Art.18 da luna di miele: sentenza contro licenziamento senza giusta causa

 

Chi l’ha detto che dopo le nozze si deve partire subito per la luna di miele? E perché mai questo dovrebbe comportare un licenziamento per giunta “per giusta causa”? A stabilirlo è la Suprema Corte che ha respinto il ricorso della società aeronautica Aerosoft, in causa con un suo ingegnere partenopeo.

La vicenda è andata così, e siamo sempre alle prese con il tormentato Articolo 18.

Nel 2008, la Corte d’appello di Napoli aveva sentenziato che l’ingegner Mario G. aveva diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro.

Il dipendente era partito per la luna di miele 10 giorni dopo la celebrazione delle sue nozze. All’Aerosoft la cosa non era andata giù, e aveva detto bye bye al lavoratore neo sposino.

Come l’ha presa lui? Si sono ritrovati tutti sotto il martelletto del giudice, che lo aveva giustificato.

Oggi, con sentenza 9150 la Corte di Cassazione è tornata a dargli ragione, imponendo ad Aerosoft il pagamento delle spese processuali più 3,000 euro per l’avvocato difensore dello sposo.

Con questa decisione si stabilisce che i lavoratori in vista dei fiori d’arancio sono liberi di scegliere la data del loro viaggio di nozze che non necessariamente deve coincidere con quella della celebrazione del matrimonio. Allo stesso modo, gli imprenditori non possono dare il benservito ai quei dipendenti che scelgono di cominciare la loro luna di miele qualche tempo dopo il giorno più bello.

In sostanza, “la luna di miele può essere procrastinata ad un periodo ragionevolmente connesso, in senso temporale, con la data delle nozze, ciò essendo sufficiente a mantenere il necessario rapporto causale con l’evento”. Inoltre, la giornata del matrimonio non deve essere necessariamente ricompresa nei 15 giorni di congedo anche se il viaggio di nozze non può avvenire in maniera “del tutto svincolata dall’evento giustificativo”.

Detto tra noi: uno, il lavoro che fa, mica se lo sposa; ma quel che è giusto è giusto. Chissà se gli sposini avranno mandato una cartolina dalla loro vacanza!?
Paola PERFETTI

Diritto del lavoro, corso di perfezionamento a Roma

Quello del diritto del lavoro è senz’altro uno dei temi più caldi del momento, con una riforma del mercato del lavoro che incombe e un ordinamento giuridico che cerca di stare al passo con i tempi.

In questo senso si inquadra un interessante corso di perfezionamento a Roma sul tema “Art. 18 e licenziamenti, tra passato e futuro”. L’appuntamento è per giovedì 14 giugno 2012 nell’Aula Magna della Chiesa Valdese, Via Pietro Cossa 40, dalle 14 alle 20.

Il corso vale 6 crediti formativi. Per informazioni e prenotazioni www.dirittodellafamiglia.com, www.tuteladeidiritti.com

Modera e coordina l’avv. Matteo Santini.

RELATORI
Prof. Stefano Bellomo – Ordinario Diritto del Lavoro Università di Perugia
Prof. Nicola De Marinis – Professore di Diritto del Lavoro Università del Molise
Prof. Sergio Magrini – Professore Diritto del Lavoro presso la LUISS
Prof. Paolo Pizzuti – Professore Diritto del Lavoro Università del Molise
Prof. Giampiero Proia – Ordinario Diritto del Lavoro presso l’università di Roma Tre
Prof. Antonio Vallebona – Ordinario Diritto del Lavoro Università di Tor Vergata
Avv. Corrado Cardarello – Managing Partner Quorum Legal
Avv. Andrea Marziale – Partner Quorum Legal

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Riforma del lavoro, le imprese ringhiano

Ora che la riforma del lavoro è passata al Parlamento, vedremo quale testo uscirà dall’esame delle Camere.

Certo è che le “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”, così è indicata la riforma, hanno lasciato parecchi scontenti per strada. Era inevitabile, ma forse Monti stesso non pensava che le critiche più feroci gli sarebbero venute da quelle parti, imprese e banche, alle quali è sempre stato sintonicamente più vicino.

