Quanto ha inciso la crisi, regione per regione

La crisi c’è per tutti, ma non tutti la subiscono allo stesso modo. Almeno in Italia, almeno nelle diverse regioni italiane. Lo certifica l’istituto europeo di statistica Eurostat, secondo il quale nei sette anni di crisi (2008-2014) che ci stiamo faticosamente lasciando alle spalle, il Pil pro-capite degli italiani è calato di 1.100, da 27.600 a 26.500 euro all’anno (-4%). Nello stesso periodo, il Pil pro-capite nell’Ue a 28 è salito del 5,7%.

Una contrazione che però non è stata uniforme all’interno delle diverse regioni italiane, dove la crisi ha inciso in maniera differente o, in alcuni casi nemmeno si è sentita. Spiccano le contrazioni negative del Pil dei cittadini dell’Umbria (-8,37%, da 26.300 a 24.100 euro), della Campania (-7,7%, da 18.200 a 16.800), del Lazio (-7,33%, da 34.100 a 31.600) e della Liguria (-7%, da 31.000 a 28.800). Niente crisi per i Pil della Provincia Autonoma di Bolzano (+6,4%, da 37.500 a 39.900 euro), della Valle d’Aosta (+3,6%, da 35.500 a 36.700) e della Puglia (+0,6%, da 17.300 a 17.400).

In termini di potere d’acquisto, la crisi ha fatto perdere agli italiani in 7 anni quasi dieci punti: fatto 100 il valore Ue, l’Italia è passata da 105 a 96. Guardando alle regioni, tutto il Centronord è in affanno: Lazio -16 punti (da 130 a 114), Liguria -14 punti (da 118 a 104), Piemonte -13 (da 113 a 100), Lombardia -12 (da 138 a 126), Friuli Venezia Giulia -11 (da 112 a 101), Emilia Romagna -10 (da 127 a 117), Marche -10 (da 102 a 92), Veneto -8 (da 116 a 108), Toscana -6 (da 110 a 104).

Non va meglio nemmeno al Sud, dove la crisi ha fatto strage: Campania -9 (da 70 a 61), Sicilia -7 (da 69 a 62), Calabria -6 (da 65 a 59), Basilicata -6 (da 75 a 69), Sardegna -6 (da 78 a 72), Molise -6 (da 81 a 75), Puglia -3 (da 66 a 63).

Start-up innovative, al via il bando a Milano

Aspiranti imprenditori e start-up, pronti a partire di slancio? È stato presentato nei giorni scorsi il bando per Speed MI Up, l’incubatore di Università Bocconi, Camera di Commercio e Comune di Milano

Il bando, che si chiuderà il 14 aprile, dà il via alla settima edizione dell’iniziativa, che mira a favorire la nascita e lo sviluppo di start-up, soprattutto innovative, e rafforzare l’integrazione tra il mondo delle imprese e dei professionisti attraverso l’offerta di un programma formativo, di un servizio di tutoraggio individuale, di supporto continuativo di tutoring, di supporto nell’accesso a risorse finanziarie e servizi in materia di innovazione, ricerca scientifica e internazionalizzazione.

Sono inoltre messi a disposizione delle start-up, spazi attrezzati di lavoro con postazioni open space, aree di incontro informale e spazi di rappresentanza.

Speed MI Up ospita attualmente 25 start-up in fasi diverse di sviluppo, selezionate grazie ai sei bandi che si sono susseguiti a partire dal 2013, alle quali si devono aggiungere una decina di imprese che hanno concluso il periodo di incubazione.

Sono 779 le start-up innovative a Milano, che rappresentano il 68% del totale lombardo e circa il 15% italiano. La maggior parte opera nel settore dei servizi avanzati (82,6%), seguita dall’industria (11,2%) e dal commercio (5,8%). In particolare sono attive nel settore dell’informazione e comunicazione (52,1%) e nelle attività professionali, scientifiche e tecniche (21,8%).

