Marchionne ha vinto, viva Marchionne! Ma è sbagliato ignorare il consenso per Fiom

Solo la vicenda di Mirafiori ha conteso il primato delle prime pagine dei giornali all’ennesima puntata dello scontro fra Silvio Berlusconi e la Procura milanese per via del famoso bunga-bunga nella villa di Arcore con la minorenne Ruby e allegra compagnia. In effetti il referendum torinese è, da un certo punto di vista, più importante ed è destinato, nel lungo periodo, a incidere sulla vita del Paese più di quella cronaca francamente squallida.

Ai lavoratori dello storico stabilimento, il più grande d’Italia e fra i principali in Europa, è stato chiesto se approvavano o meno l’accordo firmato da azienda e tutti i sindacati, tranne la Fiom-Cgil, che prevede maggiore flessibilità in fabbrica, la possibilità di richiedere un numero più alto di ore di straordinario, una serie di misure contro l’assenteismo, eccetera. Insomma, un’intesa con l’obiettivo di aumentare la produttività, di rendere le catene di montaggio italiane paragonabili non a quelle cinesi o dei Paesi in via di sviluppo, ma a quelle della Germania oppure a quelle della Polonia dove, la  stessa Fiat produce, con l’identico numero di dipendenti, il doppio delle auto che riesce a sfornare a Torino.

Come si sa, l’amministratore delegato della Fiat, il grintoso Sergio Marchionne, condizionava a quel sì un piano di investimenti che (nelle sue promesse) avrebbe consentito di mantenere in vita l’impianto. Marchionne e l’azienda l’hanno avuta vinta, ma di stretta misura. Il referendum è passato, ma le previsioni di una marcia trionfale dei sì sono state smentite. Il 54 per cento dei dipendenti di Mirafiori si è espresso favorevolmente, il 46 ha votato contro. Determinanti per il successo sono stati gli impiegati dello stabilimento, i colletti bianchi, che in massa (o quasi) si sono espressi per il sì. Senza di loro, il referendum sarebbe passato per un soffio (7 voti): praticamente un pareggio. Questo vuol dire che dopo il 14 gennaio, la Fiat può impostare una nuova fase nei rapporti industriali con vantaggio per tutto il sistema Paese. Ma la Fiom-Cgil è tuttora protagonista nelle fabbriche e riceve consensi: può piacere o no, ma sarebbe un errore ignorarlo.

L’altra considerazione da fare riguarda i piani di sviluppo della Fiat. Ha voluto il referendum, lo ha vinto. Ora deve progettare, produrre, mettere in vendita modelli di auto di successo. Da questo punto di vista la situazione non è incoraggiante. Gli ultimi dati ufficiali (quelli di novembre) sono un campanello d’allarme: la quota della Fiat sul mercato europeo è scesa sotto il 7 per cento. Marchionne, quando ha varato l’operazione Chrysler, ha detto che, per essere competitivo, un produttore di auto deve poter contare almeno su 5 milioni di modelli venduti ogni anno. Se continua a perdere terreno come sta facendo, l’obiettivo per il gruppo italo-americano non fa che allontanarsi.

BARACCA&BURATTINI – Bossi, il volpone, lo sa: meglio avere un banchiere piuttosto che una banca

di Gianni GAMBAROTTA

Negli ambienti finanziari e bancari italiani si trovano alcuni manager di valore, un certo numero di mascalzoni e una quantità incalcolabile di mezze figure. È raro incontrare fra tutti questi grigi signori qualcuno che sia simpatico, sappia comunicare, intrattenere piacevolmente un uditorio anche su temi ostici come quelli legati al denaro. Uno sicuramente c’è: si chiama Massimo Ponzellini, presidente della Banca Popolare di Milano. I quotidiani si sono occupati di lui nei giorni scorsi perché subito dopo il vertice della Lega di fine anno a Calalzo di Cadore culminato con la “cena degli ossi” fra tutti i fedelissimi del Carroccio, il leader Umberto Bossi ha intrattenuto proprio il banchiere in un lungo colloquio notturno. Suscitando l’invidia dell’entourage del leader delle camicie verdi e una dichiarazione ostile del segretario provinciale del Pd, Maurizio Martina, nei confronti di Ponzellini: “Stare al summit della Lega è inopportuno – ha detto –. La Bpm non è di Bossi, ma dei milanesi“.

E milanese Ponzellini non è, ma di Bologna. Suo padre Luigi, per 40 anni membro del consiglio superiore di Bankitalia, era amico del padre di Renato Pagliaro, attuale presidente di Mediobanca. Nascita giusta, dunque, e amicizie giuste. Così come giusta è la moglie, Maria Segafredo, della dinastia del caffè.  Discutibili invece – dal punto di vista del suo attuale posizionamento – i suoi primi legami politici: è stato amico e assistente di Romano Prodi che lo ha ricompensato con vari incarichi importanti.