Detto della moderata soddisfazione di Cisl e Uil, della insolita apertura della Cgil e della ostinata ostilità della Fiom, dalle forze politiche di maggioranza è arrivato un sostanziale plauso mentre da Abi e Confindustria solo siluri. Alla Marcegaglia, in particolar modo, non è andato giù il dietro front sul reintegro del lavoratore in caso di licenziamento per ragioni economiche; un reintegro che, a detta di Monti, sarà limitato esclusivamente a “fattispecie molto estreme e improbabili“. Tanto che, secondo il premier, le imprese con il tempo capiranno. Intanto hanno capito che questa riforma lascia da parte i problemi veri, aumenta i costi del lavoro e penalizza le prospettive di investimento e di nuova occupazione.

Normale che, alla luce di questi ostacoli imprevisti, Monti stia pensando di chiedere la fiducia in Parlamento: poche modifiche, rapidità dell’iter, veloce conversione in legge.

Intanto, il giudizio dei mercati non pare essere positivo, contrariamente a quello della Commissione UE, che in una nota ha scritto: “Il Governo italiano sta dimostrando forte determinazione e impegno per affrontare la doppia sfida di consolidamento dei conti e crescita, i progressi fatti finora sono straordinari, e cruciale è ora l’adozione da parte del Parlamento della riforma del lavoro attesa da tanto“.

Di tono radicalmente opposto un totem dell’informazione mondiale come il Wall Street Journal, che ha scritto: “Gli ottimisti in Italia – ebbene sì, ve ne sono ancora – dicono che una riforma limitata è meglio di niente. forse. Tuttavia Monti è stato scelto per recuperare l’Italia dalla soglia di un abisso greco. La riforma del lavoro è una resa a coloro che la stanno portando laggiù“. Vedremo chi avrà ragione…

Articolo 18, i costi della riforma per le Pmi

Ne abbiamo parlato qualche giorno fa. I costi della riforma del lavoro, specialmente quelli legati alla modifica dell’articolo 18, rischiano di ricadere pesantemente sulle aziende. Qualcuno, ora, i conti di queste ricadute possibili li ha fatti e i risultati non sono proprio incoraggianti.

Lo studio meritorio è ancora una volta opera della Cgia di Mestre, secondo la quale, se sarà confermata la riforma dell’articolo 18 che prevede un indennizzo tra le 15 e le 27 mensilità per i dipendenti licenziati per ragioni economiche, i costi a carico dell’impresa potranno arrivare, per gli operai qualificati (sia del settore metalmeccanico, sia del settore del commercio), a un esborso massimo che sfiora i 49mila euro.

La Cgia di Mestre ha rilevato che un operaio metalmeccanico generico con 10 anni di anzianità e uno stipendio lordo di 1.418 euro, in caso di licenziamento per ragioni economiche dovrà essere indennizzato, nel caso delle 15 mensilità, con almeno 21.271 euro, nel caso delle 27 con 38.289 euro. Un operaio qualificato con 1.812 euro di stipendio mensile lordo, invece, percepirà un minimo di 27.177 euro (15 mensilità) fino ad un massimo di 48.918 euro (27 mensilità).

Passando dal metalmeccanico al commercio in caso di licenziamento per ragioni economiche, un operaio generico con una retribuzione mensile pari a 1.393 euro sarà risarcito con 20.895 euro (15 mensilità), con 37.612 euro (27 mensilità). Nel caso di un operaio specializzato con una retribuzione mensile lorda pari a 1.737 euro, con una indennità di 15 mesi prenderà 26.053 euro, 46.896 euro con 27 mensilità

Acuto, come sempre, il commento di Giuseppe Bortolussi segretario della Cgia di Mestre: “Al di là delle legittime posizioni di chi sostiene che un licenziamento non è mai monetizzabile, l’ammontare degli indennizzi da noi individuati è di tutto rispetto. Pertanto, non crediamo che gli imprenditori utilizzeranno questo strumento con una certa superficialità“.

Particolare non trascurabile, queste simulazioni le indennità sono al lordo delle ritenute Irpef. Nel caso poi fossero riconosciuti anche i contributi Inps (cosa che finora non paredovuta), l’esborso da parte dell’azienda aumenterà di un altro 30%.

Siamo proprio sicuri che una riforma dell‘articolo 18 in questi termini agevolerà la flessibilità in uscita?