La maggior parte delle start-up innovative conta meno di quattro addetti, seguite dalle imprese che hanno da cinque a nove addetti. Inoltre, 162 sono giovanili e 91 femminili. Secondo un rapporto del Servizio Studi e Statistica della Camera di Commercio di Milano su dati Registro Imprese 2015 e 2014, Milano è prima in Italia per numero di start-up innovative (15%), seguita da Roma (9%), Torino (5%), Napoli e Bologna (3%).

Questo progetto è una infrastruttura ormai consolidata per la città, a disposizione delle imprese, a partire dalle start up e dai giovani professionisti – ha dichiarato Alberto Meomartini, presidente del consorzio Speed MI Up e vice presidente della Camera di commercio di Milano -. Abbiamo creato un luogo di dialogo tra istituzioni e università per aiutare la crescita delle idee d’impresa innovative, in particolare dei giovani”.

Cantieristica navale e finanziamenti

Il mondo della nautica e della cantieristica navale è da sempre un asset strategico per l’impresa italiana ma, come tanti altri comparti, ha subito pesanti ripercussioni dalla crisi economica.

Ora UniCredit, la sua controllata UniCredit Factoring e Fincantieri provano a dare un po’ di respiro alle aziende della cantieristica con un accordo finalizzato a migliorare il supporto finanziario alle imprese fornitrici del gruppo navalmeccanico di Trieste.

L’accordo faciliterà e renderà più conveniente l’accesso al credito da parte dei fornitori di Fincantieri e di quelli delle società controllate, assicurando il sostegno all’intera filiera Produttiva della cantieristica navale, costituita da circa 4mila piccole e medie imprese.

L’accordo prevede che UniCredit metta a disposizione dei fornitori di Fincantieri alcuni specifici servizi di natura bancaria, quali linee di credito per il rilascio di garanzie commerciali e l’erogazione di anticipi su contratti.

In aggiunta, UniCredit Factoring si impegna a offrire ai fornitori di cantieristica del Gruppo triestino soluzioni che consentano lo smobilizzo dei crediti commerciali verso Fincantieri e l’ottenimento del pagamento anticipato delle forniture eseguite.

Secondo Andrea Burchi, Vice Direttore Generale e Direttore Commerciale di UniCredit Factoring, “questo accordo testimonia il nostro impegno verso lo sviluppo delle filiere produttive, che rappresentano dei modelli vincenti di aggregazione tra imprese nell’ambito del panorama competitivo internazionale. La piattaforma finanziaria messa a disposizione dei fornitori di Fincantieri comporta indiscutibili vantaggi per tutte le parti coinvolte. Riusciremo ancora meglio, grazie alla collaborazione di Fincantieri, a supportare efficacemente i suoi numerosi fornitori”.

Il canone Rai? Si paga doppio

Ci hanno raccontato fin da subito, per provare ad addolcire una pillola amara, che con la genialata del canone Rai in bolletta avremmo risparmiato sull’odioso balzello pagando, per il 2016, solo 100 euro tondi anziché i 113 e rotti dello scorso anno. Ora scopriamo che le cose non stanno proprio così.

I contribuenti, infatti, rischiano di pagare due volte il canone Rai: la prima, con l’imposta vera e propria in bolletta, la seconda, come una sorta di contributo alle società elettriche per i costi che sosterranno per la riscossione degli importi e il conseguente giro di questi ultimi all’Erario.

Se da un lato, infatti, nel nome di una sacrosanta lotta all’evasione fiscale il canone Rai è stato infilato nella bolletta elettrica, dall’altro per le società che gestiscono il servizio elettrico l’attività di riscossione avrà un costo, soprattutto in termini di risorse e di persone da destinare al coordinamento delle informazioni provenienti dal Fisco con quelle provenienti dai contribuenti.

Fin da subito le società elettriche non hanno nascosto il malumore, se non la vera e propria irritazione, per dover svolgere un servizio non richiesto. Visto che non abbiamo mai chiesto di farlo, è il loro ragionamento, non ci vogliamo mettere un euro; men che meno vuole fare lo Stato, girando parte del canone alle compagnie elettriche a copertura dei costi.

Un situazione che smaschera la leggerezza con la quale è stata gestita la questione del canone Rai in bolletta. Lo Stato ha infatti caricato sulle spalle dei privati un onere senza preoccuparsi di capire insieme a loro se l’operazione sarebbe stata economicamente sostenibile. Evidentemente non lo era.