Oggi Ponzellini fa tante cose. Partecipa al comitato di esperti che affiancano l’Apsa (Amministrazione del patrimonio della sede apostolica) nei suoi investimenti finanziari; è presidente di Impregilo, la società di costruzioni controllata al 33 per cento ciascuno dai gruppi Benetton, Gavio e Ligresti; ed è appunto presidente della Popolare Milano. Queste ultime due cariche hanno suscitato accese polemiche: come può – si sono chiesti in molti – il numero uno di un istituto erogatore di credito essere anche a capo di un’impresa, l’Impregilo, affamata di credito tanto quanto i suoi azionisti? “Può” è stata la risposta di chi lo ha portato ai vertici della Popolare con l’appoggio aperto della Lega e quello più discreto di Giulio Tremonti.

La sua presenza alla “cena degli ossi” (allo stesso tavolo sedeva anche il ministro dell’Economia) dimostra che questo legame politico oggi è più saldo che mai. Bossi ha detto apertamente che Ponzellini è una sua creatura: “L’ho scelto io quando c’era da fare la nomina alla Bpm“. Nel 2005, ai tempi delle scalate (poi fallite) dei furbetti e dei loro amici, Piero Fassino, allora segretario del Pd, chiedeva a Giovanni Consorte, il capo dell’Unipol che tentava l’assalto alla Bnl. “Abbiamo una banca?“. Bossi, politico di razza, sa che spesso basta avere un banchiere.

Un attacco speculativo contro l’Italia? Occhio, non è solo fantapolitica

di Gianni GAMBAROTTA

E’ uscito da poco “La sostanza del bianco“, libro edito dal Gruppo 24 Ore. E’ un thriller finanziario firmato da John Stitch, pseudonimo di Claudio Scardovi, professore della Bocconi, ex Lehman Brothers, oggi consulente di grandi gruppi italiani e internazionali. E’ un libro che vale la pena di leggere, sperando che quello che racconta, e che sembra del tutto verosimile, non si trasformi in una realtà cronistica di un domani molto prossimo.

Stitch-Scardovi immagina che un gruppo di finanzieri in qualche Paese orientale veda nelle attuali difficoltà dell’Occidente, ancora in preda alla grande crisi iniziata nel 2008, l’occasione per realizzare degli utili stratosferici, giocando contro alcuni Stati. Questi speculatori, che godono dell’appoggio dei loro politici di riferimento desiderosi di diventare i nuovi leader del pianeta, lanciano un attacco contro l’euro, la valuta nata una decina di anni fa e che non è ancora riuscita ad assicurarsi un ruolo solido. E per centrare il bersaglio, pensano di incominciare a muovere contro l’Italia, il ventre molle del sistema europeo.

Si tratta di un romanzo di fantapolitica, certamente. Ma l’autore non ha dovuto lavorare troppo di fantasia per immaginare la trama. Forse non ci saranno oscuri personaggi che, con l’avallo o la regia di spregiudicati politici, preparano una congiura per assicurarsi la supremazia mondiale. Però, che sia in atto una sorta di guerra globale combattuta attraverso le monete è indubbio, basta vedere che cosa sta succedendo fra Stati Uniti e Cina: Washington che continua a chiedere con insistenza una rivalutazione dello yuan e Pechino che, ostinatamente, la rifiuta.

Quando ci sono guerre in vista (o in corso) sono normalmente i vasi di coccio i primi a rimetterci. E questo, purtroppo, è lo stato in cui si trova l’Italia. Il Paese, come ha scritto anche lunedì scorso sul Corriere della Sera il professor Francesco Giavazzi, ha due problemi: il primo è costituito dal più alto debito pubblico d’Europa; il secondo da un’economia che cresce meno della media dell’Europa. Non è vero che l’Italia, nella crisi, abbia fatto meglio dei suoi partner: ha perso più punti di crescita di Germania, Francia, Inghilterra; ha avuto performance migliori solo rispetto a Spagna, Grecia, Portogallo.

Se la situazione non cambierà, se non riuscirà a recuperare – e in fretta – la strada della crescita, l’Italia non riuscirà a migliorare il rapporto debito/pil. Il mercato vede chiaramente questa difficoltà e le sta puntando contro. Il differenziale di tassi fra titoli pubblici italiani e tedeschi in continuo aumento ne è la conferma. Speriamo che Stitch-Scardovi non abbia buone qualità di futurologo.

Intervista all’on. Raffaello Vignali, promotore dello “Statuto delle imprese”

di Davide PASSONI

Questa settimana, per la prima volta, la rubrica Controcanto ospita una intervista. Fatevene una ragione: al direttore piace scrivere, piace parlare, piace dire la propria, ma a volte lascia agli altri questo compito, specialmente se ciò che hanno da raccontare è di qualche interesse per voi lettori.

Dopo la lettera-verità della scorsa settimana, con lo sfogo amaro di una professionista vittima di uno squallido subordinato, oggi tocca a un politico. Non storcete il naso, dai: a volte la politica italiana sa offrire qualcosa di molto diverso dal teatrino degli ultimi mesi, culminato con la grand soirée del 14 dicembre sul palcoscenico di Montecitorio. E lo offre anche nel campo dell’economia e del sostegno alle Pmi. La voce che ascoltiamo è di un esponente del Pdl che proprio alle Pmi ha sempre guardato con estrema attenzione, l’on. Raffaello Vignali.

