Nuove imprese fatte da giovani under 35: per tre anni un imposta unica forfettaria del 10%

Un’imposta forfettaria del 10% per i primi tra anni di attività delle imprese costituite da imprenditori under 35:questa è la proposta annunciata dal premier Silvio Berlusconi a sostegno dell’imprenditoria giovanile. “Ne stiamo discutendo con le parti sociali e con Tremonti e questo sarà uno dei punti di discussione nel prossimo incontro con le parti sociali”, ha detto il presidente del Consiglio in conferenza stampa a Palazzo Chigi con il ministro della Gioventù, Giorgia Meloni, per la presentazione di Diritto al futuro, un’iniziativa promossa dal Ministero della Gioventù che poggiando su un finanziamento di 300 milioni prevede cinque decreti per altrettante misure di sostegno finalizzate al lavoro, alla casa, all’imprenditoria giovanile, alla formazione e alle opportunità professionali. Non si tratterà di assistenzialismo generalizzato  chirisce la Meloni, perché per ogni misura è necessario l’impegno diretto dei giovani. “Il primo provvedimento – ha spiegato il ministro – dà la possibilità di un lavoro stabile ai giovani genitori precari”. Si tratta di una “dote” di cinquemila euro che ragazze e ragazzi under 35 possono garantire all’impresa che intende assumerli a tempo indeterminato. Questa iniziativa è sostenuta da un Fondo di 51 milioni e si prevede, pertanto, la creazione di 10.000 posti di lavoro a tempo

indeterminato. Altri 50 milioni sono destinati per l’offerta di garanzie bancarie per l’accesso al mutuo-prima casa in favore di giovani coppie con basso reddito e contratti atipici. Beneficio riservato a coppie coniugate, con o senza figli, o a padri e madri single. Con il decreto ‘mecenati’, si punta, inoltre, attraverso una dotazione di 40 milioni a promuovere il talento di giovani imprenditori valorizzando creatività e innovazione. La misura prevede il cofinanziamento pubblico al 40% di iniziative messe in campo da grandi aziende e fondazioni che decidono di investire sulle capacita dei giovani. L’investimento complessivo, grazie al meccanismo del cofinanziamento, tocca in questo caso i 100 milioni. Il pacchetto introduce, infine, prestiti garantiti per gli studenti meritevoli con erogazioni annuali da 3 a 5 mila euro fino a un massimo di 25 mila euro, grazie a una fondi di garanzia per 19 mila euro e 20 campus per favorire il “job placament”.

fonte: Confcommercio.it

Montezemolo, un politico vero che ancora non è sceso in politica

di Gianni GAMBAROTTA

Care Signore e Cari Signori delle Partite Iva, vi è piaciuto domenica sera Luca Cordero di Montezemolo?
Immagino che molti di voi si siano messi davanti alla tv a guardare il programma “Che tempo che fa” di Fabio Fazio che aveva come pezzo forte la partecipazione del presidente della Ferrari, ex  presidente della Fiat e della Confindustria. La sua apparizione era molto attesa: sono mesi (se non anni) che si parla di un’imminente discesa in campo di questo imprenditore-manager-comunicatore che non si accontenta più del lavoro (peraltro ricco di soddisfazioni) svolto finora, ma aspira a un ruolo di più ampio respiro, a qualcosa che ha a che fare direttamente con la politica. Ha creato una fondazione, Italia Futura, che usa come think tank per elaborare, studiare, dibattere; ma anche per rappresentare, per esprimere la sua opinione. E negli ultimi mesi l’ha usata come tribuna per criticare con grande severità il governo e la sua azione. Domenica, da Fazio, non ha cambiato i suoi toni. Il governo è stato liquidato così: “Siamo al cinepanettone. Stanno scorrendo i titoli di coda“.

Certo che lo spettacolo offerto dal governo non è entusiasmante: a parte tutte le vicende personali (il riferimento è ovviamente alle escort) quello che più conta – credo – per persone concrete, operative come il popolo delle Partite Iva sono i risultati, i bilanci. E in oltre due anni di vita, quanto portato a casa da questo governo non è entusiasmante. Ma ancora meno lo è lo spettacolo offerto dall’opposizione. Indecisa su tutto, capace solo di sventolare la bandiera dell’antiberlusconismo, non è stata in grado neppure di vincere le sue elezioni interne, come nel caso delle primarie del Pd a Milano.

