CONTROCANTO – Manovra, aumentano l’IVA e la confusione

di Davide PASSONI

E alla fine arrivò. O almeno, dovrebbe essere arrivato. Parliamo dell’aumento di un punto percentuale dell’IVA (dal 20 al 21%) tra le voci che compongono una manovra finanziaria sempre più isterica, sulla quale sarà alla fine posta la fiducia. Il condizionale è d’obbligo, date le retromarce, le discese ardite e le risalite che il governo opera quotidianamente su un testo che cambia minuto dopo minuto. Ne parliamo giusto perché il nostro quotidiano si chiama Infoiva, altrimenti non avrebbe senso stare dietro alle continue modifiche di questa manovra proteiforme; meglio sarebbe commentare il testo una volta licenziato come legge dello Stato.

Ma tant’è. E allora, giusto per completezza d’informazione, ecco le altre novità dell’ultima (o penultima?) ora: abolizione delle Province (per chi ancora crede a Babbo Natale), prelievo del 3% sui redditi alti, a partire dai 300mila euro (non più 90mila secondo la versione ferragostana), ossia il cosiddetto “contributo di solidarietà“; stretta sulla pensione delle donne, con adeguamento dell’età pensionabile di chi opera nel settore privato a quello pubblico dal 2014.

Il tutto con la Merkel che, per la prima volta, ci ha scaricato paragonandoci apertamente ai derelitti greci (potere dell’ennesima stangata elettorale presa in patria); con le agenzie di rating mondiali che caricano l’artiglieria pesante contro l’Italia; con Napolitano (sant’uomo…) che non sa più con che parole invocare responsabilità e coesione; con la stampa internazionale che da giorni demolisce l’immagine della nostra classe politica.

Il tutto nel giorno in cui la Cgil ha scioperato contro la manovra, tuonando contro le misure contenute nell’articolo 8, che prevedono contratti aziendali in deroga a quelli nazionali e alle leggi in materia di licenziamento, intaccando il totem dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. “Irresponsabile”, secondo il segretario nazionale del sindacato Susanna Camusso, la manovra; irresponsabile, secondo molti, lo sciopero in un momento così delicato. Punti di vista. Mentre il baratro si avvicina e corrervi incontro in ordine sparso serve solo a dimenticare che nessuno ha un paracadute.

“Addio Italia, con le chiacchiere non si porta il pane in tavola”

di Davide PASSONI

Dopo la prima parte dell’intervista a Laura Costato, ecco il prosieguo.

Ce la fate ad andare in Svizzera prima che accada quello che secondo lei sarà l’irreparabile?
No, siamo un’azienda piccola e pensare di fare un salto del genere in poco tempo non è credibile. Per questo parte il progetto di un consorzio etico gestionale, per il quale manderò degli inviti alle aziende che mi hanno scritto per informazioni e illustrarlo loro; un consorzio che non produce utili, serve solo a gestire tutto quello che è il back office ma rimarrà composto da soggetti giuridici separati.

Vantaggi?
Uno per tutti: se io vado a trattare una linea di credito per un pacchetto di aziende che muovono 10-15 milioni di fatturato, otterrò senz’altro delle condizioni più favorevoli che non se andasse la Costato Srl che ne muove 1. Il progetto nasce dall’esigenza di approcciare il sistema economico svizzero con una forza diversa che la piccola azienda non ha; per cui anche tutte quelle figure professionali che il piccolo imprenditore non può avere (marketing, controllo di gestione…) possono, con il consorzio, diventare organiche a esso.

Di quante aziende parliamo?
Quando parlo di consorzio parlo di 8-12 aziende, non di più; un progetto che può essere replicabile N volte ma di fatto abbastanza chiuso. spero di riuscire a farlo con aziende compatibili tra loro, in modo da poter creare una filiera: insomma, non lasciare nulla al caso, perché muoversi da qui va fatto con grande coscienza, quando si fa un salto del genere si rischia di chiudere delle porte, trovarsi di fronte a un cancello sbarrato e restare intrappolati nel mezzo. Quello che è certo è che in Italia non ci voglio restare, non solo per una questione professionale ma anche personale: non mi riconosco più nell’italiano né nella politica che lo governa. Non vedo proposte mirate: vedo una maggioranza che distoglie l’attenzione dai veri problemi creando scandali paralleli e un’opposizione che passa il tempo a criticare questi scandali. Per parte mia non si tratta di essere ottimisti o pessimisti, ma realisti.

Quindi le IMPRESECHERESISTONO… non resistono?
Io sono una parte che non resiste, perché non mi posso permettere di resistere. Per me resistere significa sopravvivere e trovare un modo di creare quella continuità aziendale che qui non è più possibile ottenere e garantire un futuro alla mia famiglia che fa questo lavoro da 50 anni, ai miei figli e ai miei dipendenti. Sopravvivere a queste condizioni significa mettere a rischio tutto quello che si è creato in 50 anni di lavoro; io non ho mai avuto paura delle banche, delle istituzioni o delle risposte che non ho avuto: il mio incubo è quello di dire alle mie persone di stare a casa. A queste condizioni, non volendo lasciarle a casa, io posso vivacchiare ancora due anni al massimo, il mio piano industriale è chiaro. Voglio fortemente andar via prima dell’irreparabile, che vedo molto vicino non solo per la mia azienda ma per l’intero sistema.

Quanti siete oggi in IMPRESECHERESISTONO?
Prima dell’uscita di questi servizi eravamo 1300 circa, ora siamo quasi 2000. La cosa triste è che non contiamo nulla; tra tutti muoviamo il doppio dei dipendenti che muove Fiat ma di noi non importa niente a nessuno.

E siete nati?
A maggio 2009.

Triste pensare che non siate riusciti a muovere nulla finora…
Nulla! Siamo partiti con delle richieste che al governo non sarebbero costate nulla se fatte limpidamente: la deducibilità Irap, l’Iva per cassa per aiutarci nella liquidità, la moratoria dei debiti fiscali, garantire la certezza dei pagamenti su media europea… Niente. E poi assistiamo a operazioni come quelle dello scudo fiscale, che fa pagare per capitali che, a mio avviso, non sono nemmeno rientrati: chi ha l’occhio lungo paga ma i capitali li lascia all’estero, non li riporta in Italia. Se io vado il banca a chiedere dei soldi devo pagare il 12% di interessi mentre queste persone che hanno evaso, hanno creato un danno al Paese, si rifinanziano pagando un 5% facendo concorrenza sleale alle aziende oneste. E se io non pago l’Iva, pago il 3% più le sanzioni il mese dopo? E’ un sistema che premia l’illegalità. E io tutti questi aiuti alle Pmi, ribadisco, non li ho visti, gli aiuti sventolati sono stati rivolti alle aziende con fatturato da 10 a 100 milioni di euro, non certo alle micro e piccole aziende che sono il 96% del tessuto economico italiano. Per me è diventato un malessere non tanto il lavorare in se stesso quanto il vivere in questo sistema.