A tutti coloro che sono pronti ad alzare il ditino lo dico e lo ripeto subito: Infoiva non ha colore politico e il fatto che oggi parli sulle sue pagine un esponente dell’attuale “maggioranza” (mi si passino le virgolette…) è perché, come avete letto qualche riga più su, ha da dire cose di un certo interesse per chi legge. Anche all’opposizione ci sono proposte e idee valide per sostenere e rilanciare il nostro tessuto produttivo ed economico; ascolteremo anche loro, senza dubbio, perché quello che ci interessa è l’Italia che produce e che propone, non quella che chiacchiera, e questa Italia c’è anche da una parte all’altra del nostro arco costituzionale. Noi abbiamo messo da parte i pregiudizi: fatelo anche voi e ascoltate senza filtri tutti coloro ai quali Infoiva vorrà dare voce. Oggi tocca all’on. Vignali.

Data l’attenzione che da sempre rivolge al mondo delle PMI, quali sono secondo lei gli ambiti su cui intervenire più urgentemente per “liberare” le imprese italiane e ridare loro slancio e competitività? Fiscalità, accesso al credito, costo del lavoro o che altro?
La prima condizione è un cambiamento culturale: passare dal sospetto alla fiducia verso chi fa impresa. Se si parte dal sospetto vengono posti migliaia di lacci e laccioli e pure tasse. Partendo dalla consapevolezza che chi fa impresa costruisce il bene per tutti, le cose cambiano. Detto questo, le prime cose che chiedono le imprese, soprattutto le piccole, non sono gli incentivi ma, piuttosto, semplificazione e tutela. Semplificazione: ovvero le norme che servono, e non una di più, tempi certi nella risposta da parte della PA e norme a misura di impresa (non pensate sulla taglia delle grandi aziende). Tutela significa difendere chi produce rispettando le norme. La Camera di Commercio di Milano stima in 10 miliardi di euro all’anno il mercato della contraffazione per la sola Lombardia. Il contrasto a questo fenomeno può farlo solo lo Stato. Nei prossimi giorni il Ministro Romani insedierà il Consiglio Nazionale Anti Contraffazione e chiederà ai nove Ministeri coinvolti – e ai soggetti che da loro dipendono – di intensificare il contrasto a questo fenomeno, utilizzando tutti gli strumenti a nostra disposizione. Anche a Bruxelles stiamo lavorando per approvare il regolamento “made in” che prevede l’obbligo di tracciabilità per tutte le merci che vengono importate in Europa. Poi speriamo che le condizioni dell’economia ci consentano di abbassare le tasse, perché abbiamo bisogno di lasciare più risorse nelle imprese per gli investimenti.

Quali sono le proposte e le iniziative che lei ha elaborato durante la sua esperienza parlamentare a sostegno delle imprese e dell’imprenditorialità?
In questi due anni ho lavorato su questi aspetti, sia intervenendo sui disegni di legge che passavano al Parlamento, sia con le proposte di legge per “l’impresa in un click” e – soprattutto – con quella che porta un titolo significativo “Norme per la tutela della libertà d’impresa. Statuto delle imprese”, che nelle prossime settimane approderà in Aula a Montecitorio. Lo Statuto allarga i principi dello Small Business Act dell’Unione Europea e li trasforma in diritti per le imprese.

Per l’economia italiana è più dannosa la crisi globale dalla quale ancora stenta a uscire o l’incertezza del quadro politico nazionale? Perché?
La cosa più dannosa è quella denunciata poco tempo fa da Giuseppe De Rita in occasione della presentazione del rapporto del Censis, ovvero la mancanza di desiderio, che riguarda tutto il Paese. Il desiderio è come la scintilla con cui si accende il motore, perché è ciò che rende protagonisti, che permette di rischiare per costruire. L’opposto del desiderio sono la sazietà e la mancanza di speranza. Nella mia regione, la Lombardia, in questi mesi sono più le imprese che hanno chiuso per mancata successione di quelle che hanno chiuso per la crisi… Quanto alla politica, il rischio che vedo è quello dell’astrazione, la separazione dalla realtà; se si è astratti non vengono assunte responsabilità, si segue solo il consenso immediato, cioè le mode. Di fronte alle sfide che abbiamo davanti, servirebbe invece responsabilità come sta chiedendo, inascoltato, il Presidente Berlusconi. Anche i media non aiutano, presentando solo il negativo, la rissa o un Paese visto morbosamente dal buco della serratura. Aspetto da anni di vedere raccontata in prima serata Rai una piccola impresa che innova, che va all’estero, che non licenzia, che resiste. Eppure sono la stragrande maggioranza, sono milioni…

Secondo lei c’è un Paese in Europa, oggi, al quale possiamo guardare come modello virtuoso per la gestione della fiscalità? Se sì, qual è? Se no, perché non ce ne sono?
A me piace il sistema fiscale irlandese, che prevede una tassazione flat al 12,5 per cento. Anni fa era al 50 per cento e quando hanno abbassato le tasse, nei tre anni successivi il gettito fiscale è triplicato. La crisi dell’Irlanda non è imputabile al sistema fiscale, ma alla trappola della finanza creativa. Nei giorni scorsi abbiamo visto tutti il braccio di ferro che ha fatto con la UE, che le chiedeva di aumentare le tasse per coprire il deficit; l’Irlanda si è detta piuttosto disposta a rifiutare l’aiuto europeo che a manovrare il fisco in senso peggiorativo. Hanno ragione gli Irlandesi, perché considerano la crescita fattore essenziale della stabilità.

