Antichi mestieri, la Liguria in prima fila

Per fortuna, in Italia, c’è chi si rende conto dell’importanza di preservare il tessuto di mestieri e professioni che costituisce da sempre la ricchezza della nostra economia e che è messo a rischio da crisi e globalizzazione. La Regione Liguria, per esempio, che nei mesi scorsi ha pubblicato un bando 2 milioni e 270mila euro per la valorizzazione degli antichi mestieri, che ha visto la partecipazione di 22 aggregazioni di imprese del settore artigiano che hanno presentato i propri progetti.

Secondo Luca Costi, segretario regionale di Confartigianato Liguria, “la presentazione di ben 22 progetti per il bando della Regione Liguria dedicato agli antichi mestieri è la dimostrazione della vivacità delle imprese artigiane liguri che credono con forza nella formazione dei giovani per dare continuità alla propria attività“.

Il buon risultato del bando – dice Costinon era affatto scontato. Già nel passato bandi simili che prevedevano l’aggregazione delle imprese avevano ottenuto scarsi effetti. La forte sinergia con la Regione e l’azione di contatto e assistenza delle imprese da parte delle associazioni hanno determinato una risposta massiccia. Crediamo che la scelta della Regione di creare occasioni concrete di incontro tra la domanda delle imprese e mercato del lavoro sia la strada giusta da percorrere per contrastare la disoccupazione giovanile che in Liguria, come nel resto d’Italia, ha raggiunto percentuali allarmanti, così come il fenomeno dei Neet, giovani che non lavorano né studiano. Ora auspichiamo che la Regione possa prevedere una seconda edizione del bando per rispondere a coloro che non hanno potuto partecipare a causa della complessità della procedura“.

Dei 22 progetti presentati, 13 hanno ottenuto un finanziamento per un totale di oltre 2 milioni di euro. “La rapida risposta della Regione Liguria alle domande presentate – dice ancora Costiconsentirà alle imprese dei progetti vincitori di creare immediatamente occasioni concrete di nuova occupazione, giovanile e non solo, in un momento particolarmente difficile. La dotazione finanziaria, che va da circa 100mila a oltre 230mila euro a progetto agevolerà l’avvicinarsi di giovani a professioni della tradizione artigiana ligure, anche attraverso l’accompagnamento alla nascita di nuove micro e piccole imprese“.

I progetti che hanno ottenuto l’ok ai finanziamenti vanno dal settore floreale a quello del cioccolato, dalla sartoria alla falegnameria, dalla lavorazione della filigrana alla costruzione di muretti all’artigianato della carta.

L’ultima elaborazione dell’Ufficio Studi di Confartigianato su dati Istat-ministero del Lavoro-Unioncamere ha analizzato il mercato del lavoro per gli under 30 e la formazione “sul campo” dei nuovi assunti; ebbene, stando ai risultati dell’elaborazione, gli artigiani liguri, nel 2011, hanno investito circa 47 milioni di euro in formazione di giovani nella propria azienda. Un risultato che sottolinea la sensibilità della regione per la salvaguardia dei mestieri tradizionali.

Se i mestieri non tirano più…

Se il mestiere di riparatore di orologi non se la passa benissimo, sono tantissime altre le professioni che non vedono particolari luci nel proprio futuro. E la cosa paradossale è che tante di queste sono in crisi nonostante un aumento continuo della disoccupazione giovanile. Secondo la Cgia di Mestre, buona parte di loro è concentrata nei settori dell’artigianato e dell’agricoltura e potrebbero comportare entro i prossimi 10 anni la perdita di 385mila posti di lavoro ad alta intensità manuale.

Molte professioni storiche presenti nell’artigianato – dice Giuseppe Bortolussi, Segretario della Cgia di Mestrerischiano di scomparire. Non solo perché manca il ricambio generazionale, ma anche perché non sono più redditizie o non hanno più mercato. Oberati da tasse e da una burocrazia sempre più asfissiante, molte imprese chiudono i battenti, lasciando dei vuoti culturali che rischiamo di non riuscire più a colmare, nonostante la crisi abbia avvicinato molti giovani a queste attività“.