Ha superato la fase del dispiacere di andarsene?
Io non ho dispiacere. Mio fratello e mia madre sì, io no. Facevo fatica ad accettare l’idea di trasferire l’azienda in altre realtà tipo quelle dei Paesi dell’Est, senza nulla togliere a questi ultimi, ma non mi vedo a vivere là con i miei tre bimbi piccoli. In Svizzera ci sono scuole ottime e servizi eccellenti, in svizzera mi hanno fatto sentire benvenuta. Mi hanno detto che gli svizzeri sono spocchiosi, che guardano gli italiani dall’alto in basso… ma a me non importa, io so che con le chiacchiere il pane in tavola non lo porto e qui di chiacchiere se ne sono fatte già fin troppe.

Qualcuno però avrà anche detto che la loro fiscalità da noi ce la sogniamo…
Perché il nostro sistema fiscale è profondamente ingiusto. Se io lavoro 12 ore al giorno per guadagnare 100 e 70 e rotti li devo dare allo Stato, in questo modo mi si toglie la possibilità di crescere. E poi mi si accusa di non fare innovazione. Con che soldi? Qui si vive nel controsenso, nell’aria fritta, nella chiacchiera. Tutte cose che non portano il pane in tavola. E purtroppo mi rendo conto che, sempre più, la politica è lo specchio dell’italiano medio: è anche per questo che me ne vado.

Reazioni alla sua scelta?
Da quando sono comparsa sulla stampa o in tv, nelle mail o sul nostro blog nessuno, e dico nessuno, mi ha mai rimproverato di andarmene. Mi aspettavo qualcuno che dicesse cose del tipo “hai guadagnato qui e ora te ne vai a goderti i soldi in Svizzera“, oppure “io non scappo perché sono italiano e amo l’Italia“… niente. E questo è sintomatico. Ma quando qualcuno mi scrive “ammiro il suo coraggio“, non ci siamo. Se ancora oggi il fatto di mettere la propria faccia per denunciare quello che non va è definito coraggio, vuol dire che alla base non c’è speranza.

Suo padre, che ha fondato l’azienda, sarebbe andato in Svizzera?
Per come lo conoscevo, no. Forse avrebbe delocalizzato all’Est, ma non avrebbe lasciato l’Italia.

“In Italia nessun futuro per me né per la mia impresa”

di Davide PASSONI

Laura Costato è una bella signora di 45 anni. Una imprenditrice fiera del proprio lavoro e determinata a svolgerlo nel miglior modo possibile. Per questo ha deciso che l’Italia non è più il Paese per lei; dopo essere stata tra le fondatrici del network IMPRESECHERESISTONO e aver lottato per quasi 2 anni contro i muri di gomma della burocrazia, della mala politica e del Fisco, Laura ha deciso di dire basta e di attrezzarsi per trasferire produzione, fabbrica e famiglia in Svizzera. Una storia dura, pesante, che lei stessa racconta a Infoiva in questa lunga intervista, senza peli sulla lingua. Leggetela d’un fiato e riflettete: questa è solo la prima parte, ecco la seconda.

Perché siamo arrivati a questo punto, al punto di dire “basta, chiudo, trasferisco l’attività in Svizzera”?
Alla base c’è la stanchezza di dover lottare quotidianamente per poter fare il mio lavoro e dover lottare in un Paese in cui non c’è nulla che fino ad oggi sia stato programmato per dare sostegno alle difficoltà che incontriamo come Pmi. Tutto quello che è stato pubblicizzato finora, dalla moratoria dei debiti ai fondi messi a disposizione per le Pmi e le microaziende non ci hanno in realtà portato nulla. La stanchezza nasce da qui e dal fatto che, come IMPRESECHERESISTONO, chiediamo da 20 mesi le stesse cose e non abbiamo avuto una risposta in senso positivo né negativo: un silenzio che, a mio parere, è ancora più grave che aver ricevuto una risposta negativa. Si fa passare tutto coperto da una sorta di invisibilità: noi siamo quelli che pagano, che devono stare zitti e andare avanti da soli, in un modo o nell’altro. Io non vedo futuro. Dubito che ci sia un progetto per le Pmi ma che ci siano solo la volontà di non fare nulla o l’incapacità di fare qualcosa; ci dicessero almeno che come target non interessiamo, invece di aspettare e continuare a pagare nel silenzio fino al fallimento totale: chiuderemmo e ciascuno farebbe le proprie scelte.

Chi non risponde?
Non rispondono le banche, le istituzioni, la politica, non risponde nessuno. Da tutte le porte a cui bussiamo come IMPRESECHERESISTONO non arriva risposta. Come network siamo apartitico, dialoghiamo con tutti quelli che si mettono a disposizione, ma purtroppo in Italia c’è una politica a breve termine che è quella del sondaggio: si fanno le cose perché si vuole avere il sondaggio favorevole, ma di politiche a medio e lungo termine non se ne vedono, in nessun campo. Il rovescio della medaglia è che, denunciando queste cose e parlando di Svizzera, ogni volta che esce un articolo, una notizia, un servizio alla tv io sono subissata di mail di aziende che vogliono scappare ma soprattutto di dipendenti senza lavoro o a rischio che mi scrivono “portami con te in Svizzera“. Da tutta Italia. E’ un disagio che non sentiamo solo noi imprenditori, perché oggi la gente ha fame e da questo immobilismo nasce la sfiducia, oltre che da questa politica che si gioca il tutto per tutto per avere un punto in più di sondaggio.

In quanti siete oggi nella sua azienda, la Costato Srl?
Siamo 4 dipendenti e 4 amministratori-lavoratori. Non siamo mai stati un’azienda con enormi possibilità di crescita, in quanto operiamo in un settore di nicchia: vogliamo lavorare e vivere del nostro lavoro in maniera un po’ più dignitosa.

Che mercati avete, o meglio, avevate?
Principalmente l’Italia; avevamo clienti come Piaggio, Candy, Zerowatt, De Longhi, Bosch: tutti spariti o hanno le sedi fuori Italia, qui tendono a tenere quel poco di logistica che serve il mercato locale.

La globalizzazione è dunque davvero un grande dito dietro cui nascondersi per non vedere la vera origine di certi problemi?
Per conto mio sì, perché è un fenomeno che tocca ogni Paese e ciascuno la affronta alla propria maniera. Tanti Paesi almeno ci provano, l’Italia no. Anche in Svizzera c’è crisi, ma la qualità di un Paese si vede dalle misure che mette in campo per fronteggiarla: da noi semplicemente si scantona, si finge di credere che domani le cose cambieranno.

Perché proprio la Svizzera?
Vede, quello che a me attrae della Svizzera è sì la disoccupazione bassa, al 3%, ma anche il fatto che hanno ridotto il debito pubblico con delle politiche mirate e ora cercano di portarsi in casa quelle che loro chiamano produzioni di eccellenza, ma che sostanzialmente sono quelle che fanno stare sul mercato; noi di eccellenza non abbiamo nulla, a parte la capacità di realizzare qualsiasi prodotto nella viteria, che è un know-how che in Italia pochi hanno. Non siamo certo noi che portando quattro dipendenti in Svizzera ne possiamo cambiare le sorti economiche, e come noi tante altre aziende. Loro però si stanno muovendo prima per evitare che, da qui a 10 anni, i giovani svizzeri non abbiano lavoro. Qui invece si fa il contrario: si mandano via o si fanno chiudere le aziende che sono la vera ricchezza del Paese, anche perché sono quelle che pagano.