Se vuole, legga con attenzione la testimonianza riportata in questo link. Che cosa può fare la politica per tutelare il patrimonio di capacità, volontà, idee e ricchezza che i liberi professionisti portano quotidianamente all’Italia e alla sua economia e che spesso viene ignorato se non calpestato?
Intanto va detto che il caso in questione è anomalo: si tratta di una elusione delle norme sul lavoro. Quando si è in regime di monocommittenza, con un orario minimo fisso di 8 ore, non si può parlare di libera professione, ma di un grave errore da parte dello studio professionale. Si fa aprire la partita Iva a una persona che svolge un lavoro subordinato, riducendo il costo del lavoro al 20 per cento, Irap compresa: siamo nel campo dell’irregolarità. Detto questo, vale per le partite iva quello che vale per le piccole imprese, quali sono a tutti gli effetti. Si può lavorare a più livelli. A me piace molto la legge francese sulla microimpresa fatta dal Ministro dell’Economia e ne stiamo presentando una versione italiana alla Camera. Lo Statuto delle Imprese, poi, riconosce alle certificazioni rese dai professionisti un ruolo alternativo a quello del controllo da parte della PA.

La missione principale della nostra testata è quella di trasmettere ottimismo al “popolo delle partite IVA”: da parlamentare della Repubblica, lanci il suo messaggio di ottimismo perché questo “popolo” continui a credere nelle potenzialità del nostro Paese.
Guardare il positivo che c’è, a cominciare dal desiderio di essere protagonisti della propria vita. Siamo un popolo straordinario, che nella difficoltà riesce a tirar fuori il meglio di sé. Non dobbiamo avere paura della vita. E dobbiamo fare rete tra chi vive quotidianamente il proprio impegno con senso di responsabilità.

Photo: AGLAIA

Ma la politica s’è accorta della svolta epocale decisa da Marchionne?

di Gianni GAMBAROTTA

Mentre i palazzi della politica sono tutti impegnati a contare voti e a immaginare coalizioni governative, maggioranze improbabili, o ricorsi al popolo sovrano, fuori da queste segrete stanze succedono cose davvero importanti che lasceranno un segno nella storia del Paese. Il manager con il maglione, l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, ha deciso che d’ora in poi la prima fabbrica italiana farà a meno della Confindustria. Tratterà i suoi rinnovi contrattuali in assoluta indipendenza, concluderà gli accordi con i sindacati che vorranno sottoscriverli e andrà avanti così, incurante di pressioni, suggerimenti alla prudenza, proteste di piazza.

Perché ha preso questa decisione, che del resto era nell’aria da settimane, è noto. La Fiat ha assunto il controllo della Chrysler, è diventata davvero una multinazionale impegnata su tutti i mercati mondiali. E da azienda globale qual è adesso, deve seguire le regole che si applicano appunto a livello globale. Se non fa così, non può sperare di sopravvivere alla competizione internazionale ogni giorno più dura. Che cosa vuol dire questo? Quale novità reale, sostanziale porta il nuovo corso di Marchionne?

L’Italia, dalla fine della guerra e in maniera più accentuata dall’autunno caldo del 1969 in poi, è stata pesantemente condizionata dalla presenza sindacale. Per 60 anni, la cosiddetta Triplice (Cgil, Cisl, Uil) ha avuto un potere decisivo non solo su temi retributivi e normativi relativi al mondo del lavoro, ma su tutti gli aspetti della politica che, direttamente o indirettamente, toccavano l’economia. Non c’è stata decisione che non sia stata affrontata al cosiddetto tavolo delle parti sociali, vale a dire governo, sindacati e organizzazione degli imprenditori (Confindustria).

Questo ha portato a una lentezza del processo decisionale che non ha confronti nei moderni Paesi industrializzati. Ha creato inefficienza. Ma fosse stato solo questo: ha creato una situazione che, nel tempo, ha palesato un contenuto di profonda ingiustizia politica e sociale. Con un simile sistema si è dato vita a un Paese diviso a metà: una parte più privilegiata fatta da imprese e lavoratori rappresentati sindacalmente, più protetta, più forte, con più diritti; l’altra, formata da tutti quelli che non appartengono alle suddette categorie e assai più numerosa, esclusa da privilegi e aiuti, ridotta al rango di Serie B.

La scelta di Marchionne, che ha deciso che disegnerà le future strategie Fiat senza passare sotto le force caudine della potentissima Fiom-Cgil e risparmiandosi le liturgie confindustriali, manda in pensione due elementi che sono stati determinanti nel sistema di potere nazionale. Se ne stanno accorgendo i signori del Palazzo? Riescono a vedere che fuori dall’emiciclo di Montecitorio e lontano dai riflettori dei talk show televisivi tanto amati, il Paese sta andando avanti per la sua strada? E che fa scelte storiche senza neppure interpellare la politica?