Chi paga dunque? Il contribuente, ovvio! Nella bozza di decreto che regola l’attuazione delle norme contenute in legge di Stabilità e dedicate al canone Rai si ipotizza che alle imprese elettriche venga versato un contributo forfettario di 14 milioni per il 2016 e altrettanti per il 2017, a copertura dei costi della riscossione del canone Rai; 28 milioni che arriveranno dall’Agenzia delle Entrate, ovverosia dai contribuenti, secondo quanto denuncia il responsabile delle politiche energetiche della Cgil, Antonio Filippi.

E quindi ci risiamo. È intelligente e opportuno che il contrasto all’evasione fiscale sia fatto, dove non arriva l’amministrazione tributaria, utilizzando il soldi dei contribuenti onesti per ripianare i buchi fatti dai furbetti? Evidentemente per qualcuno al governo sì. Del resto, la situazione legata al canone Rai è lo specchio, in piccolo, di quanto accade da sempre in Italia con il Fisco: gli onesti pagano due volte, per se stessi e per i disonesti.

Un buon 2015 per Finmeccanica

Le grane giudiziarie legate alla cessione di Ansaldo STS ai giapponesi di Hitachi non sembrano scalfire il buonumore dell’amministratore delegato di Finmeccanica Mauro Moretti, specialmente di fronte ai conti con i quali la società ha chiuso il 2015.

Il risultato netto del gruppo Finmeccanica parla infatti di un utile di 527 milioni di euro contro i 20 del 2014, ricavi in crescita dell’1,8% a 12,99 miliardi e un aumento dell’ebitda del 18,9% a 1,86 miliardi, dovuto principalmente alle varie iniziative che il gruppo ha intrapreso per un proprio maggiore efficientamento.

L’ebit complessivo di Finmeccanica del 2015 è di 220 milioni di euro a fronte dei 527 milioni del settore elicotteri (con AgustaWestland), dei 263 dell’Aeronautica (con Alenia Aermacchi, GIE-ATR e altri), dei 37 milioni della divisione Spazio (Telespazio, Thales Alenia Space), degli 88 dei Sistemi di Difesa (Oto Melara, WASS, MBDA). Il risultato operativo totale di 884 milioni di euro segna un incremento del 48% sul 2014.

Sul fronte debiti, il debito finanziario netto si è attestato a 3,27 miliardi di euro, -17,3% sul 2014, contro un patrimonio netto di 4,3 miliardi di euro (+11,6%). Unico dato in controtendenza per Finmeccanica, il calo degli ordini, scesi nel 2015 a 12,37 miliardi di euro, con un portafoglio ordini complessivo di 28,79 miliardi di euro.

Parità di genere e professioni, la voce dei consulenti

La parità di genere non deve essere solo uno slogan ma una solida realtà. Anche e soprattutto nel mondo delle professioni. Ne è convinta Marina Calderone, presidente del Comitato Unitario delle Professioni (CUP) e dei Consulenti del Lavoro, che nei giorni scorsi è intervenuta sul tema del lavoro autonomo e della parità di genere.

La riforma del lavoro, iniziata con il Jobs Act – ha affermato Calderone -, potrà dirsi conclusa con un piano normativo efficace anche sul fronte del lavoro autonomo, che possa favorire le esigenze dei professionisti iscritti agli ordini professionali”.

Secondo i consulenti, con il Jobs Act fa un passo avanti positivo il tema della parità di genere, mentre sul fronte del lavoro autonomo il percorso è ancora tutto da perfezionare. Se, da una parte, Calderone commenta positivamente la parte del Jobs Act che regola la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, dall’altra aggiunge che “è necessario però mettere in campo ulteriori riflessioni anche sul ruolo che le donne ricoprono all’interno della società e sulle difficoltà d’integrazione lavorativa che ancora oggi riscontrano. Tutto questo ricordando sempre l’apporto importante che le donne possono offrire allo sviluppo dell’economia italiana e alla gestione dell’economia familiare”.

