Pmi europee e e-commerce

Se le aziende italiane scontano un certo ritardo nell’approccio all’ e-commerce, ci sono anche altri Paesi europei che non sono degli esempi virtuosi, almeno stando a quanto emerge dall’ultimo report della Commissione Europea Integration of Digital Technology, elaborato su dati Eurostat.

Dal report emerge che nell’Ue a 28 solo un’azienda su 5 è altamente digitalizzata e pronta alla sfida dell’ e-commerce, con l’Irlanda a fare da capofila con il 50% circa delle imprese altamente digitalizzate, la Grecia e la Bulgaria a chiudere la classifica con una impresa su 9 e l’Italia attestata in una poco lusinghiera 21esima posizione. Al top della graduatoria, insieme all’Irlanda, vi sono Danimarca, Svezia, Belgio, Finlandia, Olanda e Germania.

Sul fronte dell’ e-commerce, però, la crescita dell’intera Ue è piuttosto lenta. Sempre secondo i dati del rapporto della Commissione Ue, solo il 16,8% delle aziende europee vende prodotti e servizi online e il tasso di crescita dell’ e-commerce negli ultimi anni non è di certo stato entusiasmante: +3,5% tra il 2010 e il 2015. L’Italia è sotto la media, avendo meno del 15% di aziende che praticano e-commerce.

Un dato, quest’ultimo, da valutare con attenzione specialmente in un Paese come il nostro, la cui spina dorsale produttiva è composta da Pmi. In Europa, solo il 7,5% di loro ha attivo un e-commerce, contro il 23% delle grandi aziende; dato che scende al 5,5% per l’Italia. Preoccupante.

Il report della Commissione Ue prova anche a dare delle risposte al perché di questa particolare situazione che vede una certa diffidenza delle Pmi nei confronti dello strumento e-commerce. In particolare, le Pmi europee e in parte quelle italiane ritengono di vendere prodotti o servizi non adatti all’online; altre pensano che gli investimenti per attivare un e-commerce siano troppo ingenti in rapporto al ritorno economico atteso. Non manca poi chi non dispone di una logistica adeguata, di una piattaforma di pagamento performante o teme per la sicurezza e la protezione dei propri dati.

Insomma, pare che i vincoli a una diffusione capillare del commercio elettronico tra le piccole e medie imprese europee siano più psicologici che pratici. Forse i più difficili da superare…

UniCredit, Ghizzoni saluta

E alla fine si è verificato quello che tutti già sapevano ma che nessuno poteva dire: l’ad di UniCredit, Federico Ghizzoni, ha fatto un passo indietro dando la propria disponibilità all’uscita dal gruppo e dando il via all’avvicendamento ai vertici dell’istituto di piazza Gae Aulenti. Ghizzoni manterrà le proprie deleghe fino alla nomina del successore.

UniCredit ha emanato una nota al termine del cda straordinario, nella quale sottolinea come il consiglio di amministrazione e Ghizzoni hanno constatato che si sono verificate le condizioni per un avvicendamento al vertice del gruppo bancario.

Ecco dunque che Ghizzoni ha dato la propria disponibilità a definire, insieme al presidente di UniCredit, un’ipotesi di accordo per la risoluzione del proprio rapporto con il gruppo, impegnandosi però a mantenere le proprie funzioni fino alla nomina del suo successore, che sarà da lui supportato durante la fase di transizione.

Diversi, finora, i nomi circolati per la successione di Ghizzoni alla guida di UniCredit, anche se ancora un a certezza su chi siederà sulla sua poltrona non c’è. Quello che è certo è che il nuovo si troverà di fronte a diversi scenari e sfide da portare avanti.

UniCredit dovrà infatti muoversi lungo due direzioni principali: dismettere alcune attività, in Italia e all’estero razionalizzare la struttura in Italia, al fine di equilibrare un aumento di capitale che pare non più rimandabile. essere inevitabile.

E non si tratta di bruscolini. Secondo JpMorgan, UniCredit avrebbe bisogno di nuovo capitale fino a 9 miliardi, 5 dei quali potrebbero venire da un aumento vero e proprio e il resto dalla cessione del 45% di Fineco e del 20% di Bank Pekao, la banca polacca di cui UniCredit controlla circa il 50%. Due istituti estremamente in salute e performanti che, con la banca turca Yapi Kredi pesano sull’utile del gruppo per circa il 40%.

