Alt allo “shopping” straniero in Italia. Ma con giudizio…

di Gianni GAMBAROTTA

Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha dichiarato durante l’assise di Cernobbio che sta studiando quale modello straniero applicare al caso italiano per difendere i pezzi più pregiati dell’industria e della finanza nazionali dagli appetiti e dagli assalti di interessi esteri. E ha assicurato che, finita questa fase di studio e comunque in tempi ragionevolmente brevi, adotterà delle misure che saranno efficaci e non contrasteranno con le regole del libero mercato dell’Unione europea.

È una buona  notizia, perché francamente è imbarazzante assistere di continuo allo spettacolo di grandi gruppi internazionali che si portano via i pezzi migliori del made in Italy. E qualche cosa bisogna pur fare, così come ha fatto anni fa la stessa Francia, messa alle strette da grandi gruppi che avevano messo nel loro mirino marchi pregiati del settore alimentare, farmaceutico, energetico. Parigi ha varato delle norme che, di fatto, sottopongono a un placet del potere politico tutte quelle operazioni che potrebbero portare sotto controllo straniero un qualsiasi campione nazionale giudicato di interesse strategico. Qualcosa di simile (ma qui siamo fuori dall’Europa) lo ha fatto anche il Canada, sempre sotto la pressione di un’ondata di interesse eccessivo da parte della finanza internazionale per qualche suo gioiello.

Ora è bene dire subito che queste limitazioni, questi lacci messi al libero mercato non saranno forse entusiasmanti dal punto di vista teorico visto che, da decenni, ci stiamo dicendo e autopredicando che la supremazia del sistema capitalista occidentale si basa appunto sull’assoluta libertà del mercato, il massimo regolatore di tutto, dal quale alle fine arriva sempre la soluzione migliore. Però un Paese, qualunque esso sia, non può neppure assistere passivamente alla migrazione del suo sistema economico. Se poi questa migrazione diventa di massa e rischia di aumentare in prospettiva, è indispensabile intervenire in qualche modo.

E dunque lo è anche per l’Italia  che oggi si trova sotto l’attacco degli interessi francesi: i casi Bulgari, Parmalat, Edison, FonSai dimostrano che lo shopping di Parigi dalle nostre parti è stato abbondante. Viene dopo altri acquisti fatti nel recente passato (Bnl passata a Bnp-Paribas) e potrebbe continuare, visto quello che sta succedendo attorno a Mediobanca-Generali, vero punto di forza del nostro mondo economico e finanziario.

Trovare una regolamentazione, mettere dei paletti, è dunque una misura necessaria. Ma non sarà facile trovare la strada giusta. L’Italia, da anni, non riesce più ad attirare investimenti stranieri. Le ragioni sono tante: la perplessità che la nostra politica suscita nel mondo, la farraginosità della nostra burocrazia, l’inefficienza della magistratura che non riesce ad assicurare la giustizia amministrativa e altre ancora. Comunque resta il fatto che i capitali stranieri non arrivano più, o ne arrivano pochissimi. Ora le barriere pensate da Tremonti rischiano di tener lontani quei pochi che ancora guardano con interesse a quanto c’è di buono nel  nostro mercato. Il ministro dovrà far ricorso a tutta la sua abilità per trovare il dosaggio giusto.