Inoltre, il mondo delle professioni vive una contraddizione di fondo sul piano della parità di genere. Se, da un lato, è molto forte in esso la componente femminile, dall’altro, secondo i Consulenti del lavoro, vi è un differenziale nella retribuzione tra donne professioniste e uomini professionisti che va a discapito delle prime.

Per ovviare a questa stortura nella parità di genere, dice Calderone, occorre approntare “strumenti di welfare flessibili che offrano alle professioniste sostegni aggiuntivi al congedo di maternità obbligatorio”. Un aspetto nel quale, ricorda Calderone, i consulenti del lavoro si sono sempre dimostrate parte attiva a sostegno delle donne professioniste.

E io non pago il canone Rai. Ecco come

Esistono dei modi legali, anche se un po’ macchinosi, per non pagare il canone Rai. Con la novità del canone in bolletta, infatti, il contribuente non ha più la possibilità di contestare l’accertamento per il mancato pagamento dell’imposta sulla detenzione dell’apparecchio televisivo: l’unico modo che ha per eliminare la presunzione di detenzione di un televisore è quella di inviare una volta all’anno entro il 30 aprile un’autocertificazione con la quale comunicare di non avere alcun apparecchio radiotelevisivo nella propria abitazione.

Fermo restando che, una volta inviata questa autocertificazione, con tutta probabilità scatteranno controlli al limite del poliziesco, i contribuenti distratti che non si ricorderanno di inviare la comunicazione entro i termini resteranno fregati: non potranno più farlo. Ragion per cui, se si vedessero arrivare l’avviso di accertamento per il mancato pagamento del canone Rai, non potranno più impugnarlo e dovranno pagare.

In questo modo, i contribuenti non potranno esercitare il proprio diritto di difesa costituzionale, poiché non vi sono possibilità di opporsi alle sanzioni per omesso versamento del canone Rai.

Ma c’è di più: la sanzione penale per chi comunica di non possedere un televisore mentre invece ce l’ha. Una sanzione penale che si somma a quella prevista per l’evasione fiscale, pari a 5 volte il canone Rai. C’è però un trucco che mette al riparo da sanzioni e processi.

La normativa sul canone Rai non vieta di comunicare che, ad una determinata data, non si possiede alcun televisore mentre, qualche tempo dopo, lo si acquista. In questo caso, di fatto, l’autocertificazione non è mendace e si possono evitare ulteriori accertamenti per il pagamento del canone Rai. Nel caso ve ne fossero, basta conservare lo scontrino di acquisto dell’apparecchio.

Allo stesso modo, qualcuno potrebbe dare in comodato d’uso o donare a parenti e amici il proprio televisore il giorno prima di inviare l’autodichiarazione, salvo poi farsela restituire dopo l’invio. Una procedura resa possibile dal fatto che, nel caso di beni mobili, è possibile trasferirne la proprietà per via orale, senza bisogno di atti notarili, così come accade per lo spostamento della detenzione di un bene su un altro soggetto. In questo modo non si pagherebbe il canone Rai.

Per mettersi al riparo dalle pretese del Fisco ladro, in questo caso è bene avere un documento con una data certa che si riferisca al giorno dell’alienazione del bene. Per esempio, il timbro di qualsiasi ufficio postale sul contratto spedito a uno dei due contraenti del contratto di cessione. E voilà, il canone Rai è aggirato.

Tasse giù? Non proprio

Secondo uno studio della Uil, le tasse locali tra il 2013 e il 2015 non sono calate come sostenuto dal governo, anzi, sono aumentate. In valori assoluti, tra addizionali regionali e comunali Irpef, Imu, Tasi, tariffa rifiuti, nel 2015 le entrate degli enti locali sono cresciute di 7 miliardi rispetto a due anni prima.

Canone Rai in bolletta? Incostituzionale

Perché il canone Rai è uno dei balzelli più odiati dagli italiani? Forse perché è anacronistico e anticoncorrenziale, o perché a detta di molti non vale la qualità del servizio che la televisione pubblica offre. Di sicuro perché il canone Rai è quantomeno contradditorio.

