e medie imprese lo smart working fatica a prendere piede tanto per ragioni strutturali quanto culturali, nelle aziende più grandi si registra invece un interesse più forte. L’analisi del Politecnico rileva che solo il 3% delle imprese è disinformato, il 12 è disinteressato, il 37% è interessato ma non ha progettato o attivato iniziative. Elevato il numero delle imprese che, invece, sono già avviate sulla strada del lavoro agile: quasi 1 su 2, e di queste il 17% lo ha fatto in modo strutturato, un altro 17% in modo informale e il 14% ha avviato progetti di lavoro agile.

Distinguersi negli accessori donna? Ecco il franchising Miss Roberta

Sono molti i marchi in franchising di abbigliamento e accessori, specialmente per la donna. Un settore che pare inflazionato e dove ritagliarsi importanti quote di mercato sembra tutt’altro che semplice.

Il modo migliore per farlo è distinguersi tra i vari marchi in franchising con l’originalità e la varietà della propria offerta. Va in questo senso l’idea del franchising Miss Roberta, grazie a quelli che, secondo l’azienda, sono i punti di forza di questa formula di franchising: “Conto vendita con marginalità costante anche durante i saldi. Un format originale e di grande impatto. Un prodotto giovane, di qualità a prezzi straordinari. Pluriennale esperienza nel settore. Una struttura efficiente e organizzata. Formazione in sede e addestramento operativo in negozio pilota. Pubblicità a livello nazionale”. 

Dettagli

Superficie media del punto vendita: da 80 a 100 mq

Bacino d’utenza: almeno 40mila abitanti

Investimento iniziale: da 32mila a 50mila euro

Fatturato medio annuo: da 320mila a 600mila euro

Fee d’ingresso: nessuna

Royalties: nessuna

Durata del contratto: 5 anni

Per maggiori informazioni: Miss Roberta/

Regolamento Edilizio Unico, soddisfazione degli architetti italiani

Gli architetti italiani sono soddisfatti per l’approvazione del Regolamento Edilizio Unico ed esprimono il loro plauso attraverso una nota del Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori.

Con l’approvazione delle definizioni standardizzate – si legge nella notasiamo finalmente a un passo dall’effettivo avvio del Regolamento Edilizio Unico per l’adozione del quale gli architetti italiani si sono battuti, mettendo a disposizione tutte le loro competenze, al fine di realizzare una svolta per il mondo dell’edilizia e per cittadini che finalmente potranno contare su norme chiare e prestazionali, condivise su tutto il territorio nazionale e che favoriranno la qualità dell’abitare”.

Va oltre il presidente degli architetti italiani, Leopoldo Freyrie: “Consideriamo una nostra vittoria poter passare dalla follia normativa degli oltre 8mila regolamenti, uno per Comune, ad uno schema sul quale si baserà il Regolamento Edilizio Unico, che contiene solo 42 definizioni e che consente finalmente di semplificare non solo la costruzione, ma soprattutto la rigenerazione degli edifici”.

Ci auguriamo che al più presto la Conferenza Stato Regioni provveda a svolgere gli atti di sua competenza affinché il provvedimento possa essere approvato al più presto. Il nostro Paese ha bisogno di norme chiare e prestazionali, condivise su tutto il territorio nazionale, che favoriscano la qualità dell’abitare invece della buro-edilizia fonte, tra l’altro, di corruzione e di abusivismo. Procedere verso la semplificazione è necessario proprio per garantire il rispetto della legalità e la trasparenza”, conclude Freyrie a nome di tutti gli architetti italiani.

Smart working, c’è tanto da fare

Lo smart working è un fenomeno da cavalcare. Se molte grandi aziende lo hanno già capito, per le piccole e medie imprese è più difficile, specialmente in Italia. Lo dimostra anche una ricerca svolta da Vodafone sul tema dello smart working, Flexible Work: Friend or Foe? (che significa Lavoro flessibile: amico o nemico?).