Insomma, c’è da essere presi dallo sconforto di fronte a questo spettacolo complessivo della politica italiana. Per questo da parte di molti, soprattutto nel mondo produttivo che deve risolvere quotidianamente problemi concreti, c’è una grande curiosità verso un’offerta di politica nuova. E con questo atteggiamento di disponibilità, di interesse, penso che moltissimi abbiano seguito l’intervento di Montezemolo. Ma penso anche che abbiamo trovato nelle sue parole un tasso di novità inferiore alle aspettative. Abile e diplomatico, ha dato l’impressione di essere già un politico di professione, che non si sbilancia sul futuro, che non dice una parola che possa compromettere i rapporti con questa o quella parte, che sa navigare. In fondo non così diverso dai personaggi che compaiono quotidianamente nei telegiornali.

Forse anche voi, Signore e Signori delle Partite Iva, vi aspettavate qualcosa di più.

Cara P.A., ora paga i tuoi debiti alle PMI. Te lo impone l’Ue, basta ritardi

di Davide PASSONI

Oggi partiamo da una buona notizia. La Commissione Europea ha finalmente trovato un accordo con l’Europarlamento e con il Consiglio dei ministri Ue per varare una direttiva contro i ritardi nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione. Una piaga per l’economia, non solo italiana ma europea, una jattura con la quale si sono trovati a fare i conti molti dei nostri lettori che, quindi, sanno bene di che cosa stiamo parlando.

Nell’Ue i pagamenti in ritardo ammontano a quasi 2 miliardi all’anno, con tempi medi di 65 giorni e casi estremi che arrivano a 180. Ora, secondo la direttiva europea in via di approvazione, il termine ultimo per i pagamenti sarà di 60 giorni; dal 61esimo in poi, per le P.A. scatterà l’interesse dell’8% sul debito. Una mossa che dovrebbe sbloccare circa 180 miliardi, in buona parte a favore delle PMI.

Da noi la pubblica amministrazione ha un debito di circa 70 miliardi verso i propri fornitori, molti dei quali sono, guarda caso, PMI. Lo sa bene la Commissione Europea, visto che da Bruxelles ricordano che questa intollerabile morosità è spesso causa del fallimento di imprese che sarebbero altrimenti sane e produttive, specialmente se di piccole e medie dimensioni. Se aggiungiamo che in Italia, sempre secondo fonti Ue, i ritardi nei pagamenti sono passati da 138 giorni nel 2008 a 170 nel 2010 e che il 50% delle nostre imprese registra ritardi medi di 2-4 mesi e il 25% persino di 6, ecco che questo accordo tra Commissione, Europarlamento e Consiglio dei Ministri Ue appare quanto mai salvifico. Purché…

Purché chi nel Palazzo dovrebbe decidere sul futuro e sulla salvezza della nostra economia non trovi qualche gabola per decidere sulla salvezza della pubblica amministrazione. Di fatto già ora la P.A. fa spesso orecchie da mercante, fingendo di ignorare le disposizioni di legge che impongono il pagamento a 30 giorni dal ricevimento della fattura, oltre alla decorrenza e all’importo degli interessi per il pagamento ritardato. Un comportamento non più sostenibile, già più volte sanzionato dal Consiglio di Stato, che continua a essere tenuto con la scusa della mancanza di fondi, della crisi, dei costi della macchina pubblica.

In quest’ottica, c’è da sperare che i due anni concessi ai Paesi Ue per recepire la direttiva non diventino un alibi per prendere/perdere tempo. Lo sa bene il Taiis, che ha chiesto di definire in tempi rapidi la quantificazione dei debiti, per approvare una soluzione che possa sanare il pregresso senza incidere negativamente sui conti pubblici. Una soluzione fattibile con un piano di rientro decennale del debito che inciderebbe sul Pil fino a un massimo dello 0,4% all’anno. Se si pensa che il totale dei debiti commerciali in Italia equivale a 4 punti di Pil, è chiaro quanto la nostra economia possa trarre beneficio da una recuperata capacità di spesa e di investimento da parte delle imprese. 