L’amarezza di essere partitivista: una lettera-verità per dire basta ai soprusi

di Davide PASSONI

Qualche giorno fa è giunta a Infoiva una e-mail inviata da una professionista che ha voluto portare alla nostra attenzione la propria amara esperienza da “partitivista”. Chi ci segue sa che la missione della testata è quella di raccontare “un popolo fatto di piccoli imprenditori e liberi professionisti, che con spirito, tanta volontà, sacrificio e coraggio, gestiscono in maniera autonoma il proprio lavoro, costituendo la colonna portante del nostro sistema produttivo. Perché il Popolo delle Partite Iva è l’Italia che produce“. Offrire, insomma, ottimismo, per quanto nelle nostre capacità e per quanto la congiuntura in cui viviamo ce lo consente.

Tuttavia, non riteniamo corretto né utile chiudere gli occhi di fronte alle tante realtà e situazioni nelle quali chi vive (o sopravvive…) e lavora a partita Iva ha da spendere tutto fuorché l’ottimismo; perché il nostro sistema fiscale, il welfare, la contrattualistica professionale, il mondo bancario – per non parlare di quello sindacale – non lo tutelano e, anzi, sembrano farsi beffe di quello che, invece, è il suo patrimonio di maggior valore: lo spirito di imprenditorialità.

Poiché siamo stufi di veder considerati i partitivisti come dei figli di un dio minore, abbiamo deciso di pubblicare la lettera della nostra amareggiata lettrice: la trovate qui sotto. In più, abbiamo chiesto al nostro contributor, avvocato Matteo Santini, un commento dal punto di vista legale a questo tipo di realtà: eccolo.

Come è ovvio, abbiamo attribuito alla lettrice un nome di fantasia ed eliminato ogni riferimento spazio-temporale alla sua situazione per tutelarne l’anonimato. Anche perché, si chiami essa Luisa, Paola, Domitilla o Sofia, poco ci interessa: quello che vogliamo è portare alla luce una storia che è una come cento, mille altre, perché chi nel Palazzo ha a cuore la sorte della nostra economia e i diritti di contribuisce a svilupparla, si renda conto di che cosa significa oggi essere professionista. Omettiamo l’aggettivo “libero” per decenza e per rispetto nei confronti della nostra lettrice.

Salve,
mi chiamo Luisa e sono una “giovane architetto”… se a 34 anni si può ancora essere considerati giovani.
Vi scrivo per porre alla vostra attenzione la mia situazione professionale, anche io ahimè faccio parte del cosiddetto “popolo delle partita IVA”.

Ho cominciato a lavorare nel 2002 negli Studi Professionali e nel 2003 mi sono sentita dire: “Se vuoi continuare a lavorare per me, devi aprire la Partita Iva”. Allora ero abbastanza ignara dei sistemi fiscali, e soprattutto di diritti dei lavoratori e ho fatto quello che mi veniva richiesto, così come anche altri milioni di professionisti nel Paese. Mi sembrava normale, ricevere una retribuzione oraria… All’inizio mi sembrava normale anche non ricevere alcuna retribuzione durante il mese di agosto (lo studio era chiuso), durante le vacanze comandate, Natale, Pasqua e anche nel caso in cui per motivi di salute non fossi stata in grado di andare al lavoro.

Piano piano, le persone intorno a me, i miei amici coetanei, si laureavano e intraprendevano la loro carriera lavorativa… Chi negli ospedali come medici, chi in banca, altri ancora nel commercio o negli uffici pubblici e cominciavo a sentir parlare di “ferie”, di “malattia”, di “maternità” e addirittura di “tredicesima”!!!! E allora mi è cominciato a sorgere il dubbio che forse la mia situazione di giovane professionista collaboratrice di studi professionali, non era poi così normale.

Un giorno per curiosità ho contato le giornate lavorative e mi sono accorta che noi giovani professionisti, non solo non conosciamo il significato di tutte le condizioni sopraelencate, che dovrebbero appartenere alla categoria dei lavoratori, ma addirittura in un anno, lavorando tutti i giorni, almeno 8 ore al giorno, fatturiamo 10 mensilità piuttosto che 12… Niente male!!

Nello studio presso il quale presto la mia collaborazione (con obblighi di presenza giornaliera di 8 ore) si copre la fascia di età dai 28 ai 40 anni e le differenze retributive sono pressocchè minime: andiamo dai 12 euro/ora, ai quali si deve togliere la Ritenuta d’Acconto (20%) e il contributo Inarcassa (ente previdenziale a cui siamo obbligati a iscriverci e a versare i contributi a nostre spese) che si attesta intorno al 12%, sino ai 7 euro/ora dei neolaureati.

Purtroppo la nostra categoria di lavoratori (che vedete bene, non ha niente a che vedere con la figura del Libero Professionista), oggi non è affatto considerata e tutelata dagli enti di governo e sindacati. Si sente parlare sempre del problema del precariato e degli operai ma mai di noi finte partite Iva.

Oggi in Italia si ha ancora questa convinzione: Architetto/Avvocato/Ingegnere = libero professionista = categoria privilegiata. Ma questo è vero, in parte, solo se si fa “realmente” la libera professione. Magari fossimo davvero liberi professionisti, o meglio, magari potessimo avere la possibilità di esercitare la professione liberamente, intendendo con questo autonomamente e non alle “dipendenze” (ma solo in termini di obblighi) di altri liberi professionisti.