Grandi manovre verso le quali i piccoli risparmiatori guardano con attenzione, per evitare possibili colpi di scena che penalizzerebbero, come sempre accade in questi casi, la base della piramide. Mentre il vertice cadrebbe sempre in piedi, atterrando sul soffice materasso di una buonuscita milionaria.

Esenzione Imu terreni agricoli, nuove determinazioni

Ancora un capitolo nella storia infinita dell’ Imu terreni agricoli. Questa volta viene dalla Legge di Stabilità 2016 che, in un articolo, riporta in vigore, ai fini dell’esenzione Imu terreni agricoli, il criterio contenuto già contenuto nella circolare ministeriale 9/1993.

In sostanza, con questo articolo si sancisce che da quest’anno, per determinare i criteri dell’esenzione Imu terreni agricoli che non sono coltivati da coltivatori diretti del fondo o da imprenditori agricoli professionali (Iap), si torna a fare riferimento al dettato della suddetta circolare ministeriale, che stabilisce questa distinzione tra i Comuni:

  • qualora accanto all’indicazione del Comune non vi sia alcuna annotazione, l’esenzione vale sull’intero territorio comunale;
  • qualora accanto all’indicazione del Comune vi sia l’annotazione “parzialmente delimitato”, l’esenzione è limitata a una parte del territorio comunale.

Con il ripristino della vecchia normativa, sono quindi esenti dal 2016 i terreni agricoli che:

  • sono posseduti da coltivatori diretti e Imprenditori agricoli professionali iscritti alla previdenza agricola, a prescindere da dove si trovano i terreni;
  • sono destinati all’agricoltura, alla silvicoltura e all’allevamento di animali in modo immutabile, con proprietà collettiva indivisibile e inusucapibile, indipendentemente dalla qualifica professionale del proprietario e dal fatto che i terreni siano o meno coltivati per usi agricoli o destinati a pascolo per il bestiame;
  • si trovano nelle isole minori.

In sostanza viene accantonata la normativa precedente per l’esenzione Imu terreni agricoli, che utilizzava come criteri quello altimetrico in primis e poi la classificazione territoriale Istat.

E-commerce e vino: si può fare, ma…

Abbiamo visto nei giorni scorsi come in Italia l’ e-commerce, nonostante un trend di crescita incoraggiante, sconti ancora un ritardo importante rispetto ai Paesi europei a lei più vicini, per non parlare dei colossi extra Ue. Abbiamo visto anche come questo ritardo è tanto più colpevole quanto più, come Italia, abbiamo eccellenze uniche da offrire ai mercati di tutto il mondo attraverso l’ e-commerce.

Una di queste eccellenze è il vino, il cui e-commerce, in Italia, è ben poco sviluppato. Una situazione che è ancora più incresciosa quando si leggono notizie come quelle della nascita di eBay Wine, una sezione del colosso mondiale dell’ e-commerce completamente dedicata al vino, con attualmente 10mila vini provenienti da 30 Paesi e oltre 500 regioni, anche italiane.

Ovvio che non si può competere con la potenza tecnologica e di marketing di eBay, ma perché devono arrivare prima gli americani su un business del genere, potendo contare su soldi e tecnologia e non su una vera cultura enologica? Eppure, che l’ e-commerce del vino sia un business potenzialmente infinito per l’Italia, non pare un concetto difficile da intendere. Forse solo da mettere in pratica.

Fatto sta che, nonostante restiamo il terzo Paese al mondo per consumo pro-capite di vino, la vendita online ancora non decolla, a dispetto dei progressi fatti dall’ e-commerce B2C negli ultimi anni.

Stando ai dati dell’Osservatorio e-Commerce B2C del Politecnico di Milano, in Italia la penetrazione dell’online sulla vendita totale di vino al consumatore finale è una tra le più basse al mondo, pari a circa lo 0,2% del mercato totale, per un controvalore di 24 milioni di euro. Un ritardo causato anche dal fatto che uno dei settori dell’ e-commerce meno sviluppati nel nostro Paese è quello del food, che totalizza solo il 2% delle vendite online.