Il paragone con quanto accade negli altri Paesi europei era già impietoso prima che al governo venisse l’idea di riscuotere il canone Rai in bolletta, primo e unico caso nel continente. È pur vero che livelli di evasione del canone televisivo pari a quelli che si registrano da noi non ci sono altrove, ma come scusa non basta.

Non basta soprattutto se si pensa che, a differenza di quando il canone Rai fu concepito e nacque, oggi, la tv di Stato si finanzia già per il 46% con la pubblicità. Sempre restando in Europa, all’autorevole Bbc, il cui canone è portato a esempio dai pro-Rai, è vietato fare pubblicità e la tv tedesca Zdf-Adr registra solo un 13% di risorse derivate dall’adv: meno di 1/3 rispetto alla Rai.

Qualche tempo fa, Luca Antonini, professore di diritto costituzionale all’Università di Padova, su Panorama analizzava i punti di debolezza della mossa di far pagare il canone Rai in bolletta. Nello specifico, Antonini sottolineava che il canone è “un’imposta espropriativa, dal momento che chiedere 100 euro ogni anno per un televisore vuol dire che dopo pochi anni di applicazione l’imposta ha totalmente esorbitato, nella normalità dei casi, il valore del bene tassato”. Ineccepibile, visto che nientemeno che la Corte Costituzionale ha stabilito che il canone Rai è un’imposta e non una tariffa per un servizio.

Proprio per quest’ultima ragione, non è legittimo pretendere il pagamento del canone Rai con una bolletta che, per sua natura, copre il costo di un servizio divisibile; estendendo per assurdo la norma, ricorda Antonini, anche i comuni potrebbero chiedere di versare l’Imu nella bolletta elettrica per contrastarne l’evasione.

Perché autocertificare sotto responsabilità penale di non avere un televisore per non pagare il canone Rai se nessuna sanzione penale è prevista per chi non dichiara fino a 50mila euro nell’ambito dell’imponibile Irpef? Se un contribuente pagasse meno del dovuto con le prime rate di luglio e comunicasse alla Rai per iscritto di non essere interessato al servizio pubblico televisivo, chiedendo l’oscuramento del segnale, sarebbe pienamente legittimato a farlo.

Siccome la Rai non accetterebbe questa giustificazione, dalle Entrate arriverebbe in tempo zero un avviso di accertamento che l’utente potrebbe allora impugnare davanti alla Commissione tributaria, a titolo individuale o tramite una class action tributaria, sollevando poi davanti alla Consulta la questione di legittimità costituzionale una volta avviato il giudizio.

In quel caso la Rai rischierebbe grosso. Purtroppo, ciò su cui fa leva la televisione di Stato è il fatto che una simile procedura sarebbe per molti più faticosa che pagare il canone Rai e tacere. Per cui, ancora per un po’ l’avrà vinta, pur essendo in torto costituzionale.

Commercialisti, formazione professionale continua anche per gli over 65

La formazione professionale continua è una ricchezza per tutti i professionisti. Lo sa bene il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili che, con una Nota dell’11 marzo 2016, ha fornito chiarimenti sul regolamento per la formazione professionale continua degli iscritti negli Albi tenuti dagli Ordini dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili.

Nello specifico, il Cndcec ha reso che l’obbligo della formazione professionale è richiesto anche agli iscritti che hanno compiuto i 65 anni o che li compiono nel triennio di erogazione della formazione professionale continua, come riportato nel Regolamento per la Formazione Professionale Continua degli iscritti negli Albi tenuti dagli Ordini dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili in vigore dall’1 gennaio 2016.

Il Cndcec ricorda che l’obbligo di formazione professionale è ridotto a 10 crediti formativi annuali e invita l’Ordine a informare tutti gli iscritti che hanno goduto dell’esonero per età fino al 31 dicembre 2015, che dall’1 gennaio 2016 devono assolvere l’obbligo formativo acquisendo 10 crediti formativi permanenti per l’ultimo anno del triennio in corso e 30 crediti formativi permanenti nei successivi trienni.

Inoltre, l’Ordine ricorda che la violazione dell’obbligo alla formazione professionale ha rilievo disciplinare.