Le Pmi…
Per quanto possa sembrare antipatico quello che dico, le grandi aziende bene o male chiudono sempre in perdita, pagano un quarto delle tasse che paga la piccola azienda, cadono sempre in piedi e nessuno si chiede mai perché. Non voglio entrare troppo in questo ambito, ma di fatto il portafoglio dell’Italia siamo noi e chi sta nel Palazzo sta chiudendo questo portafoglio, per rappezzare sistematicamente dei buchi di bilancio. Stanno facendo morire il nostro tessuto economico per mettere una pezza a danni creati da loro, ma la coperta è corta. Da qui nasce l’idea di dire, sinceramente, non ci sto, non ci sto. Non credo alle fandonie che si raccontano da due anni a questa parte, che la crisi non è una crisi eccetera. Questa non è una crisi ma un cambiamento di mercato, non è una cosa che si risolve nel medio periodo, per cui si parla di almeno 10-15 anni. se pensano che aziende come la mia possano sopravvivere 10-15 anni con la prospettiva comunque di alzare la tassazione si sbagliano.

Perché?
Faccio un esempio. La moratoria dei debiti delle Pmi è stata sventolata come la panacea di tutti i mali e si è risolta in un anno di interessi non dovuti alle banche che, d’altra parte, hanno già guadagnato; la moratoria è scaduta e ora ci ritroviamo a dover pagare le rate intere in una situazione economica invariata se non peggiorata e in più scopriamo che dobbiamo pagare le imposte di registro anticipate al 31 marzo. Che significa? Che di fronte alla prospettiva di un fallimento di massa lo Stato vuole fare cassa fin che può. Non c’è più logica in quello che si sta facendo. Se uno ha memoria, questi sono gli stessi passi che sono stati fatti in Argentina: salviamo le assicurazioni, salviamo le banche, le aziende morivano e c’è stato il crac. Bisogna capire quando questo crac arriverà: secondo me il Paese non ce la fa a reggere fino alla fine del 2011.

Imprenditori per necessità: servono davvero?

di Davide PASSONI

Che ogni crisi porti in sé anche delle opportunità non è solo un modo di dire. Se ne ha dimostrazione anche durante questi anni di magra, quando, a fronte di tanti pessimisti che si limitano a piangersi addosso e sperano in una rapida fine della recessione senza cercare idee per fronteggiarla, ci sono, per fortuna, persone sveglie e volenterose che si rimboccano le maniche e stabiliscono che, crisi o non crisi, il business deve crescere. O, almeno, deve provare a farlo.

Lo dimostra una recente indagine del Centro studi di Unioncamere, condotta su un campione di 5.200 imprese attive nate nel 2010 per le quali è possibile identificare il settore di appartenenza: un campione rappresentativo delle oltre 213mila “vere” nuove imprese iscritte nel corso dell’anno. Dalla ricerca emerge infatti che tra coloro che nel 2010 hanno deciso di fondare, da titolari o da soci di maggioranza, una nuova azienda, rischiando in prima persona e investendo proprie risorse economiche, più di un terzo (34%) lo ha fatto perché impossibilitato a trovare un impiego stabile o per lasciarsi alle spalle l’incertezza del precedente contesto occupazionale. Circa 1800 persone prematuramente estromesse dal mercato del lavoro, o che lo stesso mercato non ha voluto saperne di assorbire, hanno deciso di fare da sé, di mettere sul piatto la propria esperienza, professionalità o buona volontà e fare impresa.

C’è poi un 52% di persone che ha aperto un’attività facendo tesoro dell’esperienza acquisita, perché consapevole delle proprie capacità o convinto di avere una idea di business innovativa, perché insoddisfatto dell’attività svolta in precedenza o desideroso di affermarsi professionalmente e personalmente.

Una notizia buona, ma che dà lo spunto per fare alcune riflessioni su quello che, nel nostro Paese, è ancora oggi il concetto di cultura imprenditoriale. Se, infatti, quel 52% ha tutto sommato fondato la propria scelta sulla consapevolezza di ciò che significa fare impresa, vuoi per la propria storia professionale, vuoi per “fame” di affermazione, non possiamo essere certi del fatto che chi si è messo in proprio perché non aveva alternative lo abbia fatto con altrettanta consapevolezza o know-how da spendere. Una decisione che, se presa alla leggera come unica alternativa alla disoccupazione, potrebbe avere una duplice, pesante ricaduta; da una parte sul neoimprenditore il quale, incapace magari di differenziarsi sul mercato, senza una visione a lungo termine e orientato a un approccio del tipo “intanto incasso quattro soldi, mi sistemo e poi vediamo come sviluppare il business”, si ritroverebbe a breve con un lavoro sì, ma che non gli porta nulla, anzi, con l’aggravante di aver investito capitali propri senza un ritorno; dall’altro sul sistema delle imprese, per il quale ogni fallimento, piccolo o grande che sia, rappresenta un costo e quindi un ulteriore ostacolo sul cammino di una ripresa difficile.

Certo, idee di business vincenti e solide ci saranno sicuramente, così come ci saranno imprenditori svegli e capaci: non tutti i rappresentanti di quel 34% sono destinati a implodere, ci mancherebbe… Ma non possiamo escludere che una parte di loro lo farà. È il ciclo di vita delle imprese, si dirà; il mercato è giudice e carnefice, si dirà; e ancora si dirà che una percentuale di fallimenti è fisiologica, nulla di strano. Viene però da chiedersi se, con la prospettiva di dinamiche simili, il nostro sistema produttivo, fondato per il 95% su realtà medio piccole, abbia bisogno di imprenditori poco consapevoli in un momento in cui il mercato, dove ancora c’è, è già selettivo di suo ed è ancora più carogna con chi vi entra a cuor leggero.

La crisi morde, la crisi passerà. Attenzione però ad affrontarla con gli strumenti giusti, altrimenti le opportunità che porta con sé, anziché diventare occasioni per rialzare la testa, saranno ulteriori armi di cui disporrà per sparare ad alzo zero su un tessuto economico e produttivo già boccheggiante.

Intervista a Ivan Guizzardi, segretario nazionale FeLSA-Cisl

di Davide PASSONI

Controcanto torna con una intervista e, dopo la politica, ora tocca al mondo sindacale. Non sbuffate e mettete via per un attimo i preconcetti. Del resto, i lettori affezionati di Infoiva lo sanno: la nostra testata non è mai stata particolarmente tenera con i sindacati, specialmente con quanti, nel 2011, sposano concezioni anacronistiche del mondo del lavoro e difendono privilegi ormai indifendibili.

Eppure, nei rapporti tra mondo sindacale e libere professioni, qualcosa si muove e dà vita a realtà che guardano con più attenzione all’universo delle partite IVA, forzate o convinte che siano. È il caso di FeLSA-Cisl, che dà voce a somministrati, collaborazioni coordinate, partite iva e lavoratori autonomi. Abbiamo sentito il segretario nazionale Ivan Guizzardi e ci siamo fatti spiegare se e perché può essere virtuosa una collaborazione tra sindacato e partitivisti.