Non basta quindi la crisi dei mercati mondiali; non basta la stretta sul credito operata dalle banche, che ha ridotto la circolazione di liquidità mandando in sofferenza le piccole e medie imprese che non hanno una capacità finanziaria adeguata per affrontarla; non bastano il nero e l’evasione, cancri che allignano nel nostro tessuto produttivo di base sottraendo ricchezza al Paese e, di conseguenza, risorse alle imprese stesse che credono di fare le furbe. Dobbiamo anche lottare contro una P.A. morosa e supponente.

Ora l’Ue dice basta, redde quod debes. Peccato che, come al solito, sia dovuta intervenire l’Europa per arrivare là dove non siamo in grado di arrivare noi, per furbizia, per ignavia o solo per pigrizia. Vedremo ora se alla P.A. converrà di più pagare a termine o continuare a voltarsi dall’altra parte, accollandosi quell’8% in più.

La crisi politica rischia di lasciare sole l’Italia e la sua economia

di Gianni GAMBAROTTA

I numeri sono quelli che sono. Lo spread fra il bund tedesco e i titoli di Stato italiani ha ormai superato i 2,4 punti. Peggio di noi sta la Spagna (ma di poco) e, in ordine crescente, il Portogallo, l’Irlanda e la Grecia. Il che vuol dire due cose. La prima: collocare sui mercati il debito pubblico italiano sarà sempre più difficile e costoso. E trattandosi di un debito di oltre 1800 miliardi di euro, si capisce che la vicenda è assai delicata. La seconda: la speculazione finanziaria internazionale, prima o poi, rischia di affacciarsi anche dalle nostre parti.

L’estate scorsa ha colpito la Grecia, provocando una crisi quasi fatale dell’euro. Ora si è concentrata sull’Irlanda, sta assaggiando il Portogallo e prende le misure anche alla Spagna. E soprattutto la speculazione sta a guardare quale sarà la reazione dell’Europa, se interverrà a difesa dei Paesi deboli o se lascerà che le cose vadano seguendo un corso naturale. Con particolare attenzione vengono seguite le mosse della Germania: le banche tedesche sono le più esposte verso l’Irlanda, così come lo erano con la Grecia. Comunque, in questa aria di crisi permanente e di potenziale caos monetario, l’Italia è tenuta sotto stretta vigilanza. Sia per l’enormità del suo debito (il terzo al mondo, ma l’Italia non è la terza economia mondiale), sia per la situazione politica in cui Roma è finita e che viene guardata con crescente sospetto dalla finanza internazionale.

Lo scenario non incoraggiante. È vero che i contendenti politici hanno trovato, per lo meno, l’accordo per far passare la Finanziaria. Ma poi? Molto probabilmente si andrà alle elezioni anticipate che si terranno a marzo-aprile. Quindi per quattro-cinque mesi il Paese affronterà una delle campagne elettorali più dure della sua storia recente e tutti saranno concentrati a vincere le elezioni, a qualsiasi costo. Nessuno darà un’occhiata a quello che succede nel mondo, sui mercati. E se la bufera monetaria aumenterà di intensità (evento per nulla improbabile) chi prenderà, assieme agli altri Paesi europei, delle misure per contrastarla? Un premier e un ministro dell’Economia dimissionari e impegnati (soprattutto il primo) in estenuanti comparsate tv, comizi, incontri per conquistare consensi e voti?

Così l’Italia e la sua economia saranno lasciate da sole, le decisioni che contano saranno prese altrove. Ci si sveglierà a marzo-aprile con un Parlamento nuovo, passerà ancora parecchio tempo per formare un governo. E poi ci si occuperà del debito, dell’aumento degli spread. Sperando non sia troppo tardi.

Instabilità politica e crisi, anche la Costituzione ha le sue responsabilità

di Gianni GAMBAROTTA

Forse questa crisi politica che si è aperta di fatto, anche se non ancora ufficialmente, con il discorso di Gianfranco Fini, è davvero diversa dalle altre. Questo interminabile braccio di ferro fra due dei fondatori del Popolo della Libertà, ha messo sotto gli occhi di tutti che c’è qualcosa di profondo, di storico, di radicato che non funziona nel sistema italiano. Per l’ennesima volta un governo cade (a quello attuale non è ancora successo, ma basterà aspettare e non a lungo) non perché l’opposizione lo abbia stretto in un angolo e obbligato a gettare la spugna, ma per la litigiosità interna alla maggioranza che lo sostiene.