In realtà non è difficile comprendere i perché di questi numeri, che sono molteplici e variegati. Al di la della antica diffidenza degli italiani verso l’ e-commerce, che va comunque via via attenuandosi, c’è da constatare che nel nostro Paese la commercializzazione del vino attraverso enoteche o GDO è talmente capillare che il consumatore finale ha meno difficoltà ad acquistarlo fisicamente anziché ordinarlo online.

Il problema, però, non è tanto stimolare il mercato interno del vino attraverso le vendite online, quanto aprire piattaforme di e-commerce che, dalle singole cantine o dai produttori locali, possano far viaggiare in tutto il mondo le loro pregiate bottiglie. Certo non è facile. Ci vogliono investimenti in tecnologia, in promozione e una logistica che funzioni come un orologio. In cambio, però, l’opportunità di avere il mondo come vetrina per la propria eccellenza italiana può contribuire a ripagare l’investimento anche in breve tempo. È l’ e-commerce, bellezza. Anche per il vino.

Auto green, Italia leader in Europa

Cresce in Italia e in Europa il mercato delle auto ad alimentazione alternativa, le cosiddette AFVs (Alternative Fuel Vehicles), che comprendono le auto elettriche, ibride, a Gpl e metano. Secondo i dati diffusi da Acea, i Paesi dell’Unione europea allargata e dell’EFTA nel 2015 hanno fatto registrare complessivamente oltre 640mila nuove immatricolazioni di veicoli ad alimentazione alternativa (AFVs), +22% rispetto al 2014.

Una quota che ha fatto salire al 4,5% delle immatricolazioni totali di auto nel 2015 il peso delle alternative, rispetto al 4% del 2014. Inoltre, nel primo trimestre 2016 il mercato delle auto ad alimentazione alternativa registra un +10,7%, con oltre 177mila immatricolazioni e una quota del 4,6% sull’intero mercato.

In questo panorama, cresce il peso delle auto elettriche sul totale di quelle ad alimentazione alternativa, passando dal 23,9% del primo trimestre 2015 al 29,7% del primo trimestre 2016, con un incremento in termini di volumi del 37,5%.

Crescono anche le vendite di auto ibride, +29,7%, con una quota del 42,2% (era del 36% un anno fa), mentre il mercato dei veicoli a gas cala di circa il 20% a causa della contrazione delle vendite in Italia (-20,6%), il mercato più consistente delle auto alimentate a GPL e a metano.

A proposito di Italia, il nostro è il Paese europeo, insieme alla Norvegia, nel quale il mercato ad alimentazione alternativa pesa di più: in Norvegia il 51,5% delle nuove auto vendute ha alimentazione alternativa, in Italia il 10,2%. In termini di volumi per la Norvegia si tratta di 19.094 autovetture, per l’Italia di oltre 53mila. Facile immaginare il perché di questo primato: in Norvegia per la grande coscienza ecologica della popolazione, in Italia per sfuggire a un costo irragionevole dei propellenti fossili e fruire degli incentivi legati alla mobilità green.

L’Italia pesa quindi per il 30% di tutti i veicoli ecofriendly immatricolati in UE-Efta nel primo trimestre 2016 (era il 38% a gennaio-marzo 2015), seguita da UK (14,5%), Francia (13,1%), Norvegia (10,8%) e Germania (8%).

Il successo dell’Italia, è dovuto soprattutto al mercato di auto nuove alimentate a Gas (Gpl e metano): l’80% del mercato a trazione alternativa italiano riguarda le auto alimentate a gas, contro una media europea del 28%, che scende al 4% se si esclude l’Italia.

Nelle sfide legate alla sfera ambientale, il punto di forza dell’industria italiana è aver sviluppato soluzioni innovative a basso impatto ambientale per la mobilità sostenibile, a partire da competenze consolidate nei sistemi di alimentazione a metano e a Gpl e nei sistemi di propulsione.

La filiera industriale italiana del metano per autotrazione, ad esempio, è riconosciuta come leader mondiale, rappresentando circa 20mila occupati, 50 Pmi e un fatturato di 1,7 miliardi di euro. Il restante 20% del mercato a trazione alternativa italiano comprende l’1,6% di auto elettriche e il 18,3% di auto ibride.

Il ritardo italiano rispetto al mercato dei veicoli elettrici è dovuto sia alla scarsa diffusione della rete di rifornimento, sia alla minor percentuale di popolazione urbana rispetto agli altri Paesi europei (Italia 68,7%, UK 82,6%, Paesi Bassi 90,5%, Francia 79,5, Germania 75,3 fonte United Nations). La popolazione non urbana, infatti, è meno propensa all’utilizzo di auto ad alimentazione elettrica a causa della loro minore autonomia.