Si tratta di un’indagine quantitativa svolta in 10 Paesi su un campione di 8mila persone, diviso tra lavoratori e datori di lavoro, manager e dirigenti di piccole e medie imprese, multinazionali organizzazioni del settore pubblico.

I risultati dicono che, a livello globale, il 75% delle aziende ha implementato forme di smart working che permettono ai dipendenti di organizzare in modo autonomo la propria giornata di lavoro. Gli strumenti principali che consentono loro di lavorare da casa o in mobilità sono di natura principalmente tecnologica, come smartphone, tablet, linee adsl o a fibra ottica.

Dal punto di vista dei datori di lavoro, lo smart working ha portato a un aumento della produttività (nell’83% dei casi), a una crescita dei profitti (61%) e a un impatto positivo sulla reputazione dell’azienda (58%).

C’è però ancora un 33% di datori di lavoro secondo i quali lo smart working è lontano dalla mentalità aziendale; per altri (25%) può portare a una distribuzione iniqua del lavoro o a scontri tra i dipendenti che lo praticano e quelli che non lo praticano (30%). Resiste un 22% di datori di lavoro che crede che politiche di smart working porterebbero i dipendenti a impegnarsi di meno sul lavoro.

Spostando lo sguardo dai datori di lavoro ai lavoratori, coloro i quali non praticano lo smart working credono che, utilizzandolo, sarebbero più motivati sul lavoro (55%) e ne gioverebbero anche la produttività (44%) e i profitti (30%) dell’azienda. Allo stesso modo, i giovani sono più inclini a utilizzare il lavoro agile pensando che migliori qualità e produttività: il 72% della fascia 18-24 anni contro il 38% degli over 55.

Relativamente all’Italia, lo studio di Vodafone ha rilevato come il 40% dei lavoratori non sia interessato da politiche di lavoro agile, utilizzato invece dal 31% dei lavoratori. Nello specifico il 38% dei lavoratori intervistati collega la scarsa propensione allo smart working al proprio ruolo, il 43% non cambierebbe l’attuale organizzazione e un piccolo 9% pensa persino che il lavoro flessibile possa influire negativamente sulla propria carriera.

Tanto è vero che alla domanda su che cosa farebbe la propria azienda se le fosse richiesto di lavorare in modo flessibile, il 34% degli intervistati ha risposto che i capi rifiuterebbero, il 25% che accetterebbero con riserva e il 16% che i vertici aziendali accetterebbero senza remore. Del resto il 47% degli intervistati crede che lo smart working abbia effetti positivi sulla propria vita, il 48% che migliori l’azienda, il 60% che sia tanto un’opportunità per i dipendenti quanto per il business aziendale.

Sul fronte dei device, infine, risulta che lo smartphone personale sia il dispositivo più usato da chi lavora fuori dal proprio ufficio (58% dei casi), seguito da pc (27%) e notebook personale (23%). Solo il 14% degli intervistati è dotato di smartphone aziendale e il 18% di notebook aziendale.

Moda italiana e mercato cinese

La Cina continua a essere un mercato centrale per la moda italiana, specialmente per la moda donna. Lo dimostrano alcuni dati emersi dalla conferenza stampa tenutasi nei giorni scorsi a Milano, organizzata dal Gruppo asiatico IFF (International Fine Fashion Group) e da Retaily. Un dato su tutti, l’aumento della domanda cinese di moda italiana per donna registrato nel 2015: +32% nel 2015.

Si tratta di un dato che, al di là delle griffe internazionali, riguarda l’intera produzione medio/alta della moda italiana, con un mercato potenziale di 300 milioni di cinesi benestanti, un settore al riparo dalle turbolenze finanziarie delle borse locali.

Il Gruppo IFF ha già messo sotto contratto 100 marchi della moda italiana, che esporranno in 9 Fashion Center in corrispondenza delle più importanti città cinesi, con una strategia commerciale a più canali che affianca la vendita al dettaglio, all’ingrosso e online.