Partite Iva, quanta ipocrisia

di Davide PASSONI

In questi giorni sul più grande quotidiano italiano si sta svolgendo un dibattito civile ma fermo sul popolo delle partite Iva. Ne sono animatori Dario Di Vico, firma del Corriere della Sera, da sempre attento a tutto quello che accade nel mondo dei partitivisti, e il ministro del Welfare Elsa Fornero, nella cui discussa ma necessaria riforma del lavoro il ruolo dei lavoratori a partita Iva assume, suo malgrado, un ruolo non secondario. Ha cominciato Di Vico con una lettera “perché nessuno ascolta le partite Iva?”, pubblicata il 25 marzo, di cui riportiamo un passaggio che è, letteralmente, oro colato:

[…] È sempre difficile stimare con precisione il numero delle partite Iva in Italia ma a fronte di flussi che paiono comunque consistenti c’è uno stock che può essere valutato tra i 5 e i 6 milioni. Un popolo fortemente differenziato al suo interno, dove non esiste una figura prevalente ma sono a partita Iva dentisti, consulenti di strategia, commercianti, artigiani, giovani in cerca di occupazione.

È importante sottolineare la compresenza di figure assai diverse tra loro perché nel dibattito di queste settimane c’è stato un eccesso di semplificazione. Si è costruita un’equazione tra lavoro professionale con partita Iva e irregolari del mercato del lavoro e di conseguenza la terapia prevalente che è stata proposta è sembrata essere quella di far transitare queste figure verso il lavoro dipendente regolare.

Quasi che tutto potesse ancora una volta essere ricondotto a due tipologie esclusive, le imprese e i dipendenti. Da qui alla riproposizione dello schema che assegna la rappresentanza sociale tutta a Confindustria e sindacati confederali, il passo è breve.

Accanto a molte finte partite Iva – è stato per primo il Corriere a parlare addirittura di una bolla del mercato del lavoro – esistono però persone che hanno scelto coscientemente il lavoro autonomo che poter usare il proprio tempo con modalità più flessibili, perché non amano le organizzazioni e le gerarchie, perché possono conciliare meglio professione e impegni di altro tipo , perché possono alternare a loro piacimento attività e formazione continua. Molti di costoro sono partite Iva mono-committenti perché magari sono impegnate su un progetto di ampio respiro e quindi totalizzante. Parecchi sono nativi digitali e stanno esplorando le nuove professioni del web. Parecchie sono donne. Se dovessimo applicare a loro gli schemi che si sentono ripetere in questi giorni si dovrebbe decidere d’imperio ‘tu sei una partita Iva finta, tu vera’[…]“.

Ieri, la risposta del ministro la quale, per quanto sia un tecnico, ha scritto al Corriere in puro politichese. In pratica, una non-risposta. Ecco il passaggio più significativo: “[…] abbiamo affrontato il tema delle partite Iva con l’occhio rivolto proprio alla più seria e profonda valorizzazione della componente «professionale» di uno strumento che, purtroppo, ha perso almeno in parte la sua natura originale.

«La riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita» è il titolo del documento che contiene le linee guida sulla base delle quali stiamo dando gli ultimi ritocchi al testo del disegno di legge che presenteremo in Parlamento entro tempi molto brevi. Nel testo, consultabile sul sito del ministero del Lavoro e su quello del governo, sono presenti evidenti indicatori della nostra volontà di combattere seriamente la tendenza a utilizzare la partita Iva non già come libera manifestazione di lavoro autonomo – e quindi come uno dei «volani» dello sviluppo e della crescita – bensì come percorso elusivo per ridurre il costo della manodopera e per evadere gli obblighi contributivi.

Le suggestioni avanzate da Dario Di Vico nella sua lettera sono molte e tutte di grande interesse. Richiedono però, per essere affrontate con serietà e concretezza, analisi relativamente approfondite che saranno definitivamente messe a punto entro pochi giorni […]“.

Leggiamo l’uno, leggiamo l’altra. L’impressione che rimane è che anche in questa riforma del lavoro, così come in altre azioni ispirate dal governo come quelle, per esempio, contro l’evasione fiscale, torni comodo e utile dividere gli schieramenti in bianco contro nero, con facili stereotipi che servono solo ad ammannire l’opinione pubblica: partitivista = irregolare, autonomo = evasore, per esempio. Da una riforma del lavoro ci aspettiamo qualcosa di più serio; oltretutto guardandola con gli occhi di chi, avendo la sventura di essere imprenditore di se stesso o lavoratore dipendente, viene investito dalle beghe dell’articolo 18 e vede l’intoccabile statale saldo sul suo piedistallo, immune da flessibilità in entrata, in uscita e licenziamenti per motivi economici. Alla fine, non possiamo che concordare con Di Vico: perché nessuno ascolta le partite Iva?