Gli episodi del recente passato sono indicativi. Vi ricordate il primo governo di Silvio Berlusconi? Ottenne la fiducia il 10 maggio del 1994 e cadde il 17 gennaio del ‘95, quando il premier fu costretto a dimettersi per l’uscita della Lega dalla maggioranza. In tutto rimase in carica 252 giorni, neppure un anno. Oppure prendete il secondo governo formato da Romano Prodi, quello che batté Berlusconi alle elezioni politiche del 2006. Nato il 17 maggio di quell’anno, sorretto da una maggioranza composita formata da tanti partiti e partitini, non riuscì neppure a compiere i due anni e si dimise il 7 maggio 2007 perché la coalizione che avrebbe dovuto sostenerlo era in disaccordo su tutto.

Nella prima Repubblica questo copione si ripeteva con sistematicità. I governi, in media, duravano un anno e cadevano anche per motivi molto banali. Si pensava che il passaggio alle seconda Repubblica, l’avvio del bipolarismo avrebbe cambiato la situazione, portato a una maggiore governabilità. I due precedenti citati di Berlusconi e Prodi, e quanto sta avvenendo in questi giorni dimostrano che non è così.

L’Italia deve accettare l’idea che le servono riforme profonde se vuole raggiungere quel minimo di efficienza politica indispensabile per un Paese che aspira a essere moderno. Molti osservatori, giornalisti, editorialisti sostengono che quella italiana è una bellissima Costituzione, che va difesa, che non bisogna dare spazio a chi vuole modificarla. In parte è vero: la Costituzione nata nel 1948 introduce dei principi, dei valori che sono assolutamente positivi e vanno difesi. Ma è anche vero che ha disegnato un meccanismo di gestione del sistema politico che non funziona e difficilmente si metterà a funzionare in futuro. Già in passato si è accettato il principio che una riforma è indispensabile: la Bicamerale era stata concepita per questo, ma senza risultati. Oggi penso che quel cammino andrebbe ripreso.

Da Confindustria serve chiarezza per aiutare il Paese a uscire dalle secche

di Gianni GAMBAROTTA

“L’Italia è alla paralisi”, titolava in prima pagina ilSole24Ore di domenica scorsa, presentando l’intervento del presidente della Confindustria sul palco dei Giovani Industriali riuniti nel convegno di Capri. “C’è uno smarrimento forte nel Paese – ha detto Emma Marcegaglia, è necessario trovare il senso delle istituzioni e della dignità. Il parlamento non funziona più, manca ancora il presidente della Consob. Siamo alla paralisi“. E qual è la soluzione per uscire da “questa ondata di fango che investe le istituzioni“? Non le elezioni anticipate, perché “sarebbero sei mesi di campagna elettorale drammatica“. E allora? Qual è la strada virtuosa da imboccare per uscire da questo pantano, secondo il leader degli imprenditori nazionali? La Marcegaglia non lo dice perché non spetta alla Confindustriadire alla politica che cosa deve fare“, anche se – aggiunge – gli imprenditori non vedono di buon occhio “alchimie partitiche che discutano per mesi di legge elettorale“.

L’Italia ha un grave problema di leadership, la sua classe dirigente si sta dimostrando assolutamente inadeguata a fronteggiare i problemi di crescita che il Paese deve affrontare, come stanno facendo in partner europei; non sembra esserci nessuno, a destra come a sinistra, in grado di immaginare un futuro e farlo diventare un obiettivo condiviso da una parte determinante degli italiani. Il Paese è senza una guida e – fatto ancora più grave – questa situazione è chiaramente percepita.

In passato, a una simile carenza (perché non è la prima volta che si manifesta) il mondo produttivo sapeva offrire un’alternativa, una supplenza; riusciva a colmare un vuoto che veniva dalle stanze ufficiali del potere. Forse ciò non sempre è stato un bene, spesso ha anzi rappresentato un precedente che alla lunga si è rivelato scomodo. Però, nei momenti di impasse, arrivavano delle indicazioni di tendenza e di priorità che erano utili, nelle quali molti si riconoscevano.

