In Italia gli stipendi più bassi d’Europa

Un lavoratore italiano guadagna in media la metà che un dipendente in Germania, Lussemburgo e Olanda. Lo dicono i dati nell’ultimo rapporto diffuso da Eurostat “Labour market Statistics”, prendendo come riferimenti gli stipendi lordi annui del 2009: il Bel Paese si piazza al 12° posto nell’area euro, più in basso di Irlanda, Grecia, Spagna e Cipro.

“In Italia abbiamo salari bassi e un costo del lavoro comparativamente elevato. Bisogna scardinare questa situazione, soprattutto aumentando la produttività” ha commentati il Ministro del Lavoro, Elsa Fornero, che si è detta però fiduciosa sulla possibilità di un’intesa sulla riforma del lavoro e del temuto articolo 18.

Ma veniamo ai dati emersi dall’indagine Eurostat: il valore medio dello stipendio annuo in Italia per un lavoratore di un’azienda dell’industria o dei servizi (ovvero con almeno 10 dipendenti) è pari a 23.406 euro.
In Lussemburgo il medesimo valore medio si attesta a quota 48.914 euro, in Olanda 44.412 euro e in Germania a 41.100 euro. L’Italia è prima solo su il Portogallo (17.129 euro l’anno).

Il rapporto diffuso da Eurostat amplia lo sguardo anche sui dati di crescita delle retribuzioni lorde annue dell’Eurozona: l’avanzamento per l’Italia risulta però tra i più ridotti. Dal 2005 al 2009 il rialzo è stato del 3,3%, molto distante anche dai dati sulla crescita riportati da Spagna ( +29,4%) e Portogallo (+22%).

Una buona notizia per l’Italia, arriva quantomeno dalle differenze di retribuzioni tra uomini e donne, quello che Eurostat chiama “unadjusted gender pay gap”. Ma si tratta solo di un’illusione: l’Italia, con un gap tra uomini e donne attorno al 5% è di gran lunga sotto la media europea, pari invece al 17%, risultando seconda solo alla Slovenia.

Art. 18: risarcimento ‘ridotto’ anche per reintegrati

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, oltre a essere al centro di un’accesa discussione poltica, è anche materia di interpretazione giuridica e operativa. Proprio su questi aspetti interviene il parere n. 4 emesso oggi dalla Fondazione Studi consulenti del lavoro, in risposta a un quesito sul risarcimento da corrispondere al dipendente, in caso di reintegrazione sul posto di lavoro, proprio ai sensi dell’articolo 18.

“In presenza di un licenziamento inefficace, ingiustificato o nullo, il datore di lavoro -ricordano i consulenti del lavoro- oltre alla reintegrazione, è tenuto a corrispondere al dipendente una indennità risarcitoria ‘commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione’, che ‘non può essere inferiore a cinque mensilità'”.

Pertanto, si legge nel parere, “in presenza di un licenziamento illegittimo”, “il datore di lavoro deve: in ogni caso, corrispondere al lavoratore una penale forfettaria pari a cinque mensilità della retribuzione e corrispondere al lavoratore le retribuzioni dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione”. La penale forfettaria non è suscettibile di ‘sconti’, mentre il risarcimento può essere ridotto in due casi: se il dipendente illegittimamente licenziato, nelle more del giudizio, ha ottenuto dei guadagni da un’altra attività lavorativa e se il dipendente non si sia adoperato per reperire una nuova occupazione, aggravando così il danno al datore di lavoro che lo ha licenziato.

Quindi, il datore di lavoro può diminuire l’importo del risarcimento, dimostrando che il dipendente, nel periodo di illegittima interruzione del rapporto, ha percepito altri redditi da lavoro subordinato o autonomo. Il reddito deve essere stato percepito direttamente dal lavoratore e non già da altri componenti del nucleo familiare. Altra ipotesi di riduzione del risarcimento si ha nel caso in cui il lavoratore, nelle more del giudizio, non si attivi “positivamente per ricercare una nuova occupazione”. In questo caso, dicono i consulenti, “il datore di lavoro può domandare la riduzione dell’indennità risarcitoria di cui all’art. 18, legge n. 300 del 1970”.

La mancata cooperazione del lavoratore (con conseguente riduzione del risarcimento) può essere accertata in via presuntiva, tenendo conto della della qualificazione professionale del lavoratore, del tempo trascorso tra l’illegittimo licenziamento e la domanda di reintegrazione e dell’andamento del mercato del lavoro, valutando quindi le concrete probabilità di ricollocamento.

Fonte: adnkronos.com

Articolo 8: è scontro in Parlamento

C’è aria di tempesta in Parlamento dopo l’approvazione dell’articolo 8 della manovra finanziaria che prevede la possibilità di derogare con i contratti aziendali e territoriali ai contratti nazionali e alla legge.

In materia di licenziamento, eccezion fatta per quello discriminatorio, per gravidanza o matrimonio, le modifiche apportate dalla maggioranza in commissione Bilancio al Senato all’articolo 8 del decreto, prevedono la possibilità di licenziare anche tramite un accordo a livello aziendale o territoriale, raggiunto a maggioranza dai sindacati più rappresentativi.
In contrapposizione con quanto previsto dall‘articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, e in particolare la legge 300 del 1970 che impone, per le aziende sopra i 15 dipendenti, il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo.

Dura la replica di parlamentari e sindacati: per la Cgil si tratta di una manovra che viola la Costituzione, e la sua leader, Susanna Camusso passa all’attacco: ”il governo autoritario annulla il contratto collettivo nazionale di lavoro e cancella lo Statuto dei lavoratori, e non solo l’articolo 18, in violazione dell’articolo 39 della Costituzione e di tutti i principi di uguaglianza sul lavoro che la Costituzione stessa richiama”.

Il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, tiene a sottolineare, in risposta alle parole della Camusso, che ‘‘è inequivoco che tali interventi non possono modificare le norme di rango superiore come i fondamentali principi costituzionale o di carattere comunitario e internazionale’ e che quindi ”non ha senso parlare di libertà di licenziare o usare altre semplificazioni che non corrispondono, neppure lontanamente, alla oggettività della norma”.

Il confronto sull’articolo 8 del decreto in discussione in Parlamento non può trasformarsi in uno scontro continuo tra diverse concezioni sul sistema di relazioni sindacali necessario al nostro Paese“, è la nota di intervento del direttore generale di Confcommercio, Francesco Rivolta.

Cisl e Uil evidenziano infine l’importanza di una precisazione, ossia che solo i sindacati comparativamente più rappresentativi possono siglare intese a livello aziendale, come stabilito nell’accordo interconfederale, unitario, del 28 giugno scorso, evitando la costituzione di sindacati di ”comodo”.

Alessia Casiraghi