Qui si apre il capitolo dei bandi pubblici per affidamento di incarichi professionali, dove per partecipare devi avere già esperienza nella categoria a cui appartiene l’intervento in oggetto. Esempio, se si vuole partecipare al bando per la selezione dell’ampliamento di una scuola, si deve possedere già nel proprio curriculum un affidamento di incarico per l’ampliamento, ristrutturazione, o nuova edificazione di almeno una scuola… niente di più facile e ovvio!! La conseguenza di questa normativa nell’affidamento di lavori pubblici, ci sembra abbastanza evidente. Come giustamente ha detto recentemente Renzo Piano nel suo bell’intervento alla trasmissione Vieni via con me, in Italia oggi un architetto prima dei 50 anni non ha la possibilità di “fare” nulla. Ed è tristemente vero.

Proseguo con il racconto di situazioni e difficoltà, che ogni giorno ci dobbiamo trovare ad affrontare.

Un venerdì pomeriggio di qualche mese fa sono stata chiamata dai miei due capi nella loro stanza. Con facce diabolicamente meste e contrite mi dicevano che purtroppo la mole di lavoro era di molto diminuita per la loro Società, e che pertanto erano costretti (con il cuore in mano) a fare dei tagli e che la prima ero io, guarda caso, la professionista che al momento percepiva più di tutti all’interno dello studio e che, come potrete immaginare, non stava mai zitta di fronte a ingiustizie e comportamenti poco rispettosi nei nostri confronti. In poche parole, dopo 3 anni e mezzo di collaborazione, mi dicevano che nel giro di 2 settimane (avete capito bene, 2 settimane), sarei dovuta andare via. Sotto mia richiesta le 2 settimane sono diventate 4.

Immediatamente la mia preoccupazione più grande in quelle 4 settimane è stata provare a bloccare il mutuo per qualche mese, come previsto anche dalla Finanziaria di Tremonti. Certo, si può fare, mi hanno detto alla Banca. Mi deve portare il Contratto di Assunzione e la Lettera di Licenziamento. Ovvio. Peccato che io, come libera professionista a partita Iva non sappia neppure cosa sia un Contratto di Assunzione. Per buon cuore della Sig.ra responsabile dei mutui presso la Banca, abbiamo tentato altre strade, legate alle direttive interne della Banca stessa, e non a direttive “statali”, in quanto per quelle, non sussistevano le condizioni per me, per poterne usufruire. Mi è stato chiesto di ottenere una lettera dai miei capi, in cui si dichiarasse che io dal mese successivo non avrei più fornito collaborazione presso la loro Società.

Mi hanno fatto aspettare e penare 20 giorni prima di firmare questa lettera, modificandola e parlandone con il loro commercialista… riuscite a immaginare di cosa potessero avere paura?

Ma il bello deve venire.

In quello che arvebbe dovuto essere il mio ultimo giorno di lavoro, mi hanno chiamato nuovamente, dicendo che la situazione era cambiata (un altro professionista come me, era andato via) e loro avrebbero avuto piacere che io continuassi. Ovviamente ho dovuto dire di sì, ma potete ben immaginare con quale stato d’animo. E da allora sono ancora lì.

Nel frattempo una mia collega dello studio, è rimasta incinta per ben due volte, ma entrambe le volte con gravidanze difficili, nessuna delle due andate a buon fine. E’ dovuta stare a casa la prima volta un mese circa, e la seconda volta 3 mesi, senza percepire alcuna retribuzione secondo l’equivalenza no lavoro = no guadagno, che andrebbe bene se fossimo realmente liberi professionisti, non certo dipendenti quali siamo, costretti da una presenza quotidiana nello studio e un orario ben stabilito di 8 ore al giorno.

Lei ha ottenuto per fortuna, un piccolo risarcimento da Inarcassa, la Cassa di Previdenza di Ingegneri e Architetti, ma dopo la seconda volta, alla richiesta di voler ricominciare a lavorare, si è sentita rispondere che il lavoro è molto diminuito e che al momento non c’è posto per lei nello studio; peccato che nel frattempo, siano arrivate due giovani neo laureate, che sommando il loro stipendio, arrivano a percepire quanto lei da sola. Strana coincidenza anche questa no??

Ciò che oggi più mi fa arrovellare, è cercare di capire il perché del totale silenzio da parte dei politici, dei sindacati e anche dei giornalisti, su una situazione ogni giorno più grave e pesante. Unica testata di impatto pubblico che ha scritto un articolo, è stato il Venerdì di Repubblica, nel numero 1160 di Giugno 2010 “L’Italia delle partite iva”.

Vi ringrazio per la cortesia di avermi ascoltato in questo sfogo… Noi, giovani professionisti (ma ripetiamo, non più così giovani!!!!) siamo stanchi e molto preoccupati per il nostro futuro. Vorremmo che la questione venisse fuori con vigore e allarme, per far sì che in primis i giovani professionisti e non meno gli enti di governo, ne acquisiscano la consapevolezza. Io sono infatti convinta, che il mal costume che persiste oggi all’interno degli Studi Professionali, sia anche conseguenza dell’apatia di chi ci lavora, che da anni ha accettato passivamente le condizioni su descritte, tanto da far sì che oggi appaiano quasi normali.