Partiamo da un dato di fatto: i lavoratori a partita IVA si sentono scarsamente rappresentati dai sindacati tradizionali. Perché questo, a suo avviso, e che cosa può dire a questo proposito FeLSA-Cisl?
La Cisl tutela da una dozzina d’anni il lavoro atipico e da una ventina circa i lavoratori autonomi, con una particolarità nella sua azione che nasce dalla cultura, propria di questo sindacato, di tutelare il lavoro in tutte le sue forme, non solo quello dipendente: a noi interessano la rappresentanza e le tutele del mondo del lavoro, è l’elemento cardine su cui ci muoviamo. Detto questo, la sua domanda è pertinente. Non c’è dubbio che la forza e gli interessi dei sindacati coincidono in larga misura, se non nella loro totalità, con quanto deriva loro dal lavoro dipendente. Il passaggio importante è avvenuto una dozzina di anni fa quando, di fronte al crescente fenomeno delle collaborazioni e delle somministrazioni, il sindacato si è reso conto che doveva cominciare a misurarsi con esso e non ne poteva prescindere, che doveva misurarsi con esigenze e bisogni caratterizzati da una tipologia e da una natura nuove. Infatti, i professionisti, nella loro particolarità, hanno esigenze e richieste che c’entrano in pieno con il mondo del lavoro.

E dunque, che fa il sindacato?
Oggi il sindacato è ancora poco rappresentativo nel campo del lavoro autonomo; la Cisl è stata la prima a occuparsene perché ne ha fatto una categoria, una federazione. Se si tiene conto che nella Cisl le federazioni hanno piena titolarità, aver riconosciuto questo è come aver dato dignità alla categoria. Anche gli altri sindacati si stanno ponendo di fronte all’esigenza di rappresentare questo mondo e tutti ci rendiamo conto di non poter trasferire su collaboratori e professionisti una concezione che applichiamo al lavoro dipendente, perché se è vero che molti professionisti lavorano a partita IVA perché obbligati a farlo, è pur vero che moltissimi hanno scelto liberamente di farlo. Io dico che hanno fatto uno scambio tra maggior tutela e maggior rappresentanza con maggiore libertà.

Non devono certo essere “puniti” per questo…
No, certo. C’è gente “subisce” la partita IVA perché non trova la possibilità di un lavoro dipendente e chi invece, tra le altre cose, la sceglie per non dover dipendere dai ritmi e dai diktat di qualcuno: è una scelta che rispettiamo e che pensiamo meriti delle tutele, le quali hanno una loro particolarità ma non sono certo di serie B. Si tratta di accompagnare questa intrapresa personale, che è importante per chi la fa e per l’economia del Paese.

Che cosa cambiare quindi, per introdurre le tutele di cui parla?
Nel mondo delle libere professioni c’è oggi un certo fermento, specialmente intorno a determinati aspetti fiscali, alla mancanza di ammortizzatori sociali ecc… Alcune tutele sono state introdotte e rafforzate dalla legge Biagi, valga per tutti il versamento previdenziale che all’inizio, quando era al 10%, era percepito quasi come una tassa mentre oggi, col versamento del 26,80%, il delta con quello che caratterizza il lavoro dipendente, al 33%, non è più così esagerato. Alla luce di questo, come sindacato riteniamo innanzitutto che, pur nella diversità di tipologia professionale e di scelte di lavoro, il trattamento previdenziale per professionisti e dipendenti debba essere lo stesso. Poi, come secondo punto, si devono rafforzare le tutele. Per esempio, non tutti sanno che all’interno di questo 26,80% c’è uno 0,50% che va in prestazioni e che attualmente dà diritto ad assegni familiari, a una diaria per prestazioni sanitarie e all’assegno di maternità. Noi sosteniamo che questo 0,50% debba essere rafforzato per consolidare il fondo previsto in Finanziaria a tutela di chi ha perso il lavoro e per investire in formazione, fondamentale per questa tipologia di lavoratori. Inoltre, questi soldi devono essere gestiti non dall’Inps ma da un fondo: finché li gestisce l’Inps ha un unico interesse, quello di fare cassa, e l’ente non fa conoscere le prestazioni o quantomeno ne rende difficile l’accessibilità. Ultimo punto, bisogna pensare a forme di previdenza integrativa anche per questo tipo di lavoratori. Su tutto questo FeLSA sta proponendo e approfondendo un ragionamento articolato.

Con quali strumenti e in che sedi?
Quelli di cui ho appena parlato saranno alcuni dei punti che inseriremo nel nostro programma quando discuteremo dello statuto dei lavori; come Cisl vorremmo che queste e altre tutele diventino operative presto. Noi pensiamo che non ci sia un sindacato che deve dire al professionista di che cosa ha bisogno, ma che il professionista, con altri professionisti, costruisca insieme al sindacato gli strumenti a tutela dei propri interessi e dei propri bisogni. Questa è la modalità con cui ci muoviamo. Non a caso, se fino a oggi la Cisl aveva lavoratori iscritti nelle diverse categorie professionali, ora li iscrive direttamente come singoli, in modo da poter costruire con loro queste tutele.

Vi confrontate con gli altri sindacati su queste tematiche?
Sì, ci confrontiamo. Naturalmente Cgil, Cisl e Uil rappresentano di più il lavoro dipendente, ma anche Uil ha recentemente dato vita a UIL Temp.@ per somministrati, atipici e lavoratori autonomi, così come con FeLSA. Con Cgil c’è ancora una distinzione, visto che non ha idea di rappresentare i professionisti direttamente. La nostra posizione è quella di fare degli accordi quadro in cui stabilire alcuni elementi minimali, dal compenso al tipo di prestazioni, inserendo alcune tutele in base alla diverse professionalità. Come sindacato portiamo avanti quest’opera utilizzando il nostro strumento principe, la contrattazione, con gli accordi da un lato e la costitutizone di tavoli con il governo dall’altro.

Che messaggio si sente di lanciare ai partitivisti che leggono Infoiva, che spaziano dal parrucchiere al piccolo imprenditore?
In un mondo in cui i rapporti di lavoro non sono più determinati dall’autorità ma da un concetto di lavoro di partecipazione, i lavoratori autonomi e i professionisti hanno piena dignità e hanno molto da dire in termini di propositività: si tratta di mettersi assieme per affermare che certe esigenze non possono che essere costruite in un percorso comune. Il sindacato non è l’unico interlocutore, ma voglio dire ai professionisti non ci devono sentire come un avversario: nel mondo del lavoro attuale il concetto di lavoro dipendente contrapposto alle libere professioni non ha alcun senso e il sindacato si propone per tutelare entrambe le forme. In una logica in cui il lavoro ha una dignità in se stesso, nell’uomo che lo intraprende e in ciò che vuole costruire, quest’uomo ha un interesse che lo accomuna ad altri uomini: ciò che serve è creare delle realtà che sappiano accompagnarlo in questo percorso lavorativo. Si raggiunge un peso non tanto per quanti si è in una determinata categoria, quanto per la capacità di esercitare un diritto e incanalarlo rispetto a bisogni ed esigenze comuni.