Questo è proprio uno di quei frangenti in cui il Paese del fare dovrebbe lanciare quei segnali. Invece da viale dell’Astronomia, quartier generale degli industriali italiani, arrivano messaggi incerti, contraddittori. Emma Marcegaglia alterna momenti di affiancamento al governo (sono di pochi giorni fa le sue parole di apprezzamento per il ministro Giulio Tremonti e, in generale, per tutta la politica economica) ad attacchi aperti e severi come, appunto, quello di Capri. Sarebbe meglio una maggiore chiarezza, una scelta precisa: al Paese sarebbe utile sapere da che parte sta Confindustria che è – o almeno pretende di essere – una parte di spicco della sua classe dirigente.

Caro Fini, caro D’Alema: le rendite finanziarie non si toccano

Cari lettori, da oggi, 26 ottobre 2010, inizia a scrivere per Infoiva Gianni Gambarotta, firma di prestigio del giornalismo economico italiano. Nella sua rubrica Baracca&Burattini, Gambarotta commenterà ogni settimana i fatti grandi e piccoli dell’economia, italiana e non, con lo stile chiaro e diretto e con l’equilibrio che contraddistinguono un professionista di lungo corso quale è lui. Buona lettura. Il Direttore – Davide PASSONI

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di Gianni GAMBAROTTA

Gianfranco Fini e Massimo D’Alema hanno parlato insieme nel weekend scorso ad Asolo. Hanno detto molte cose, hanno scoperto di andare d’accordo su svariati temi. Bene, non voglio qui entrare nel merito di dibattiti politici. Non è quello che mi interessa in questa sede e in questo momento. Quello che mi ha colpito (e non solo me) negli interventi dei due leader è stata la loro perfetta intesa sul tema della tassazione delle rendite finanziarie: “Vanno raddoppiate, portate dall’attuale 12,5 per cento, al 25 per cento. Un’aliquota in linea con quelle in vigore nei maggiori Paesi europei nostri partner“.

Per me questa proposta che trova allineati Fini e D’Alema è sbagliata. Non parlo di giustizia sociale: da questo punto di vista in teoria potrebbe anche  starci. Parlo dell’efficacia economica di una misura certo non neutra come il raddoppio, di punto in bianco, del prelievo fiscale sul risparmio. È qui che le cose non funzionano.

L’Italia ha, fra i tanti, un problema: le decisioni economiche, nella loro grande maggioranza, transitano dai partiti. È la classe politica che decide dove indirizzare risorse, investimenti, finanziamenti. E lo fa seguendo i segnali di un radar che non cerca il successo e lo sviluppo del Paese nel suo complesso, ma capta soprattutto le convenienze elettorali. Gran parte della spesa, detto in parole molto povere, è un immenso, gigantesco voto di scambio che si ripete anno dopo anno. E questo succede con qualsiasi guida politica, chiunque sieda al volante, sia di centro-destra, sia di centro-sinistra.

Ora la pressione fiscale in Italia si aggira attorno al 46 per cento della ricchezza totale prodotta dal Paese. Questo significa che i partiti ogni anno intermediano, decidono che destinazione dare a quasi la metà del Pil. Un qualsiasi aumento della pressione fiscale non farebbe che aumentare questo stato di cose.

L’Italia non ha bisogno di questo. Anzi ha bisogno, e rapidamente, di imboccare esattamente la strada opposta. Quindi io credo che qualsiasi misura che miri ad aumentare anche di un solo euro quanto lo Stato prende dai cittadini è sbagliata e va evitata per ragioni di strategia politica del Paese.

E c’è un’altra osservazione da fare. Il risparmio è stato agevolato negli anni perché rappresenta uno dei pochi fattori positivi su cui l’Italia possa contare: il ministro Giulio Tremonti si è giocato, eccome, l’enorme patrimonio di risparmio privato nazionale quando si è trattato di rinegoziare in sede europea il patto di stabilità. Quindi bisognerebbe rifletterci bene prima di buttare tutto all’aria.

Basilea 3: ecco le nuove regole per il sistema bancario. Come incideranno sulle imprese?

Ultimamente sentiamo spesso parlare di Basilea 3. Ebbene, che non si tratti di un cittadella residenziale lo abbiamo capito, ma che cos’è davvero Basilea 3? Si chiama così il nuovo accordo, approvato dal comitato dei governatori delle banche centrali, che impone requisiti patrimoniali più severi per l’operatività delle banche in modo che queste siano corazzate per resistere anche alle crisi più gravi, come quella recente dei mutui subprime, capace di mettere in ginocchio il sistema finanziario internazionale.