Gli ingegneri e l’Ilva di Taranto

L’Ilva di Taranto è ormai da anni una ferita aperta nel territorio, per sanare la quale politica, istituzioni e professioni provano a fare quello che riescono. Anche gli ingegneri sono in prima fila su questo fronte, come dimostra la conferenza stampa di presentazione del convegno “Ripensare l’industria siderurgica in Italia. Ilva: attualità e prospettive” – previsto a Taranto a metà settembre – che si è tenuta la scorsa settimana nella sede del Consiglio Nazionale degli Ingegneri a Roma.

E la posizione della categoria è chiara, come ha ricordato Armando Zambrano, presidente del Cni, nel suo intervento iniziale: “L’impegno degli ingegneri italiani sul caso Ilva parte da lontano. Oltre al tema della sicurezza, nostro compito istituzionale, già nel 2014 ci eravamo chiesti quale potesse essere il futuro della siderurgia italiana, attraverso una ricerca del nostro Centro Studi. Nel frattempo si sono succeduti tanti decreti salva Ilva che, però, non hanno portato ad alcuna soluzione. A questo proposito vogliamo dire che noi non promuoviamo o sosteniamo alcun orientamento specifico, non propendiamo per una soluzione o l’altra. Ciò che vogliamo fare, una volta che la politica renderà note le proprie scelte, è mettere a disposizione le nostre competenze per operare una verifica oggettiva dei progetti in campo, basata sulla tutela dell’ambiente, della sicurezza e della salute dei cittadini”.

Di Ilva si parla da tanto tempo – ha aggiunto il presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Taranto, Antonio Curri -. Noi ingegneri vogliamo dire la nostra sul tema, avendo tutte le competenze necessarie per farlo”.

È toccato poi al consigliere Cni Angelo Masi, promotore del convegno, aggiungere qualche dato a sostegno dell’evento di settembre: “Dall’indagine effettuata dal nostro Centro Studi risulta che gli ingegneri italiani sono ancora favorevoli alla produzione da parte dell’Ilva, purché vengano offerte tutte le garanzie possibili. A questo punto attendiamo che la politica faccia la sua parte. Una volta esaminati decreti e norme, saremo pronti a dare il nostro contributo tecnico. In questo senso il convegno di settembre sarà un importante momento di confronto”.

Anche il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, ha promosso l’iniziativa degli ingegneri: “Considero il vostro un intervento patriottico. Nel senso che con questo convegno sull’Ilva di Taranto puntate a mettere assieme tutti gli elementi che possano aiutare chi di dovere a prendere una difficile decisione. Senza un approccio tecnico alle questioni non si ottiene nulla. Il quadro a Taranto è complesso. La storia dell’Ilva è drammatica. Intanto pende un processo presso la Corte d’Assise di Taranto che parte dall’ipotesi che i fumi nell’aria abbiano avvelenato la catena alimentare e dove la Regione è parte civile. Poi ci sono le procedure di infrazione delle normative europee. Infine, l’ipotesi che i decreti del Governo sull’Ilva non siano compatibili con la dichiarazione dei diritti dell’uomo. Insomma, siamo di fronte ad una vicenda complicata che necessita di accurate valutazioni tecniche e per quelle servono gli ingegneri”.

L’ e-commerce corre veloce. E l’Italia?

A che punto è l’ e-commerce in Italia? E come sono messe le imprese italiane su questo fronte? Sono solo alcuni quesiti ai quali prova a rispondere con le proprie analisi il Consorzio Netcomm dell’Osservatorio del Politecnico di Milano. E si tratta di risposte in chiaroscuro.

Intanto, secondo Netcomm nel 2016 l’ e-commerce in Italia arriverà a 19,3 miliardi in Italia, con una crescita del 140% in 6 anni, dagli 8 miliardi del 2010 e del 17% rispetto allo scorso anno (+17%).

Sono numeri figli di un’utenza dell’ e-commerce che, al momento, e di circa 20 milioni di persone (18,8) sui circa 30 che utilizzano regolarmente internet. Si tratta di circa il doppio rispetto a 5 anni fa, con un tasso di penetrazione del 61%. Se si pensa che, nel 2014, era al di sotto del 50%, si può ben intuire come, in Italia, l’ e-commerce ha finalmente cominciato a darsi una svegliata.