Telecom, nuovi vertici al potere e cattiva gestione all’orizzonte

di Gianni GAMBAROTTA
Francamente non avrebbe potuto essere gestita peggio la vicenda del rinnovo dei vertici Telecom conclusasi lunedì scorso con l’uscita dalla presidenza di Gabriele Galateri, il passaggio al suo posto di Franco Bernabè (che al titolo di presidente aggiunge quello di “esecutivo”, definizione che non esiste nel diritto societario italiano) e la nomina di Marco Patuano ad amministratore delegato e di Luca Luciani a direttore generale con competenza sul Sudamerica, cioè capo di Tim Brasile vera cash cow del gruppo. Dico così perché con questo giro di walzer voluto dagli azionisti si è riusciti solo a dare un’immagine di divergenza fra partner e allo stesso tempo a indebolire la gestione dell’azienda che avrà ora un management diviso e, verosimilmente, in conflitto.
Quando scadono per termine di mandato i vertici di un grande gruppo qual è la Telecom, di solito si agisce così: se si ritiene che il management abbia ottenuto risultati positivi, che abbia agito nell’interesse dell’azienda, allora lo si conferma  per un altro mandato, salvo (se necessario) aggiungere qualche lieve ritocco all’organigramma deciso in accordo con il management stesso. Se invece il giudizio è di segno opposto, se cioè gli azionisti pensano che quanto fatto dai vertici e in particolare dal capo azienda, sia criticabile, allora si impone una sola soluzione: sostituire tutti.
Nel caso Telecom l’unico invitato a prendere la porta (ma sarà recuperato in consiglio di amministrazione) è il presidente Galateri: operazione a valenza zero perché non aveva alcun potere. Il vero punto sul quale gli azionisti, su sollecitazione di uno dei più importanti fra loro, cioè Mediobanca, hanno agito è stato quello dell’amministratore delegato. Bernabè è stato in questi tre anni indiscutibilmente il capo azienda e da domani non lo sarà più, qualunque cosa dica e cerchi di far credere il suo ufficio stampa che si affanna ad accreditare la versione che il vero numero uno resterà lui. Non è vero: fino a ieri aveva tutte le deleghe, da domani ne avrà soltanto alcune, dall’auditing, ai rapporti con i regolatori, all’immagine e (forse) la finanza. Dunque non metterà più parola sul business che farà capo invece a Patuano e Luciani. Un manager che non decide sul business non è un capo azienda, e non occorre aver studiato molto testi di management e di governance aziendale per dirlo.
Con la soluzione appena adottata sarà una triarchia a guidare Telecom. Ciascuno dei tre manager, al di là dei poteri che gli sono stati affidati formalmente, vorrà primeggiare cercando l’appoggio dei suoi azionisti di riferimento, quelli che gli hanno consentito di salire nei vertici o di non esserne espulso. Normalmente quando succede una cosa simile, per le azienda significa una cattiva gestione assicurata. Speriamo che questa volta non vada così.

Dove porterà la guerra santa di Diego Della Valle contro i “vecchi” della finanza?

di Gianni GAMBAROTTA

Che cosa sta succedendo nelle stanze del potere economico italiano? Da un po’ di giorni i signori che contano hanno iniziato una schermaglia interna che potrebbe essere una tempesta in un bicchiere d’acqua oppure montare, crescere e portare chissà dove.

Il tutto è incominciato con le dichiarazioni di Diego Della Valle di un paio di settimane fa. L’irruento proprietario della Tod’s se l’è presa con i due grandi santoni della finanza, vale a dire Cesare Geronzi, presidente delle Generali, e Giovanni Bazoli, presidente di Banca IntesaSanPaolo. Questi due signori, da sempre trattati con rispetto misto a una punta di timore in tutti gli ambienti economici, sarebbero nient’altro che “due vecchietti e farebbero bene a mettersi da parte” per lasciare spazio a una nuova generazione di imprenditori. E non è tutto: i “due vecchietti”, oltre al problema legato alla carta d’identità, avrebbero anche un difetto decisamente grave: il loro potere deriva dai soldi degli altri, cioè delle società che presiedono, mentre Della Valle investe soldi suoi.

Tutti coloro che seguono le vicende, per la verità non appassionanti, dell’establishment italiano, sono rimasti sbalorditi: raramente si assiste a prese di posizione così nette, che paiono delle sfide. E si sono chiesti: chi sta con (o dietro) Della Valle? E come andrà a finire questa bagarre? È in vista un cambio della guardia in quello che resta del capitalismo italiano?

Gli eventi dei giorni successivi hanno fatto capire che Della Valle, quando fa le affermazioni infuocate di cui si è detto, non è un cavaliere solitario, non parla sull’onda di un’arrabbiatura passeggera. Dietro di lui non c’è nessuno (perché non ha bisogno di particolari sponsor o supporter) ma di fianco a lui sì. Sono molti come i Benetton, i Del Vecchio, i De Agostini, i Caltagirone che non vedrebbero con dispiacere un cambiamento dei rapporti di potere all’interno del salotto buono. Non che vogliano una rivoluzione, ci mancherebbe: non sono ambienti giacobini questi, ma pur sempre salotti buoni. Semplicemente molti desiderano un rimescolamento, una riforma per dare più spazio e più voce a protagonisti che sono ormai più che consolidati, ma ai quali non viene ancora riconosciuto un ruolo centrale nel sistema. Quindi il movimento avviato da Della Valle porterà a qualche novità.

Ora lo scontro si è focalizzato sul tema del controllo del Corriere della Sera, dove  tutti (o quasi) i protagonisti del capitalismo italiano sono presenti. E qui il vecchio establishment, per così dire, ha fatto quadrato. Ma la vicenda non è chiusa. Mister Tod’s ha dalla sua l’età, la tenacia, e molti mezzi finanziari. E alla fine i capitali, anche in un capitalismo di serie B come l’italiano, contano.