La lettera di Dario Di Vico

La risposta del ministro Fornero

Non si uccidono così anche le Pmi?

di Davide PASSONI

Dire che in Italia siamo bravissimi a martellarci gli zebedei è ancora troppo poco. L’attitudine a essere dei Tafazzi ce la portiamo infatti dentro a molti livelli, specialmente per quello che riguarda la nostra capacità imprenditoriale.

Prendiamo l’esempio delle Pmi. Costituiscono il 95% circa del nostro tessuto produttivo e ora scopriamo che il loro contributo alle esportazioni del Paese è pari al 50% del totale; un valore che nei settori tradizionali del Made in Italy è vicino al 70%. Lo dice una ricerca realizzata dal Centro Studi Cna in collaborazione con il Centro Tedis della Venice International University.

Secondo questa ricerca, le Pmi hanno una notevole proiezione internazionale, a partire dal segmento di imprese con meno di dieci dipendenti: nel 2008, circa 45mila di loro con una media di 4,5 addetti, hanno realizzato oltre il 20% del proprio fatturato all’estero, spesso in mercati extra-europei e con quote di export analoghe a quelle delle imprese medio-grandi.

E allora, dove sono i Tafazzi? Eccoli qui. Al settore più vivo e dinamico della nostra economia buttiamo addosso una camionata di tasse, chiudiamo il rubinetto del credito e prepariamo una riforma del lavoro che, per quanto strutturata su un impianto molto buono, costituirà un aggravio di costi probabilmente insostenibile. Prendiamo il mitico articolo 18. Nella proposta del ministero c’è la quantificazione dell’indennizzo del licenziamento per motivi economici in un range che va da 15 a 27 mensilità per il lavoratore; una cifra mostruosa per una piccola impresa: d’accordo la maggiore flessibilità in uscita, ma se significa sostenere questi costi, allora una Pmi ci penserà su un bel po’ prima di mettere in strada la gente, visto che rischierà di rimetterci ancora di più. E pensare che in Spagna la riforma del lavoro è stata fatta riducendo gli indennizzi, mentre da noi rischia di passare uno dei livelli più alti in Europa. A danno, ancora una volta, delle imprese. Tanto più che la riforma dell’articolo 18 non si applicherà al pubblico impiego, ossia a quella che, in alcuni casi, è la zavorra di inefficienza che trascina a fondo l’Italia. Ma di che parliamo?

Se poi pensiamo che tra le imprese esportatrici, quelle più piccole hanno pagato il prezzo più alto alla recessione globale del 2009, la frittata è completa. Del resto, tra il 2008 e 2009 il numero di micro-imprese esportatrici si è ridotto di quasi il 30%, vale a dire 13mila unità in meno. A poco serve consolarsi guardando come queste micro-imprese abbiano contenuto meglio delle altre la caduta delle esportazioni, anche per la maggiore flessibilità derivante dalla loro piccola dimensione, e abbiano saputo approfittare al meglio della ripresa del commercio mondiale del 2010, recuperando per prime i livelli di export pre-crisi. Di fronte a questo aggravio di costi previsto, la crisi è ancora dietro l’angolo.

Come affrontarla, quindi? Secondo la ricerca del Centro Studi Cna, l’innovazione e la qualità emergono come i fattori determinanti per superarla. Le imprese che hanno investito nell’ultimo triennio sui mercati esteri appaiono infatti le più performanti.

Lo studio sottolinea infine che è necessario rinnovare le politiche e gli strumenti in grado di supportare una vasta ed eterogenea platea di interlocutori con azioni di policy che rafforzino la posizione competitiva delle Pmi sui mercati internazionali. Certo, se le azioni di policy sono quelle di inasprire i costi, trasformare la flessibilità in rigidità, togliere ossigeno a chi lavora per rilanciare il Paese, non ci resta che commentare come la Sora Lella:

Ora Monti si becca un 18 (articolo)

di Davide PASSONI

E adesso vedremo se Mario è davvero super. Il sobrio presidente del Consiglio finora è stato un autentico schiacciasassi. Sulle liberalizzazioni, per quanto molto al di sotto delle aspettative, è andato dritto per la sua strada, alla faccia delle lobbettine con le quali ha dovuto scontrarsi. Sull’IMU alla Chiesa è entrato facile facile come un coltello nel burro. Sulla riforma delle pensioni gli è andata più liscia del previsto, lacrime di Elsa Fornero a parte. Ma adesso, per Monti, arriva il vero monte da scalare: la riforma del mercato del lavoro. O meglio, uno solo è il vero picco da scalare e si chiama articolo 18. Un totem, un articolo che chi lo tocca muore.
Prima di lui, solo chiacchiere. Ora ci sta provando. Almeno questo glielo dobbiamo riconoscere, nel bene o nel male. Peccato che gli ovattati saloni di Bruxelles o le aule grigie della Bocconi non hanno niente a che vedere con le sale del Palazzo, con i riti delle politiche del lavoro fatti di tavoli e controtavoli, parti sociali e parti asociali, riunioni a 3, a 4 a 5, interminabili meeting notturni tra ministri e segretari di partito, tra sottosegretari e segretari sindacali. Per arrivare quasi sempre al nulla.