Il primo concept store di IFFG aprirà a Shanghai nel settembre del 2016, all’interno dello shopping center “Golden Eagle”, una delle più prestigiose catene del retail di lusso di tutta la Cina. Gli altri Fashion Center saranno aperti successivamente a Changsha, Shenzhen, Xian, Hangzhou, Beijing, Wuhan, Shengyang e Xiamen.

Mentre i grandi marchi della moda internazionale stanno perdendo quote di mercato in Cina – ha spiegato durante la conferenza Dan Jiang, Project Manager IFFG -, la domanda di prodotti italiani di qualità, e dal prezzo accessibile, continua a crescere in modo costante. Nel 2015 le nostre stime riferiscono di un aumento dell’import di prodotti moda donna made in Italy di circa il 32%. Si tratta di aziende storiche della moda italiana, ma anche di linee nuove e stilisti emergenti, destinati ad incontrare il gradimento di grandi fasce di consumatori cinesi, soprattutto quello delle classi medie urbane emergenti”.

Secondo Giacomo Gardumi, chairman di Retaily, “l’interscambio tra Cina e Italia nel comparto moda crescerà di anno in anno. Le tempeste speculative registrate sulle borse di Shanghai e Shenzhen non impattano sull’ economia reale della Cina, che è, per sua natura, impermeabile alle dinamiche della finanza internazionale”.

Nei Concept Store di IFFG esporranno marchi della moda italiana selezionati in base a qualità, taglio stilistico ed accessibilità del prezzo. Prodotti legati ad una nuova idea di lusso e capaci di imporsi ad una larga fascia di consumatori cinesi. Oltre ad abiti della moda italiana, il progetto IFFG prevede l’esportazione di accessori e gioielli.

Misteri d’Italia

Nel 2014 è cresciuta del 61,32% la spesa per i consulenti e i collaboratori esterni pagati dalla Pa. La domanda è: ma con tutta la gente che lavora nel pubblico, perché tanti consulenti? Clientelarismo o dipendenti pubblici incapaci? A voi la risposta.

Professioni, risorsa per il Paese

Che lavoratori autonomi, partite Iva e il mondo delle professioni stiano cominciando ad assumere una certa importanza agli occhi del Governo, non solo con i proclami di facciata, pare essere finalmente un dato di fatto. Lo dimostra il recente dibattito sullo Statuto del lavoro autonomo.

Proprio su questo argomento sì è tenuto la scorsa settimana a Roma, al Tempio di Adriano, un incontro organizzato da Confprofessioni Lazio, al quale hanno partecipato rappresentanti del Governo, del Parlamento, dei sindacati e, appunto, del mondo delle professioni. Tema dell’incontro, lo Statuto del lavoro autonomo e la Carta dei diritti universali della Cgil.

L’evento è stato articolato su tre tavole rotonde, durante le quali si sono affrontati i temi più rilevanti del provvedimento varato dal Governo sulle professioni. La prima sessione dei lavori è stata dedicata a “Il Jobs act del lavoro autonomo”, la seconda a “La previdenza dei professionisti”, la terza a “Dal diritto del lavoro ai diritti del lavoratore”.

Secondo il presidente di Confprofessioni Lazio, Andrea Dili, “il ddl sullo Statuto del lavoro autonomo e la carta universale dei diritti universali della Cgil rappresentano una svolta fondamentale della politica e dei sindacati verso l’universo delle professioni“.

Il presidente nazionale di Confprofessioni, Gaetano Stella, ha invece ricordato come “il Ccnl studi professionali risponde alle nuove esigenze del mercato del lavoro. Abbiamo dato vita a forme di tutele a dipendenti e datori di lavoro; ora siamo pronti ad estendere il welfare contrattuale ai lavoratori autonomi, ma è necessario un intervento normativo per assicurare una deducibilità contributiva per i lavoratori autonomi e partite Iva“.