Queste le professioni a rischio individuate dalla Cgia: pellettieri, valigiai, borsettieri, falegnami, impagliatori, muratori, carpentieri, lattonieri, carrozzieri, meccanici auto, saldatori, armaioli, riparatori di orologi, odontotecnici, tipografi, stampatori offset, rilegatori, riparatori radio e Tv, elettricisti, elettromeccanici, addetti alla tessitura e alla maglieria, sarti, materassai, tappezzieri, dipintori, stuccatori, ponteggiatori, parquettisti e posatori di pavimenti. Nel settore dell’agricoltura, invece, si rischia di non trovare più gli allevatori di bestiame nel settore zootecnico e i braccianti agricoli.

Per estrapolare questi dati, la Cgia ha calcolato il numero di occupati presenti oggi nelle principali professioni manuali compresi nella fascia di età 15-24 anni e in quella 55-64 anni. Poi ha misurato il tasso di ricambio, stilando una prima graduatoria per mestieri. Infine, ha stimato il numero delle figure che presumibilmente verranno a mancare nei prossimi 10 anni per ciascuna attività.

Premesso che non siamo in grado di prevedere se nei prossimi anni cambieranno i fabbisogni occupazionali del mercato del lavoro italiano – conclude Bortolussisiamo comunque certi di tre cose. La prima: fra 10 anni la grandissima parte degli over 55 censiti in questa mappa lascerà il lavoro per raggiunti limiti di età. La seconda: vista la contrazione delle nascite avvenuta in questi ultimi decenni, nel prossimo futuro si ridurrà ancora di più il numero dei giovani che entreranno nel mercato del lavoro, accentuando così la mancanza di turn-over. La terza: visto che i giovani ormai da tempo si avvicinano sempre meno alle professioni manuali, riteniamo che il risultato ottenuto in questa elaborazione sia molto attendibile“.

Laboratori di orologeria, un futuro tra luci e ombre

di Davide SCHIOPPA

Tra i mestieri artigiani che sono il vanto della piccola impresa italiana e che, tra il mordere della crisi e lo sviluppo di mercati sempre più globalizzati, soffrono più del lecito, c’è quello dell’orologiaio. Sono centinaia, in Italia, i piccoli riparatori che si dedicano a un lavoro fatto di tecnica e passione e che, oggi, si trovano in difficoltà di fronte alle politiche commerciali dei big mondiali dell’orologeria, che privilegiano sempre di più le riparazioni in house. Lo scorso mese l’Associazione Orafa Lombarda aveva lanciato una proposta di dialogo. Oggi torniamo sull’argomento con Mario Peserico, presidente di Assorologi.

Partiamo dai numeri: come va il mercato italiano dell’orologeria?
Non sono momenti facili ed è ovvio che il clima di sfiducia e di attesa che contagia il consumatore non può non riflettersi anche sul nostro mercato. Così come fatto lo scorso anno, mi sembra però giusto evidenziare che l’orologeria tutto sommato tiene molto meglio di altri comparti e riesce a difendere immagine, competitività ed attrattività. In ogni caso, nel 2012 nel nostro Paese sono stati venduti poco meno di 7 milioni di orologi da polso, per un valore di 1,14 miliardi di euro.

E sul fronte delle manifatture italiane, come vanno le cose?
In Italia esistono dei marchi più connotati sul mercato interno, che non esportano e di conseguenza sentono di più la difficoltà del momento. Il prodotto italiano è tale per chi lo conosce, lo è meno dal punto di vista del “made in”, per il quale la legislazione italiana è più lasca rispetto, per esempio, a quella Svizzera; per cui, chi è totalmente o quasi made in Italy, nella percezione del consumatore finale è, di fatto, uguale a chi importa e magari fa solo l’ultimo passaggio in Italia, fregiandosi ugualmente della dicitura made in Italy.

Soluzioni?
C’era stata la proposta di considerare il movimento italiano come condizione necessaria perché un orologio potesse essere considerato made in Italy, ma credo che ci saranno dei rallentamenti su questo fronte, stante la difficile situazione di mercato.