FOTO: http://www.cislvicenza.it/

Intervista all’on. Raffaello Vignali, promotore dello “Statuto delle imprese”

di Davide PASSONI

Questa settimana, per la prima volta, la rubrica Controcanto ospita una intervista. Fatevene una ragione: al direttore piace scrivere, piace parlare, piace dire la propria, ma a volte lascia agli altri questo compito, specialmente se ciò che hanno da raccontare è di qualche interesse per voi lettori.

Dopo la lettera-verità della scorsa settimana, con lo sfogo amaro di una professionista vittima di uno squallido subordinato, oggi tocca a un politico. Non storcete il naso, dai: a volte la politica italiana sa offrire qualcosa di molto diverso dal teatrino degli ultimi mesi, culminato con la grand soirée del 14 dicembre sul palcoscenico di Montecitorio. E lo offre anche nel campo dell’economia e del sostegno alle Pmi. La voce che ascoltiamo è di un esponente del Pdl che proprio alle Pmi ha sempre guardato con estrema attenzione, l’on. Raffaello Vignali.

A tutti coloro che sono pronti ad alzare il ditino lo dico e lo ripeto subito: Infoiva non ha colore politico e il fatto che oggi parli sulle sue pagine un esponente dell’attuale “maggioranza” (mi si passino le virgolette…) è perché, come avete letto qualche riga più su, ha da dire cose di un certo interesse per chi legge. Anche all’opposizione ci sono proposte e idee valide per sostenere e rilanciare il nostro tessuto produttivo ed economico; ascolteremo anche loro, senza dubbio, perché quello che ci interessa è l’Italia che produce e che propone, non quella che chiacchiera, e questa Italia c’è anche da una parte all’altra del nostro arco costituzionale. Noi abbiamo messo da parte i pregiudizi: fatelo anche voi e ascoltate senza filtri tutti coloro ai quali Infoiva vorrà dare voce. Oggi tocca all’on. Vignali.

Data l’attenzione che da sempre rivolge al mondo delle PMI, quali sono secondo lei gli ambiti su cui intervenire più urgentemente per “liberare” le imprese italiane e ridare loro slancio e competitività? Fiscalità, accesso al credito, costo del lavoro o che altro?
La prima condizione è un cambiamento culturale: passare dal sospetto alla fiducia verso chi fa impresa. Se si parte dal sospetto vengono posti migliaia di lacci e laccioli e pure tasse. Partendo dalla consapevolezza che chi fa impresa costruisce il bene per tutti, le cose cambiano. Detto questo, le prime cose che chiedono le imprese, soprattutto le piccole, non sono gli incentivi ma, piuttosto, semplificazione e tutela. Semplificazione: ovvero le norme che servono, e non una di più, tempi certi nella risposta da parte della PA e norme a misura di impresa (non pensate sulla taglia delle grandi aziende). Tutela significa difendere chi produce rispettando le norme. La Camera di Commercio di Milano stima in 10 miliardi di euro all’anno il mercato della contraffazione per la sola Lombardia. Il contrasto a questo fenomeno può farlo solo lo Stato. Nei prossimi giorni il Ministro Romani insedierà il Consiglio Nazionale Anti Contraffazione e chiederà ai nove Ministeri coinvolti – e ai soggetti che da loro dipendono – di intensificare il contrasto a questo fenomeno, utilizzando tutti gli strumenti a nostra disposizione. Anche a Bruxelles stiamo lavorando per approvare il regolamento “made in” che prevede l’obbligo di tracciabilità per tutte le merci che vengono importate in Europa. Poi speriamo che le condizioni dell’economia ci consentano di abbassare le tasse, perché abbiamo bisogno di lasciare più risorse nelle imprese per gli investimenti.

Quali sono le proposte e le iniziative che lei ha elaborato durante la sua esperienza parlamentare a sostegno delle imprese e dell’imprenditorialità?
In questi due anni ho lavorato su questi aspetti, sia intervenendo sui disegni di legge che passavano al Parlamento, sia con le proposte di legge per “l’impresa in un click” e – soprattutto – con quella che porta un titolo significativo “Norme per la tutela della libertà d’impresa. Statuto delle imprese”, che nelle prossime settimane approderà in Aula a Montecitorio. Lo Statuto allarga i principi dello Small Business Act dell’Unione Europea e li trasforma in diritti per le imprese.

Per l’economia italiana è più dannosa la crisi globale dalla quale ancora stenta a uscire o l’incertezza del quadro politico nazionale? Perché?
La cosa più dannosa è quella denunciata poco tempo fa da Giuseppe De Rita in occasione della presentazione del rapporto del Censis, ovvero la mancanza di desiderio, che riguarda tutto il Paese. Il desiderio è come la scintilla con cui si accende il motore, perché è ciò che rende protagonisti, che permette di rischiare per costruire. L’opposto del desiderio sono la sazietà e la mancanza di speranza. Nella mia regione, la Lombardia, in questi mesi sono più le imprese che hanno chiuso per mancata successione di quelle che hanno chiuso per la crisi… Quanto alla politica, il rischio che vedo è quello dell’astrazione, la separazione dalla realtà; se si è astratti non vengono assunte responsabilità, si segue solo il consenso immediato, cioè le mode. Di fronte alle sfide che abbiamo davanti, servirebbe invece responsabilità come sta chiedendo, inascoltato, il Presidente Berlusconi. Anche i media non aiutano, presentando solo il negativo, la rissa o un Paese visto morbosamente dal buco della serratura. Aspetto da anni di vedere raccontata in prima serata Rai una piccola impresa che innova, che va all’estero, che non licenzia, che resiste. Eppure sono la stragrande maggioranza, sono milioni…

Secondo lei c’è un Paese in Europa, oggi, al quale possiamo guardare come modello virtuoso per la gestione della fiscalità? Se sì, qual è? Se no, perché non ce ne sono?
A me piace il sistema fiscale irlandese, che prevede una tassazione flat al 12,5 per cento. Anni fa era al 50 per cento e quando hanno abbassato le tasse, nei tre anni successivi il gettito fiscale è triplicato. La crisi dell’Irlanda non è imputabile al sistema fiscale, ma alla trappola della finanza creativa. Nei giorni scorsi abbiamo visto tutti il braccio di ferro che ha fatto con la UE, che le chiedeva di aumentare le tasse per coprire il deficit; l’Irlanda si è detta piuttosto disposta a rifiutare l’aiuto europeo che a manovrare il fisco in senso peggiorativo. Hanno ragione gli Irlandesi, perché considerano la crescita fattore essenziale della stabilità.

Se vuole, legga con attenzione la testimonianza riportata in questo link. Che cosa può fare la politica per tutelare il patrimonio di capacità, volontà, idee e ricchezza che i liberi professionisti portano quotidianamente all’Italia e alla sua economia e che spesso viene ignorato se non calpestato?
Intanto va detto che il caso in questione è anomalo: si tratta di una elusione delle norme sul lavoro. Quando si è in regime di monocommittenza, con un orario minimo fisso di 8 ore, non si può parlare di libera professione, ma di un grave errore da parte dello studio professionale. Si fa aprire la partita Iva a una persona che svolge un lavoro subordinato, riducendo il costo del lavoro al 20 per cento, Irap compresa: siamo nel campo dell’irregolarità. Detto questo, vale per le partite iva quello che vale per le piccole imprese, quali sono a tutti gli effetti. Si può lavorare a più livelli. A me piace molto la legge francese sulla microimpresa fatta dal Ministro dell’Economia e ne stiamo presentando una versione italiana alla Camera. Lo Statuto delle Imprese, poi, riconosce alle certificazioni rese dai professionisti un ruolo alternativo a quello del controllo da parte della PA.