Qual è il rischio che corrono le banche? Che nei momenti critici chi ha ricevuto soldi in prestito non sia in grado di restituirli e la banca a sua volta non riesce a fare altrettanto con quanti le hanno affidato il proprio denaro. Una situazione del genere porterebbe al fallimento facendo perdere ai risparmiatori i soldi investiti. Oppure dovrebbe scendere in campo lo stato, iniettando denaro negli istituti di credito, nella speranza di riuscire a chiudere la falla. Ecco, Basilea 3 vuole essere un tentativo di evitare simili situazioni pericolose.

In realtà, esiste già l’obbligo per le banche di mantenere una quota di capitale come riserva. Evidentemente però questa riserva è risultata essere tesoretto troppo esiguo, visto che alla prova dell’ultima crisi, per più di un istituto si è rivelato insufficiente. Da qui l’esigenza dell’accordo, voluto dalle banche centrali, che imponga requisiti patrimoniali più severi per le banche, a cominciare da un rafforzamento della quota di capitale usata come riserva.

Il pacchetto dei nuovi provvedimenti approvati con l’accordo Basilea 3 fissa diverse regole che gli istituti bancari dovranno rispettare. la regola più importante è certamente quella del 7%. Vale a dire la nuova soglia sotto la quale è vietato andare. Le banche il cui capitale dovesse scendere nella zona cosiddetta di sicurezza andrebbero infatti incontro a restrizioni sui pagamenti dei dividendi e dei bonus discrezionali.

Tutto quanto Basilea 3 sarà in grado di fare per l’integrità delle banche, è certamente cosa buona e giusta. Ma quale potrebbe essere il pericolo nascosto dietro questo accordo? il rischio potrebbe essere che una tale rigidità del sistema bancario vada a limitare i flussi creditizi destinati all’economia reale, ostacolando quindi flussi di finanziamento dal sistema bancario a famiglie ma soprattutto alle imprese (specialmente le piccole).

Per scongiurare ciò, Rete Impresa Italia, auspica che banche, associazioni di impresa e consorzi fidi costruiscano un più stretto rapporto di collaborazione che consenta ai piccoli imprenditori di trovare in banca gli stessi criteri, semplici e rigorosi, applicati dai consorzi fidi che, grazie all’approfondita conoscenza della realtà produttiva, valutano la reale affidabilità degli imprenditori. Cosa che ha consentito loro di ottenere ottimi risultati sul piano della solvibilità delle imprese. Soprattutto adesso che serve sostenere la ripresa e gli imprenditori chiedono finanziamenti per investire e produrre, le imprese dovrebbero ritrovare negli istituti di credito la necessaria fiducia e non degli ostacoli per l’accesso al credito.

Allora, aspettando l’attuazione dei nuovi provvedimenti derivanti da Basilea 3 che verranno gradualmente introdotti dal 2013, speriamo che la crisi economica venga superata quanto prima, che le banche tornino ad essere solide, e speriamo che vi sia una reale collaborazione tra gli attori del credito al fine di favorire la liquidità necessaria alle imprese. Specialmente le piccole, il vero cuore produttivo del Paese.

Basta chiacchiere e fumogeni: ripensiamo alla crescita del Paese

di Davide PASSONI

Strano Paese il nostro… In questa settimana abbiamo assistito al meglio e al peggio che l’Italia è in grado di esprimere quando si parla di lavoro, produzione e politiche a sostegno dello sviluppo e dell’occupazione.

Due attacchi a sedi della Cisl, a base di fumogeni, uova e volantini, da parte di gruppi che, in diversa misura, non si sono accorti che gli Anni ’70 sono finiti da un pezzo, senza capire che ancorarsi a una preistorica logica di servi contro padroni a tutto serve fuorché a far progredire e sviluppare un’economia per molti versi ancora zoppicante.