Questo sotto il profilo di chi acquista. Ma come è messo chi vende, o chi potrebbe vendere? Non benissimo, perché secondo Netcomm il giro d’affari del commercio elettronico in Italia potrebbe anche raddoppiare se, da noi, non ci fossero solo 40mila aziende che vendono online.

Ottimi quindi i margini di crescita, specialmente se si considera che la stima delle esportazioni di beni e servizi attraverso l’ e-commerce parlano di 3,5 miliardi, il 42% dei quali in ambito turistico e il 38% per l’abbigliamento e la moda.

Per quanto riguarda i beni acquistati tramite e-commerce dagli italiani, svettano i servizi turistici (8,5 miliardi), seguiti da elettronica e informatica (2,8 miliardi), prodotti vari (giocattoli, beauty…, 2,2 miliardi), abbigliamento e moda (1,8 miliardi), assicurazioni (1,3 miliardi), altri servizi (0,8 miliardi), food (0,5 miliardi).

Buono anche il trend degli acquisti attraverso e-commerce in mobilità. Quasi un quarto dei volumi (24%) avviene tramite smartphone (15%) e tablet (9%), con un giro d’affari che, per il solo smartphone, vale quasi 3 miliardi 2,8.

Il treno dell’ e-commerce corre veloce e, per le aziende italiane, perderlo e perdere così un mercato vastissimo di potenziali clienti sarebbe da irresponsabili, specialmente in un periodo nel quale il mercato interno è ancora in sofferenza.

Quanto vale l’indotto di Expo 2015

Già a conclusione della manifestazione, il 31 ottobre 2015, era risultato chiaro che Expo 2015, in barba a gufi, scettici e ai professionisti del remare contro era stato un successo per Milano e, in parte, anche per l’Italia. Ora arrivano anche i dati a dimostrarlo.

Sono quelli della ricerca sull’impatto economico di Expo 2015, promossa da Camera di Commercio di Milano e da Expo 2015 S.p.A. e affidata ad un gruppo di ricerca della SDA Bocconi con passate esperienze sul tema, ricerca che è stata aggiornata con i dati a consuntivo dell’evento milanese.

Una ricerca che ha preso avvio nel 2012 con la costruzione di un modello di stima dell’indotto economico generato dall’evento, utilizzato in prima istanza per misurare l’impatto economico di Expo 2015 ex-ante, i cui dati sono stati diffusi a fine 2013. Le analisi sono state ripetute, utilizzando il medesimo modello, sui dati a consuntivo dell’evento Expo 2015 con finalità di monitoraggio ex-post dell’impatto economico dell’evento.

I dati prodotti dal modello di analisi dell’indotto economico, costruito ad hoc per lo studio dell’Esposizione Universale di Milano, mostrano un indotto complessivo dell’evento nel periodo 2012-2020 pari a 31,6 miliardi di euro in termini di produzione aggiuntiva (il “volume d’affari” generato), corrispondente a circa l’1% della produzione nazionale, con un valore aggiunto (il “PIL” dell’evento) pari a 13,9 miliardi e un impatto occupazionale, in termini di unità lavorative equivalenti annue attivate pari a 242.400.

L’indotto economico di Expo 2015 stimato per la Lombardia sul medesimo arco temporale è pari 18,7 miliardi in termini di produzione aggiuntiva, con un valore aggiunto di 8,6 miliardi e un impatto occupazionale di 132mila unità equivalenti annue.

Per Milano, l’indotto economico nel periodo 2012-2020 derivato da Expo 2015, è stimato pari a 16,1 miliardi, con un valore aggiunto di 7,4 miliardi e un impatto occupazionale di 115mila unità di lavoro annue equivalenti.

In termini di distribuzione temporale, il modello ha elaborato un impatto complessivo del volume d’affari attivato nel periodo pre Expo 2015 di 4,2 miliardi e di 9,7 miliardi nell’anno 2015, per un totale di 13,9 miliardi nel periodo complessivo 2012-2015. Il modello stima inoltre un volume d’affari prospettico pari 17,7 miliardi nel periodo 2016-2020, generato dal lascito dell’evento e in larga parte ascrivibile al patrimonio di 10mila nuove imprese nate negli anni su stimolo dell’evento in nuovi settori (in particolare costruzioni, turismo-ristorazione, servizi alle imprese) e dall’incrementata attrattività turistica che potrà muovere un flusso di ritorno di visitatori su tutto il territorio italiano.