La missione principale della nostra testata è quella di trasmettere ottimismo al “popolo delle partite IVA”: da parlamentare della Repubblica, lanci il suo messaggio di ottimismo perché questo “popolo” continui a credere nelle potenzialità del nostro Paese.
Guardare il positivo che c’è, a cominciare dal desiderio di essere protagonisti della propria vita. Siamo un popolo straordinario, che nella difficoltà riesce a tirar fuori il meglio di sé. Non dobbiamo avere paura della vita. E dobbiamo fare rete tra chi vive quotidianamente il proprio impegno con senso di responsabilità.

Photo: AGLAIA

L’amarezza di essere partitivista: una lettera-verità per dire basta ai soprusi

di Davide PASSONI

Qualche giorno fa è giunta a Infoiva una e-mail inviata da una professionista che ha voluto portare alla nostra attenzione la propria amara esperienza da “partitivista”. Chi ci segue sa che la missione della testata è quella di raccontare “un popolo fatto di piccoli imprenditori e liberi professionisti, che con spirito, tanta volontà, sacrificio e coraggio, gestiscono in maniera autonoma il proprio lavoro, costituendo la colonna portante del nostro sistema produttivo. Perché il Popolo delle Partite Iva è l’Italia che produce“. Offrire, insomma, ottimismo, per quanto nelle nostre capacità e per quanto la congiuntura in cui viviamo ce lo consente.

Tuttavia, non riteniamo corretto né utile chiudere gli occhi di fronte alle tante realtà e situazioni nelle quali chi vive (o sopravvive…) e lavora a partita Iva ha da spendere tutto fuorché l’ottimismo; perché il nostro sistema fiscale, il welfare, la contrattualistica professionale, il mondo bancario – per non parlare di quello sindacale – non lo tutelano e, anzi, sembrano farsi beffe di quello che, invece, è il suo patrimonio di maggior valore: lo spirito di imprenditorialità.

Poiché siamo stufi di veder considerati i partitivisti come dei figli di un dio minore, abbiamo deciso di pubblicare la lettera della nostra amareggiata lettrice: la trovate qui sotto. In più, abbiamo chiesto al nostro contributor, avvocato Matteo Santini, un commento dal punto di vista legale a questo tipo di realtà: eccolo.

Come è ovvio, abbiamo attribuito alla lettrice un nome di fantasia ed eliminato ogni riferimento spazio-temporale alla sua situazione per tutelarne l’anonimato. Anche perché, si chiami essa Luisa, Paola, Domitilla o Sofia, poco ci interessa: quello che vogliamo è portare alla luce una storia che è una come cento, mille altre, perché chi nel Palazzo ha a cuore la sorte della nostra economia e i diritti di contribuisce a svilupparla, si renda conto di che cosa significa oggi essere professionista. Omettiamo l’aggettivo “libero” per decenza e per rispetto nei confronti della nostra lettrice.

Salve,
mi chiamo Luisa e sono una “giovane architetto”… se a 34 anni si può ancora essere considerati giovani.
Vi scrivo per porre alla vostra attenzione la mia situazione professionale, anche io ahimè faccio parte del cosiddetto “popolo delle partita IVA”.

Ho cominciato a lavorare nel 2002 negli Studi Professionali e nel 2003 mi sono sentita dire: “Se vuoi continuare a lavorare per me, devi aprire la Partita Iva”. Allora ero abbastanza ignara dei sistemi fiscali, e soprattutto di diritti dei lavoratori e ho fatto quello che mi veniva richiesto, così come anche altri milioni di professionisti nel Paese. Mi sembrava normale, ricevere una retribuzione oraria… All’inizio mi sembrava normale anche non ricevere alcuna retribuzione durante il mese di agosto (lo studio era chiuso), durante le vacanze comandate, Natale, Pasqua e anche nel caso in cui per motivi di salute non fossi stata in grado di andare al lavoro.

Piano piano, le persone intorno a me, i miei amici coetanei, si laureavano e intraprendevano la loro carriera lavorativa… Chi negli ospedali come medici, chi in banca, altri ancora nel commercio o negli uffici pubblici e cominciavo a sentir parlare di “ferie”, di “malattia”, di “maternità” e addirittura di “tredicesima”!!!! E allora mi è cominciato a sorgere il dubbio che forse la mia situazione di giovane professionista collaboratrice di studi professionali, non era poi così normale.

Un giorno per curiosità ho contato le giornate lavorative e mi sono accorta che noi giovani professionisti, non solo non conosciamo il significato di tutte le condizioni sopraelencate, che dovrebbero appartenere alla categoria dei lavoratori, ma addirittura in un anno, lavorando tutti i giorni, almeno 8 ore al giorno, fatturiamo 10 mensilità piuttosto che 12… Niente male!!

Nello studio presso il quale presto la mia collaborazione (con obblighi di presenza giornaliera di 8 ore) si copre la fascia di età dai 28 ai 40 anni e le differenze retributive sono pressocchè minime: andiamo dai 12 euro/ora, ai quali si deve togliere la Ritenuta d’Acconto (20%) e il contributo Inarcassa (ente previdenziale a cui siamo obbligati a iscriverci e a versare i contributi a nostre spese) che si attesta intorno al 12%, sino ai 7 euro/ora dei neolaureati.

Purtroppo la nostra categoria di lavoratori (che vedete bene, non ha niente a che vedere con la figura del Libero Professionista), oggi non è affatto considerata e tutelata dagli enti di governo e sindacati. Si sente parlare sempre del problema del precariato e degli operai ma mai di noi finte partite Iva.

Oggi in Italia si ha ancora questa convinzione: Architetto/Avvocato/Ingegnere = libero professionista = categoria privilegiata. Ma questo è vero, in parte, solo se si fa “realmente” la libera professione. Magari fossimo davvero liberi professionisti, o meglio, magari potessimo avere la possibilità di esercitare la professione liberamente, intendendo con questo autonomamente e non alle “dipendenze” (ma solo in termini di obblighi) di altri liberi professionisti.

Qui si apre il capitolo dei bandi pubblici per affidamento di incarichi professionali, dove per partecipare devi avere già esperienza nella categoria a cui appartiene l’intervento in oggetto. Esempio, se si vuole partecipare al bando per la selezione dell’ampliamento di una scuola, si deve possedere già nel proprio curriculum un affidamento di incarico per l’ampliamento, ristrutturazione, o nuova edificazione di almeno una scuola… niente di più facile e ovvio!! La conseguenza di questa normativa nell’affidamento di lavori pubblici, ci sembra abbastanza evidente. Come giustamente ha detto recentemente Renzo Piano nel suo bell’intervento alla trasmissione Vieni via con me, in Italia oggi un architetto prima dei 50 anni non ha la possibilità di “fare” nulla. Ed è tristemente vero.