La tanto attesa nomina del titolare del ministero dello Sviluppo Economico, quel Paolo Romani la cui designazione è stata tanto sorprendente quanto può esserlo il freddo al Polo Nord; e qui via al solito teatrino con opposizioni, benpensanti e malpensanti che hanno tirato fuori di tutto dal passato di Romani (da Maurizia Paradiso in giù) e hanno invocato l’onnipresente conflitto di interessi. Vero, il neoministro è da sempre un fido scudiero del Cavaliere, da ancor prima della sua discesa in campo in politica, e come sottosegretario è inciampato in qualche grossa pietra, come gli 800 milioni per la banda larga (vitale per lo sviluppo del nostro tessuto produttivo) prima promessi e poi destinati alla copertura di altre spese. Ma noi siamo abituati a giudicare il lavoro delle persone, non solo e non tanto il loro passato (che non significa dimenticarlo): vediamo quello che Romani riuscirà a fare per l’economia italiana, magari senza rincorrere da subito il totem del nucleare, e poi esprimeremo un voto. Deligittimarlo prima ancora che sieda in poltrona è miope e controproducente.

Infine, ed ecco il meglio di cui parlavamo all’inizio, la presentazione da parte di Rete Imprese Italia del documento “Ripensare alla crescita del Paese: strategie e scelte di medio termine”; nove azioni urgenti e cinque azioni di sviluppo a medio termine per rilanciare il sistema Italia, a firma della realtà che vede alleate le più importanti associazioni di Pmi italiane: Confesercenti, Confartigianato, Confcommercio, Cna e Casartigiani.

Nel documento si va da proposte per la politica fiscale a quelle per la semplificazione amministrativa al nodo dei rapporti tra banche imprese e PA e imprese. Insomma, gli atavici punti dolenti di chi fa impresa nel nostro Paese. Noi vi consigliamo di leggerlo (eccolo qui), perché lo riteniamo un esempio di proposta seria, fatta da chi sul campo ci sta tutti i giorni e conosce i problemi reali della nostra economia, piccola o grande che sia. E, soprattutto, fatta da chi non ha la presunzione di insegnare alcunché a nessuno né di giudicare aprioristicamente scelte e posizioni, ma ha a cuore il bene dell’Italia sana, che produce e genera (o vorrebbe farlo ma non sempre ci riesce…) ricchezza e benessere.

Giovani, battete un colpo. L’Italia vi aspetta

di Davide PASSONI

Giovani, imprenditoria e futuro: atto secondo. Sui social network non si è ancora spenta l’eco del dibattito sul calo dell’imprenditoria under 30 in Italia, ed ecco che al Forum dei Giovani Imprenditori di Confcommercio, in corso a Venezia, viene presentata un’altra ricerca le cui evidenze sono destinate a far discutere.

Si tratta dell’“Indagine sui giovani”, realizzata appunto da Confcommercio, che analizza il rapporto degli italiani non ancora trentenni con il lavoro, l’impresa, la famiglia, la politica e la visione che questi hanno del futuro. Come sempre in analisi di questo genere, i dati e le percentuali sono tanti (li potete leggere nel dettaglio qui), ma ce ne sono 6 sui quali vi invitiamo a riflettere:

1- Giovani che pensano di svolgere il lavoro cui aspirano entro i 30 anni: 60%.
2- Giovani che apirano al posto fisso: 50% (meditate gente, meditate…).
3- Giovani che pensano di lasciare il tetto paterno entro i 30 anni: 45% (bamboccione, dove sei?).
4- Giovani che pensano di aprire un’impresa entro 5 anni: 16%.
5- Giovani del tutto disinteressati a svolgere attività politica: 77%.
6- Fiducia nella politica di incidere sul destino professionale dei giovani: 15,9%.

Proprio su questi ultimi 3 dati vale la pena soffermarsi. La paura di mettersi in gioco e la mancanza di fondi frenano poco meno del 30% di quell’84% che non si vede come imprenditore; quello che allarma è quel 61,6% di loro che rinuncia a mettersi in proprio perché non ha alcuna idea imprenditoriale, nemmeno la più banale. Nell’era della flessibilità e della creatività, riecco quindi il mitico posto fisso, comodo anacronismo italiano.

Sul rapporto tra giovani e politica, le percentuali sono invece impietose e si commentano da sole. Noi ci limitiamo a lanciare uno spunto. Visto che, in questo strano Paese, proprio dalla politica, più che dal mercato, le imprese si aspettano risposte, proposte e indirizzi, stupiscono proprio tanto quel 16 e quel 77% dei punti 4 e 5? O non è vero che, nel loro essere agli antipodi, dimostrano quanto l’uno sia la conseguenza dell’altro?