Partite Iva centrali per la ripresa? Balle

A volte non si sa se fa più male leggere certi numeri e certe statistiche relative alle partite Iva in senso assoluto o in comparazione con altri dati sempre riguardanti i lavoratori autonomi. Ciò che è certo è che le cosiddette serie storiche dei dati aiutano a riflettere e a fare considerazioni troppo spesso amare. Anche e soprattutto nei confronti delle partite Iva.

Abbiamo scritto ieri dello studio della Cgia che ha evidenziato come, nel 2014, una famiglia su quattro il cui reddito è stato dipendente da partite Iva ha vissuto al di sotto della soglia di povertà. Un dato inquietante, che inquieta ancora di più se vediamo che cosa scrivevano gli artigiani mestrini un anno fa.

Sconcerta infatti constatare che la percentuale di partite Iva che, nel 2014, si sono trovate in questa condizione di permanente necessità sia rimasta invariata rispetto al 2013: 24,9% era, 24,9% è rimasta. Dove sono quindi, gli investimenti e le iniziative a favore della libera professione tanto pubblicizzate dall’attuale governo? Quelle che ci sono, evidentemente, non funzionano.

E non funzionano nemmeno quelle a sostegno dei dipendenti, che già di loro possono godere di una certezza del reddito (alto o basso che sia) e di misure a sostegno di quest’ultimo nel caso della perdita del lavoro. Nel 2013 erano il 14,4% delle famiglie di questa categoria a essere al di sotto della soglia di povertà, mentre nel 2014 sono cresciute al 14,6%. Si salvano per il rotto della cuffia i pensionati: il 20,9% era in povertà nel 2013 e tale è rimasto nel 2014.

Allo stesso modo, il paragone tra le cessazioni di attività delle partite Iva e il numero di lavoratori dipendenti che ha perso il posto dal 2008 al primo semestre 2014 e al primo semestre 2015 è impietoso nei confronti degli autonomi: 2014, -6,3% autonomi e -3,8% dipendenti; 2015, -4,8% autonomi e -2,4% dipendenti. Insomma, c’è qualcosa che non va. Sempre a danno delle partite Iva.

Tanto per rincarare la dose, poi, citiamo anche i dati del quarto rapporto Adepp (Associazione degli Enti Previdenziali Privati) sulla previdenza privata, secondo il quale dal 2005 al 2013 i redditi medi reali prodotti dalle partite Iva sono scesi del 13%, che significa -18% in termini di volume d’affari vicino al 18 per cento.

Solo prendendo ad esempio alcune tra le più rappresentative categorie di partite Iva, un architetto o un ingegnere under 40 hanno guadagnato in media 18.187 euro all’anno contro i 29.455 di un dipendente privato e i 35.157 di un dipendente pubblico. Più o meno quanto le partite Iva iscritte alla gestione separata dell’Inps (18.640 euro). Meglio è andata, si fa per dire, ai commercialisti (23.207) e agli avvocati (24.738).

Categoria, quest’ultima, con il 45% degli iscritti che ha un reddito inferiore a 10.300 euro all’anno e nella quale, nel 2013, oltre 2.500 iscritti hanno chiuso in perdita e oltre 22mila non hanno inviato alla Cassa forense il pagamento dei contributi legato al fatturato.

Partite Iva centrali per la ripresa economica del Paese? Ma di che cosa stiamo parlando se le partite Iva più fortunate riescono a farsi pagare a 90 giorni (quando vengono pagate…) e non possono fruire dell’Iva per cassa, per cui devono scegliere se pagare tasse e contributi o mettere in tavola un piatto di minestra per sé e la famiglia ogni sera? Ma andiamo!

Partite Iva, i nuovi poveri

Non è la prima volta e, temiamo, non sarà l’ultima che sentiamo dire, dati alla mano, che i nuovi poveri sono i professionisti, le partite Iva, gli autonomi. Questa volta l’analisi forte dei numeri (che, si sa, li puoi leggere dalla parte che vuoi ma non mentono) l’ha fatta l’Ufficio studi della Cgia.

Ebbene, secondo le elaborazioni degli artigiani mestrini, nel 2014 il 24,9% delle famiglie con reddito principale da lavoro autonomo ha vissuto con una disponibilità economica inferiore a quella che l’Istat considera la soglia di povertà: 9.455 euro annui.

Il divario tra le famiglie delle partite Iva in condizioni di indigenza e quello delle famiglie dei pensionati o dei lavoratori dipendenti è evidente: 20,9% tra i pensionati, 14,6% tra i lavoratori dipendenti.

Sempre secondo la Cgia, tra il 2010 e il 2014 il numero di famiglie del popolo delle partite Iva in condizioni di povertà è aumentato del 5,1% (invariato nel 2014), a fronte di un -1% tra i pensionati e di un +1% tra i dipendenti.

L’Ufficio Studi della Cgia sottolinea poi un dato interessante. Dal 2008, anno di inizio della crisi, al primo semestre 2015 il numero dei lavoratori autonomi e della partite Iva in Italia è calato, in termini assoluti, molto meno rispetto a quello dei lavoratori dipendenti (-260mila contro -408mila), ma in percentuale esattamente del doppio: -2,4% contro -4,8%.

Se si prova a spacchettare il dato per aree geografiche, si nota che il calo più consistente di partite Iva tra il 2008 e il primo semestre 2015 ha interessato il Sud (-7,5%, pari a -120.700 unità,), seguito dal Nordest (-5,8%, pari a -67.800 unità), dal Nordovest (-5,3%, pari a -82.500 unità). In controtendenza il Centro: +1 per cento, pari a +11.300 unità.

Amara la riflessione del coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo: “Purtroppo questi dati dimostrano che la precarietà presente nel mondo del lavoro si concentra soprattutto tra il popolo delle partite Iva. Sia chiaro, la questione non va affrontata ipotizzando di togliere alcune garanzie ai lavoratori dipendenti per darle agli autonomi, ma allargando l’impiego di alcuni ammortizzatori sociali anche a questi ultimi che, almeno in parte, dovrebbero finanziarseli”.

Infatti, prosegue Zabeo, “quando un lavoratore dipendente perde momentaneamente il posto di lavoro può disporre di diverse misure di sostegno al reddito. E nel caso venga licenziato può contare anche su una indennità di disoccupazione. Un autonomo, invece, non ha alcun paracadute. Una volta chiusa l’attività è costretto a rimettersi in gioco affrontando una serie di sfide per molti versi impossibili. Oggigiorno è difficile trovare un’altra occupazione; l’età spesso non più giovanissima e le difficoltà congiunturali costituiscono un ostacolo insormontabile al reinserimento nel mondo del lavoro”.