Parliamo della situazione dei laboratori di orologeria e dei riparatori…
Il settore patisce il momento come, in generale, lo patiscono le piccole botteghe artigianali. Gli orologiai lamentano il fatto che le grandi aziende non danno loro le parti di ricambio? Mi lasci dire, anche il fornaio si lamenta con la GDO perché fa il pane alla domenica. La tendenza è quella: i grandi gruppi si rendono autonomi come produzione, distribuzione e riparazione. Non credo sia criticabile il fatto che un marchio si organizzi autonomamente per le riparazioni o che si affidi per queste solo a chi gli dà certe garanzie in termini di preparazione e capacità.

Le politiche in questo senso le fanno dunque i big?
Se un marchio ha uno o più centri di assistenza autorizzati e professionalmente preparati o ha dei negozi che sono a loro volta attrezzati per le riparazioni, può anche non avere disponibilità di parti meccaniche per i riparatori che, per normativa europea, dovrebbero essere serviti dalla marca.

Anche in questo caso: soluzioni?
Trovo che sia un peccato che il mondo dei riparatori si perda e spero che ciò non accada ma, come associazione, abbiamo sempre sostenuto che i riparatori non sono organizzati, agiscono lamentando questa situazione ma senza fare nulla per rendersi organici ed elaborare proposte unitarie. Proporsi come alternativa vuol dire consorziarsi, creare un’associazione e darsi degli standard per cui chi entra nell’associazione ha certe capacità e garantisce un certo livello di servizio.

Che peso date, infine, alla formazione delle nuove leve di orologiai?
Negli ultimi 6-7 anni Assorologi ha contribuito a “ricostruire” la scuola di orologeria all’interno del Capac, il politecnico del commercio. La scuola aveva assunto col tempi una rilevanza sempre minore, anche perché dà spazio a una quindicina di allievi all’anno contro le centinaia delle altre scuole, nonostante costituisca un’eccellenza. Abbiamo riformato i programmi, ammodernato i laboratori con macchinari nuovi che le case hanno contribuito a far avere e gli allievi fanno degli stage nelle aziende di oltre un mese. La scuola ora dà spazio a 16 allievi per anno su due anni, ma le domande di iscrizione sono un centinaio, quasi sempre di ragazzi diplomati che vedono nella scuola una prospettiva, perché tutti i suoi diplomati trovano lavoro. Inoltre, la Regione Lombardia ha individuato nella scuola uno degli esempi di tutela delle arti e dei mestieri.

Perché certe professioni rischiano di sparire? Crisi, nuovi mercati ma anche colpe italiane

di Davide PASSONI

Un paio di settimane fa aveva fatto scalpore la notizia secondo la quale in Italia mancherebbero almeno 6mila pizzaioli; tante sarebbero, infatti, le figure richieste dal mercato che, per un motivo o per un altro, non si trovano. Un esempio, quello dei pizzaioli, di un fenomeno che nel nostro Paese investe moltissime figure professionali e artigiane che, complici una crisi sempre più bastarda e un mercato globalizzato che tende a penalizzare chi non ha le giuste dimensioni per imporsi sui mercati internazionali, vedono a rischio il proprio futuro.

Questa settimana Infoiva vuole fare un piccolo viaggio tra queste figure storiche della piccola impresa e dell’artigianato italiano che, tutto a un tratto, si sono trovate nella posizione assai scomoda che le vede, da un lato, custodi di una tradizione imprenditoriale che va difesa tanto per motivi storici quanto economici, e dall’altro poco strutturate per assolvere a questi compiti senza rischiare di scomparire.

A onor del vero bisogna anche ricordare che spesso la debolezza intrinseca di queste aziende e di queste categorie professionali è anche figlia di un atteggiamento che, per decenni, le ha portate a pensare di “bastare a se stesse“, di essere inserite in una nicchia di mercato che le avrebbe messe al sicuro da sconvolgimenti e turbolenze. Un’idea di consociativismo teso più a difendere posizioni e privilegi che a farsi vettore di proposte e azioni costruttive, che le ha rese deboli perché sole di fronte a un mercato e a delle prospettive economiche che, ormai, vanno al di là del recinto di casa.

Speriamo che il raccontare storie e capire le dinamiche di questo mondo serva da stimolo alle aziende artigiane che si trovano in queste situazioni per trovare le giuste soluzioni e affrontare il mercato non solo tirando a campare, ma sviluppando business e prospettive.