Credo sia abbastanza evidente dalle mie parole, che il malcontento sta aumentando sempre più. Ci vediamo calpestati nei diritti fondamentali di una persona che lavora: nessuna tutela nella malattia, nessuna tutela nel mettere al mondo un bambino, nessuna tutela nell’essere allontanati da un giorno all’altro, siamo ben lontani dal rispetto del lavoro e dei diritti che ne dovrebbero seguire, che sono alla base di una società civile e progressista.

Certa di una vostra risposta e collaborazione, porgo i miei più cari saluti e rinnovo la speranza che grazie a voi e al vostro giornale, qualcosa possa cominciare a muoversi e a emergere.

Consolidare il debito pubblico? Caro Della Vedova, pesa bene le tue parole…

di Gianni GAMBAROTTA

Futuro e Libertà, il movimento che fa capo al presidente della Camera, Gianfranco Fini, annovera nelle sue schiere molti esponenti che in queste settimane hanno goduto di grande attenzione mediatica. E non potrebbe essere diversamente, visto che da loro dipende il futuro del governo: è ovvio che giornali e tv seguano con interesse le loro dichiarazioni, le loro prese di posizione. Fra questi esponenti politici ce n’è uno che conta in modo particolare, tanto da essere considerato il braccio destro di Fini, ascoltato dal capo su tutti gli argomenti, in particolare su quelli che hanno attinenza con l’economia.

Si tratta di Benedetto Della Vedova, ex militante del Partito Radicale, politico raffinato ed esperto che, qualche giorno fa, parlando in uno dei tanti talk show televisivi ha affrontato il tema spinoso del debito pubblico, un macigno che grava sull’Italia da anni e finisce persino per condizionarne la sovranità. Della Vedova ha detto, senza scomporsi, che la soluzione è molto semplice: l’Italia dovrebbe fare come ha fatto tempo fa l’Argentina, che ha consolidato il debito. Che significa? Questo: che non lo ha restituito alla scadenze previste, ma lo ha dilazionato. Della Vedova ha detto che questa è una ricetta validissima: per esempio i titoli di Stato in scadenza fra cinque anni, si potrebbero rimborsare fra 50 anni. Così si sposta il problema e, anzi, lo si annulla perché in mezzo secolo l’inflazione si occuperà di azzerare (o quasi) il valore reale di quel debito.

Ora ci si domanda: ma com’è possibile che un leader politico faccia affermazioni di questo genere? Non sa Della Vedova che il Tesoro italiano nel 2011 dovrà collocare sui mercati titoli per 200 miliardi di euro? Stiamo parlando di un quarto di tutto il debito pubblico che sarà emesso in Europa nei prossimi 12 mesi. Per convincere gli investitori a sottoscriverlo, il Tesoro dovrà già pagare interessi più alti rispetto alla Germania e avrà bisogno di trovare sui mercati un clima di fiducia nei confronti dell’Italia. Clima che, come tutti sanno, non c’è. Anzi, c’è diffidenza, timore che la crisi finanziaria, dopo aver colpito Grecia e Irlanda e minacciato seriamente il Portogallo, punti direttamente verso di noi dato il caos politico che regna dalle nostre parti. E a questi mercati, Della Vedova, sostanzialmente dice che il nostro governo, a suo avviso, in futuro non dovrebbe onorare gli impegni.

C’è da sperare che il Financial Times e gli altri media sempre molto critici con l’Italia, ma seguitissimi dalla business community, non si siano accorti delle dichiarazioni di Della Vedova, o che non le abbiano ritenute degne di attenzione. E c’è da augurarsi che il prossimo governo (qualunque sia) sia formato da persone che pesino bene le parole quando toccano argomenti delicati come il debito sovrano.

Il Consiglio Nazionale degli Ingegneri plaude all’iniziativa Diritto al Futuro promossa dal Ministro Meloni

Secondo il Consiglio Nazionale degli Ingegneri (Cni), “Diritto al Futuro”, l’iniziativa intrapresa dal Ministro Meloni per i giovani, è una buona opportunità che guarda alle nuove e pressanti necessità dei giovani alle prese con la delicata fase che attraversa il mondo del lavoro. Secondo il Cni, Diritto al Futuro può essere un’opportunità anche per gli ingegneri italiani, così da lanciare una proposta al Ministro: creare un Tavolo con soggetti istituzionali di categoria e operatori economici, per andare incontro ai giovani professionisti.

Giovanni Rolando, presidente del Cni, ha dichiarato che il Consiglio Nazionale degli Ingegneri si è già attivato per costituire un Tavolo permanente sulle politiche giovanili, temi che necessitano di forte attenzione anche con riferimento all’attuale incremento di giovani ingegneri all’interno degli albi. Diversi gli interlocutori istituzionali già interpellati dagli ingegneri. “Lo stesso ministro Meloni -precisa Rolando- si è detta interessata all’iniziativa meritevole, impegnandosi inoltre con i giovani professionisti italiani e gli ordini professionali a lavorare per far recepire le loro istanze”.