Stando ai dati delle elaborazioni del modello, nel periodo pre-evento e nel corso dell’evento è stato attivato un indotto che ha prodotto un PIL pari a circa 6 miliardi, di cui 4,1 miliardi nel solo anno 2015 (pari allo 0,25% del totale del PIL italiano del 2015), di cui il 50% attribuibile alla sola area di Milano.

Il flusso di visitatori dell’evento, contabilizzato in base ai dati della società Expo 2015 S.p.A. in un totale di 21.477.000 ingressi, ha generato, stando alle elaborazioni del modello, un volume d’affari complessivo pari 9,4 miliardi.

I settori merceologici per cui è stimato un maggiore indotto economico da Expo 2015 nel periodo 2012-2020 sono l’industria (con un volume d’affari pari a 9,5 miliardi), i servizi alle imprese (8,3 miliardi), il turismo e la ristorazione (3,6 miliardi), il commercio (2,9 miliardi), le costruzioni (2,7 miliardi), i trasporti e la logistica (2,5 miliardi), i servizi alle persone (1,5 miliardi) e l’agricoltura (0,6 miliardi).

In termini di occupazione indotta, il modello ha stimato un impatto di 31.300 mila occupati (unità lavorative annue) nel periodo pre-evento e di 78mila nell’anno dell’evento, per un totale di quasi 110mila occupati nell’intero periodo 2012-2015. Il modello stima un’occupazione prospettica di oltre 133mila occupati nel periodo post-evento dal 2016-2020, se saranno estratti appieno i benefici economici del lascito di Expo 2015.

Export italiano, i numeri del 2015

L’ export italiano ha vissuto nel 2015 un anno d’oro. Il made in Italy ha fatto registrare un saldo commerciale di 122,4 miliardi di euro lo scorso anno, spinto dai settori dell’automazione meccanica, della moda, del legno arredo e del food and beverage.

Una crescita, quella dell’ export italiano, che ha saputo resistere ai colpi della crisi. Come ha rilevato la Cgia, la progressione del nostro saldo commerciale è stata costante dall’ultimo calo, quello del 2009 a 88,4 miliardi: 92,3 miliardi nel 2010, 103,7 nel 2011, 119,5 nel 2012, 120,2 nel 2013, 122,3 nel 2014, fino ai 122,4 dello scorso anno.

Si diceva dei settori produttivi che maggiormente hanno contribuito allo slancio dell’ export italiano. La meccanica e i macchinari hanno fatto ancora una volta la parte del leone, con un surplus commerciale di circa 50 miliardi.

Al secondo posto, staccatissimo, il settore del tessile-abbigliamento-calzature, che ha contribuito all’ export italiano del 2015 con 17,6 miliardi; ultima piazza del podio occupata dai prodotti in metallo, che valgono 11,1 miliardi.

Seguono i mobili (7,2 miliardi), gli apparecchi elettrici e gli elettrodomestici con 6,5 miliardi, altri materiali non metalliferi quali cemento, vetro, porcellana, refrattari e ceramica a quota 6,4 miliardi.

Negativo l’apporto all’ export italiano di altri settori quali il chimico-farmaceutico, il metallurgico, il settore dei computer. Da segnalare la ripresa, seppur minima ma venuta dopo anni di sprofondo, del settore degli autoveicoli: +290 milioni.

Per quanto riguarda i mercati di sbocco dell’ export italiano nel 2015, in prima fila tra i partner commerciali troviamo la Germania (30,3 miliardi di euro), la Francia (27,7 miliardi), gli Usa (24,6 miliardi), il Regno Unito (14,8 miliardi), la Spagna (11,2 miliardi) e la Svizzera (11 miliardi).

Lo scorso anno, rispetto a un anno prima, c’è stata un’ottima crescita delle vendite negli Emirati Arabi (+15,4%), negli Stati Uniti (+15,2%) e in Spagna (+10%), mentre va segnalato il crollo dell’ export italiano in Russia, -25,2%, a causa delle sanzioni commerciali che hanno colpito il Paese.