Proseguo con il racconto di situazioni e difficoltà, che ogni giorno ci dobbiamo trovare ad affrontare.

Un venerdì pomeriggio di qualche mese fa sono stata chiamata dai miei due capi nella loro stanza. Con facce diabolicamente meste e contrite mi dicevano che purtroppo la mole di lavoro era di molto diminuita per la loro Società, e che pertanto erano costretti (con il cuore in mano) a fare dei tagli e che la prima ero io, guarda caso, la professionista che al momento percepiva più di tutti all’interno dello studio e che, come potrete immaginare, non stava mai zitta di fronte a ingiustizie e comportamenti poco rispettosi nei nostri confronti. In poche parole, dopo 3 anni e mezzo di collaborazione, mi dicevano che nel giro di 2 settimane (avete capito bene, 2 settimane), sarei dovuta andare via. Sotto mia richiesta le 2 settimane sono diventate 4.

Immediatamente la mia preoccupazione più grande in quelle 4 settimane è stata provare a bloccare il mutuo per qualche mese, come previsto anche dalla Finanziaria di Tremonti. Certo, si può fare, mi hanno detto alla Banca. Mi deve portare il Contratto di Assunzione e la Lettera di Licenziamento. Ovvio. Peccato che io, come libera professionista a partita Iva non sappia neppure cosa sia un Contratto di Assunzione. Per buon cuore della Sig.ra responsabile dei mutui presso la Banca, abbiamo tentato altre strade, legate alle direttive interne della Banca stessa, e non a direttive “statali”, in quanto per quelle, non sussistevano le condizioni per me, per poterne usufruire. Mi è stato chiesto di ottenere una lettera dai miei capi, in cui si dichiarasse che io dal mese successivo non avrei più fornito collaborazione presso la loro Società.

Mi hanno fatto aspettare e penare 20 giorni prima di firmare questa lettera, modificandola e parlandone con il loro commercialista… riuscite a immaginare di cosa potessero avere paura?

Ma il bello deve venire.

In quello che arvebbe dovuto essere il mio ultimo giorno di lavoro, mi hanno chiamato nuovamente, dicendo che la situazione era cambiata (un altro professionista come me, era andato via) e loro avrebbero avuto piacere che io continuassi. Ovviamente ho dovuto dire di sì, ma potete ben immaginare con quale stato d’animo. E da allora sono ancora lì.

Nel frattempo una mia collega dello studio, è rimasta incinta per ben due volte, ma entrambe le volte con gravidanze difficili, nessuna delle due andate a buon fine. E’ dovuta stare a casa la prima volta un mese circa, e la seconda volta 3 mesi, senza percepire alcuna retribuzione secondo l’equivalenza no lavoro = no guadagno, che andrebbe bene se fossimo realmente liberi professionisti, non certo dipendenti quali siamo, costretti da una presenza quotidiana nello studio e un orario ben stabilito di 8 ore al giorno.

Lei ha ottenuto per fortuna, un piccolo risarcimento da Inarcassa, la Cassa di Previdenza di Ingegneri e Architetti, ma dopo la seconda volta, alla richiesta di voler ricominciare a lavorare, si è sentita rispondere che il lavoro è molto diminuito e che al momento non c’è posto per lei nello studio; peccato che nel frattempo, siano arrivate due giovani neo laureate, che sommando il loro stipendio, arrivano a percepire quanto lei da sola. Strana coincidenza anche questa no??

Ciò che oggi più mi fa arrovellare, è cercare di capire il perché del totale silenzio da parte dei politici, dei sindacati e anche dei giornalisti, su una situazione ogni giorno più grave e pesante. Unica testata di impatto pubblico che ha scritto un articolo, è stato il Venerdì di Repubblica, nel numero 1160 di Giugno 2010 “L’Italia delle partite iva”.

Vi ringrazio per la cortesia di avermi ascoltato in questo sfogo… Noi, giovani professionisti (ma ripetiamo, non più così giovani!!!!) siamo stanchi e molto preoccupati per il nostro futuro. Vorremmo che la questione venisse fuori con vigore e allarme, per far sì che in primis i giovani professionisti e non meno gli enti di governo, ne acquisiscano la consapevolezza. Io sono infatti convinta, che il mal costume che persiste oggi all’interno degli Studi Professionali, sia anche conseguenza dell’apatia di chi ci lavora, che da anni ha accettato passivamente le condizioni su descritte, tanto da far sì che oggi appaiano quasi normali.

Credo sia abbastanza evidente dalle mie parole, che il malcontento sta aumentando sempre più. Ci vediamo calpestati nei diritti fondamentali di una persona che lavora: nessuna tutela nella malattia, nessuna tutela nel mettere al mondo un bambino, nessuna tutela nell’essere allontanati da un giorno all’altro, siamo ben lontani dal rispetto del lavoro e dei diritti che ne dovrebbero seguire, che sono alla base di una società civile e progressista.

Certa di una vostra risposta e collaborazione, porgo i miei più cari saluti e rinnovo la speranza che grazie a voi e al vostro giornale, qualcosa possa cominciare a muoversi e a emergere.

Cara P.A., ora paga i tuoi debiti alle PMI. Te lo impone l’Ue, basta ritardi

di Davide PASSONI

Oggi partiamo da una buona notizia. La Commissione Europea ha finalmente trovato un accordo con l’Europarlamento e con il Consiglio dei ministri Ue per varare una direttiva contro i ritardi nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione. Una piaga per l’economia, non solo italiana ma europea, una jattura con la quale si sono trovati a fare i conti molti dei nostri lettori che, quindi, sanno bene di che cosa stiamo parlando.

Nell’Ue i pagamenti in ritardo ammontano a quasi 2 miliardi all’anno, con tempi medi di 65 giorni e casi estremi che arrivano a 180. Ora, secondo la direttiva europea in via di approvazione, il termine ultimo per i pagamenti sarà di 60 giorni; dal 61esimo in poi, per le P.A. scatterà l’interesse dell’8% sul debito. Una mossa che dovrebbe sbloccare circa 180 miliardi, in buona parte a favore delle PMI.

Da noi la pubblica amministrazione ha un debito di circa 70 miliardi verso i propri fornitori, molti dei quali sono, guarda caso, PMI. Lo sa bene la Commissione Europea, visto che da Bruxelles ricordano che questa intollerabile morosità è spesso causa del fallimento di imprese che sarebbero altrimenti sane e produttive, specialmente se di piccole e medie dimensioni. Se aggiungiamo che in Italia, sempre secondo fonti Ue, i ritardi nei pagamenti sono passati da 138 giorni nel 2008 a 170 nel 2010 e che il 50% delle nostre imprese registra ritardi medi di 2-4 mesi e il 25% persino di 6, ecco che questo accordo tra Commissione, Europarlamento e Consiglio dei Ministri Ue appare quanto mai salvifico. Purché…

Purché chi nel Palazzo dovrebbe decidere sul futuro e sulla salvezza della nostra economia non trovi qualche gabola per decidere sulla salvezza della pubblica amministrazione. Di fatto già ora la P.A. fa spesso orecchie da mercante, fingendo di ignorare le disposizioni di legge che impongono il pagamento a 30 giorni dal ricevimento della fattura, oltre alla decorrenza e all’importo degli interessi per il pagamento ritardato. Un comportamento non più sostenibile, già più volte sanzionato dal Consiglio di Stato, che continua a essere tenuto con la scusa della mancanza di fondi, della crisi, dei costi della macchina pubblica.