Ma Monti lo sa: il mercato del lavoro, in Italia va riformato. Certe sue rigidità non sono le uniche responsabili della mancata crescita del nostro Paese, ma il solo eliminarle o ammorbidirle può fare tanto. Se una di queste rigidità sia davvero l’articolo 18, è tutto da vedere. Di certo, contro questo picco ci si va sempre a sbattere e chi tenta di scalarlo puntualmente finisce per cadere. E stupisce sempre constatare come lo stesso aspetto sia interpretato da una parte e dall’altra come il diavolo o l’acquasanta: licenziamenti di massa vs. flessibilità nell’uscita. E allo stesso tempo lascia qualche perplessità vedere come, per sbrogliare certe matasse, noi italiani non siamo in grado di elaborare soluzioni “interne” ma andiamo sempre a cercare ispirazione dai sistemi di altri Paesi europei, virtuosi (Germania) e un po’ meno virtuosi (Spagna). Un po’ come quando si discute della riforma del sistema elettorale.

Resta il fatto che questa volta Monti fa più fatica a vestire i panni del caterpillar. Anche quando gli arriva in aiuto il presidente Napolitano con un’affermazione che è un po’ la scoperta dell’acqua calda ma che, come tutte le banalità, è spesso difficile da scorgere: “La riforma del mercato del lavoro non può essere identificata con la sola modifica dell’articolo 18: per poter dare un giudizio bisogna vedere il quadro di insieme“. Vedremo chi la spunterà.

P.S.
A proposito, rinfreschiamoci la memoria: ecco il testo dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori

Riforma del lavoro Fornero: ecco i capisaldi

di Giulia DONDONI

Sono stati resi noti i capisaldi della Riforma del Lavoro del Ministro Elsa Fornero, un’anticipazione di quello che sarà il tavolo tra governo e parti sociali che si terrà il prossimo 23 gennaio. Si tratta di una riforma che vuole rendere più flessibile il mercato del lavoro, tutelando maggiormente i lavoratori, confrontandosi con la situazione di altri Paesi europei.

Il primo punto riguarda il Contratto Unico di Ingresso (CUI), la novità principale di questo “piano Fornero”, in quanto il CUI diventerebbe uguale per tutti. La fase di ingresso durerà a seconda dei tipi di lavoro, per un massimo di tre anni. In questo lasso di tempo il lavoratore (anche nelle aziende con più di 15 dipendenti), non verrà tutelato dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, e potrà quindi essere soggetto sì al licenziamento, ma dietro pagamento di un risarcimento economico: un importo pari a cinque giorni lavorativi per ogni mese lavorato, o del pagamento di sei mesi di indennità nel caso di una fase di ingresso di tre anni. A conclusione di questo periodo di inserimento, il contratto diventa a tempo indeterminato.

Buone notizie per quanto riguarda i contratti a tempo determinato e a progetto, spesso mal retribuiti. Per i primi si pensa di stabilire un soglia minima di stipendio (25 mila euro, esclusi i lavori stagionali) sotto la quale questi contratti non si possono attuare. Per i contratti a progetto o le collaborazioni cooordinate e continuative il limite dovrebbe essere di 30mila euro lordi. Sotto questa soglia, i contratti verrebbero automaticamente trasformati a tempo indeterminato.

Verrà poi fissato per legge un salario minimo oltre il quale non si potrà scendere.

L’ultimo punto vede gli ammortizzatori sociali con un reddito minimo di disoccupazione che verrà fissato, sostituendo le diverse possibilità previste ad oggi, come la cassa integrazione ordinaria o straordinaria, mobilità o sussidi.

Le ultime decisioni verranno prese il 23 gennaio, quando si aprirà il tavolo tra le parti. Sembra che il ministro Fornero e il titolare dello Sviluppo Economico Corrado Passera, non vogliano procedere per decreto ma con un disegno di legge.

Ciò che è certo è che il ministro del Lavoro vuole concludere questa riforma legislativa entro fine febbraio.