Al Tavolo verranno invitati in questi mesi, oltre lo stesso Ministero della Gioventù, soggetti istituzionali, come Anci, Upi, Inarcassa, ma anche operatori economici come Abi, Camere di Commercio, Ance e Oice. Si tratta di “un percorso ambizioso che è solo all’inizio -dice Rolando- ma che punta a individuare misure concrete per i giovani che hanno scelto la via delle professioni intellettuali, come quella dell’ingegnere, e magari vorrebbero aprire studi, anche in forma associata. Molti giovani professionisti (e anche questo è scaturito dal recente Congresso degli Ingegneri) hanno la forte esigenza di rapportarsi in modo più efficace ed efficiente -conclude- con il mercato del lavoro”.

Laura LESEVRE

Da WikiLeaks più che rivelazioni scottanti, la scoperta dell’acqua calda

di Gianni GAMBAROTTA

Il titolo più forte è stato quello, lunedì mattina, di Repubblica: “WikiLeaks, tempesta sul mondo”. Soltanto un po’ più debole della dichiarazione (apparsa ai più un po’ fuori misura) del ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, che aveva parlato di “un 11 settembre della diplomazia”. Comunque tutti i media hanno dato – ci mancherebbe altro – grande rilievo ai 250mila report messi on line dal sito di Julian Assange, che ha rivelato decenni di rapporti segreti (o per lo meno riservati) della diplomazia americana.

Le osservazioni da fare su quanto è successo sono essenzialmente due. La prima riguarda l’efficienza del sistema America. Come è possibile che quella che tuttora si considera (ed è considerata) la prima potenza del mondo sia attaccabile in una simile maniera da questo signore di 39 anni dall’aspetto un po’ stralunato che non si sa bene da dove venga? Come ha potuto avere tranquillamente accesso al sistema informatico del Dipartimento di Stato? Si dice: ha avuto l’appoggio di qualche insider contrario alla politica di Barack Obama, desideroso di screditarla. D’accordo. Ma questo qualcuno è stato libero di scorazzare per i computer del ministero degli Esteri statunitense mettendo in piazza la corrispondenza intercorsa per decenni (si parte dal 1966) con tutte le sue sedi diplomatiche in giro per il mondo. Questo è un colpo letale per la credibilità degli Stati Uniti, per la loro ambizione di restare il Paese leader del mondo. Da oggi la diplomazia americana è screditata. Pensiamo alle zone di tensione come l’Afghanistan o il Medio Oriente: con quale credibilità gli ambasciatori o emissari di vario tipo di Washington potranno interloquire con le diverse controparti? Chi li ascolterà e parlerà con loro sapendo che quanto viene detto potrà un domani essere comunicato ai quattro venti?

La seconda osservazione da fare è sul contenuto di questi 250mila file che giorno per giorno vengono messi sul sito. Potranno riservare rivelazioni eclatanti, certamente. Ma quello che si è visto finora, francamente, non è granché. E di nuovo getta un’ombra sull’efficienza della diplomazia americana. Ci vogliono davvero degli agenti segreti, degli specialisti per dire che Ahmadinejad è il nuovo Hitler? Che Sarkozy è arrogante e, in fondo, un pallone gonfiato? Che la Merkel è un po’ una signora tentenna? Che Berlusconi ha l’abitudine di passare serate in festini non proprio raccomandabili? Per avere queste informazioni, bastava leggere i giornali o abbonarsi a una rassegna stampa. Se questa è l’intelligence americana, si può fare un solo commento: Barack Obama deve tagliare le spese pubbliche per ridurre il deficit di bilancio. Potrebbe dare una bella sforbiciata anche qui.

L’UE boicotta il cioccolato italiano

Un grave attacco al made in Italy” è stato il commento del presidente di Confartigianato Alimentazione, Giacomo Deon, dopo che Corte Ue ha bocciato la denominazione italiana”cioccolato puro”.

La motivazione della Corte europea: l’aggiunta di grassi sostitutivi a prodotti di cacao e di cioccolato che rispettano i contenuti minimi previsti dalla normativa Ue in materia non può produrre l’effetto di modificarne sostanzialmente la natura, al punto di trasformarli in prodotti diversi e, di conseguenza, non giustifica una distinzione delle loro denominazioni di vendita.

Giacomo Deon, oltre ad essere presidente di Confartigianato Alimentazione é un pasticcere bellunese nonché un rinomato cioccolatiere. A questa notizia ha esclamato:

Sono costernato. A quanto pare qualità degli alimenti e chiarezza di informazione ai consumatori non sembrano stare a cuore all’Unione europea. Si tratta di un grave attacco alla tradizione made in Italy che ha nell’artigianato un settore di punta nella produzione di cioccolato puro, realizzato esclusivamente con i seguenti ingredienti: pasta di cacao (composta soltanto da burro di cacao e cacao), zucchero, latte in polvere, aromatizzanti naturali. La denominazione cioccolato puro costituisce una preziosa garanzia di qualit per i consumatori che infatti hanno premiato i nostri prodotti”.

Paola Perfetti