In quest’ottica, c’è da sperare che i due anni concessi ai Paesi Ue per recepire la direttiva non diventino un alibi per prendere/perdere tempo. Lo sa bene il Taiis, che ha chiesto di definire in tempi rapidi la quantificazione dei debiti, per approvare una soluzione che possa sanare il pregresso senza incidere negativamente sui conti pubblici. Una soluzione fattibile con un piano di rientro decennale del debito che inciderebbe sul Pil fino a un massimo dello 0,4% all’anno. Se si pensa che il totale dei debiti commerciali in Italia equivale a 4 punti di Pil, è chiaro quanto la nostra economia possa trarre beneficio da una recuperata capacità di spesa e di investimento da parte delle imprese. 

Non basta quindi la crisi dei mercati mondiali; non basta la stretta sul credito operata dalle banche, che ha ridotto la circolazione di liquidità mandando in sofferenza le piccole e medie imprese che non hanno una capacità finanziaria adeguata per affrontarla; non bastano il nero e l’evasione, cancri che allignano nel nostro tessuto produttivo di base sottraendo ricchezza al Paese e, di conseguenza, risorse alle imprese stesse che credono di fare le furbe. Dobbiamo anche lottare contro una P.A. morosa e supponente.

Ora l’Ue dice basta, redde quod debes. Peccato che, come al solito, sia dovuta intervenire l’Europa per arrivare là dove non siamo in grado di arrivare noi, per furbizia, per ignavia o solo per pigrizia. Vedremo ora se alla P.A. converrà di più pagare a termine o continuare a voltarsi dall’altra parte, accollandosi quell’8% in più.

Basta chiacchiere e fumogeni: ripensiamo alla crescita del Paese

di Davide PASSONI

Strano Paese il nostro… In questa settimana abbiamo assistito al meglio e al peggio che l’Italia è in grado di esprimere quando si parla di lavoro, produzione e politiche a sostegno dello sviluppo e dell’occupazione.

Due attacchi a sedi della Cisl, a base di fumogeni, uova e volantini, da parte di gruppi che, in diversa misura, non si sono accorti che gli Anni ’70 sono finiti da un pezzo, senza capire che ancorarsi a una preistorica logica di servi contro padroni a tutto serve fuorché a far progredire e sviluppare un’economia per molti versi ancora zoppicante.

La tanto attesa nomina del titolare del ministero dello Sviluppo Economico, quel Paolo Romani la cui designazione è stata tanto sorprendente quanto può esserlo il freddo al Polo Nord; e qui via al solito teatrino con opposizioni, benpensanti e malpensanti che hanno tirato fuori di tutto dal passato di Romani (da Maurizia Paradiso in giù) e hanno invocato l’onnipresente conflitto di interessi. Vero, il neoministro è da sempre un fido scudiero del Cavaliere, da ancor prima della sua discesa in campo in politica, e come sottosegretario è inciampato in qualche grossa pietra, come gli 800 milioni per la banda larga (vitale per lo sviluppo del nostro tessuto produttivo) prima promessi e poi destinati alla copertura di altre spese. Ma noi siamo abituati a giudicare il lavoro delle persone, non solo e non tanto il loro passato (che non significa dimenticarlo): vediamo quello che Romani riuscirà a fare per l’economia italiana, magari senza rincorrere da subito il totem del nucleare, e poi esprimeremo un voto. Deligittimarlo prima ancora che sieda in poltrona è miope e controproducente.

Infine, ed ecco il meglio di cui parlavamo all’inizio, la presentazione da parte di Rete Imprese Italia del documento “Ripensare alla crescita del Paese: strategie e scelte di medio termine”; nove azioni urgenti e cinque azioni di sviluppo a medio termine per rilanciare il sistema Italia, a firma della realtà che vede alleate le più importanti associazioni di Pmi italiane: Confesercenti, Confartigianato, Confcommercio, Cna e Casartigiani.

Nel documento si va da proposte per la politica fiscale a quelle per la semplificazione amministrativa al nodo dei rapporti tra banche imprese e PA e imprese. Insomma, gli atavici punti dolenti di chi fa impresa nel nostro Paese. Noi vi consigliamo di leggerlo (eccolo qui), perché lo riteniamo un esempio di proposta seria, fatta da chi sul campo ci sta tutti i giorni e conosce i problemi reali della nostra economia, piccola o grande che sia. E, soprattutto, fatta da chi non ha la presunzione di insegnare alcunché a nessuno né di giudicare aprioristicamente scelte e posizioni, ma ha a cuore il bene dell’Italia sana, che produce e genera (o vorrebbe farlo ma non sempre ci riesce…) ricchezza e benessere.

Giovani, battete un colpo. L’Italia vi aspetta

di Davide PASSONI

Giovani, imprenditoria e futuro: atto secondo. Sui social network non si è ancora spenta l’eco del dibattito sul calo dell’imprenditoria under 30 in Italia, ed ecco che al Forum dei Giovani Imprenditori di Confcommercio, in corso a Venezia, viene presentata un’altra ricerca le cui evidenze sono destinate a far discutere.

Si tratta dell’“Indagine sui giovani”, realizzata appunto da Confcommercio, che analizza il rapporto degli italiani non ancora trentenni con il lavoro, l’impresa, la famiglia, la politica e la visione che questi hanno del futuro. Come sempre in analisi di questo genere, i dati e le percentuali sono tanti (li potete leggere nel dettaglio qui), ma ce ne sono 6 sui quali vi invitiamo a riflettere:

1- Giovani che pensano di svolgere il lavoro cui aspirano entro i 30 anni: 60%.
2- Giovani che apirano al posto fisso: 50% (meditate gente, meditate…).
3- Giovani che pensano di lasciare il tetto paterno entro i 30 anni: 45% (bamboccione, dove sei?).
4- Giovani che pensano di aprire un’impresa entro 5 anni: 16%.
5- Giovani del tutto disinteressati a svolgere attività politica: 77%.
6- Fiducia nella politica di incidere sul destino professionale dei giovani: 15,9%.

Proprio su questi ultimi 3 dati vale la pena soffermarsi. La paura di mettersi in gioco e la mancanza di fondi frenano poco meno del 30% di quell’84% che non si vede come imprenditore; quello che allarma è quel 61,6% di loro che rinuncia a mettersi in proprio perché non ha alcuna idea imprenditoriale, nemmeno la più banale. Nell’era della flessibilità e della creatività, riecco quindi il mitico posto fisso, comodo anacronismo italiano.

Sul rapporto tra giovani e politica, le percentuali sono invece impietose e si commentano da sole. Noi ci limitiamo a lanciare uno spunto. Visto che, in questo strano Paese, proprio dalla politica, più che dal mercato, le imprese si aspettano risposte, proposte e indirizzi, stupiscono proprio tanto quel 16 e quel 77% dei punti 4 e 5? O non è vero che, nel loro essere agli antipodi, dimostrano quanto l’uno sia la conseguenza dell’altro?