Draghi? Troppo in gamba, meglio alla Bce che a Palazzo Chigi

di Gianni GAMBAROTTA

Non si conoscono ancora le ragioni che hanno spinto l’11 febbraio scorso Axel Weber a dimettersi dalla sua carica di Presidente della Bundesbank, l’istituto centrale tedesco, di gran lunga la più importante fra tutte le analoghe istituzioni europee. La decisione di lasciare è stata giustificata con “motivazioni personali”, ma alcuni autorevoli giornali tedeschi hanno parlato di divergenze fra il banchiere e il ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, e soprattutto con Angela Merkel, la Cancelliera che sta guidando il suo Paese con grande intelligenza ed eccellenti performance.

Qualunque sia stato il motivo, quello che conta è il risultato che ha prodotto e sta producendo e che riguarda molto da vicino le vicende di casa nostra. Weber, proprio in quanto presidente della Bundesbank, era in corso per succedere nel giugno prossimo al francese Claude Trichet alla guida della Banca centrale europea (Bce). Era anzi il candidato con maggiori probabilità di successo visto che rappresenta l’economia leader dell’Unione europea, il Paese che viene indicato come modello virtuoso e non solo sul scala continentale. La sua uscita dalla banca centrale tedesca lo toglie dalla corsa; anzi lui stesso, parlando con i giornalisti, ha spiegato di non aver interesse per quel ruolo e, in sovrapprezzo, il governo di Berlino ha detto di non voler candidare né lui, né alcun banchiere tedesco.

Dunque la rosa dei papabili è da rifare. Al momento il nome cui vengono attribuite le più solide possibilità di affermazione nella corsa, è quello di Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, ex direttore generale del ministero del Tesoro all’epoca delle grandi privatizzazioni, e molto apprezzato a livello internazionale anche nella sua funzione di presidente del Financial stability board.

Draghi ha qualche chance effettiva di riuscita perché l’Europa incomincia a guardare con una certa diffidenza a un’Unione totalmente di segno tedesco (con l’appoggio, più che altro ancellare, di una Francia che si comporta come se fosse importante quanto la Germania). Quindi un candidato percepito come diretta espressione del Cancellierato potrebbe incontrare serie opposizioni.

Draghi è giudicato un banchiere di assoluta esperienza e di primissimo livello professionale; l’aver militato anche nella Goldman Sachs lo rende gradito ai poteri forti della finanza che predicano il primato del marcato a tutti i costi. Se salisse lui ai vertici della Bce, argomentano i malpensanti, sarebbe comunque un presidente molto sensibile alle indicazioni del Paese guida, la virtuosa Germania, per farsi perdonare la sua appartenenza a un Paese peccatore (qui si parla solo di conti pubblici, e non di altro) qual è l’Italia.

L’ipotesi Draghi, inutile dirlo, ha una ricaduta sulle vicende interne italiane. Il governatore è stato ed è indicato come uno dei personaggi di spicco di quella cosiddetta riserva della Repubblica cui si potrebbe affidare l’incarico di costituire un governo tecnico nel caso la situazione politica diventasse ingestibile. E’ ovvio che la sua partenza verso Francoforte lo escluderebbe da questa partita. Con grande soddisfazioni per tutti quanti vedono in lui un candidato difficile da contrastare. Sarà un caso che il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, abbia subito dichiarato che appoggerà senza esitare la candidatura di Draghi alla Bce?

L’Italia? Rassegniamoci, non è un Paese per imprenditori

di Gianni GAMBAROTTA

Non è un Paese per imprenditori“, si potrebbe dire dell’Italia parafrasando il titolo di un film di qualche anno fa dei fratelli Cohen. E sì, a chi vuole fare industria il nostro Paese proprio non piace da qualche tempo a questa parte. Gli investitori stranieri ormai lo evitano e gli italiani non sono da meno. Chi può (per dimensioni, cultura, appoggi finanziari) preferisce andarsene da un’altra parte. 

L’ultimo caso, eclatante, è quello di Sergio Marchionne. L’amministratore delegato della Fiat, nei giorni scorsi ha detto che molto probabilmente nel giro di qualche anno il baricentro del gruppo automobilistico nato dall’integrazione fra la Fiat e la Chrysler, si trasferirà oltreoceano, a Detroit. Torino rimarrà, certo, ma non sarà più il quartier generale, la testa della multinazionale, il luogo dove vengono prese le decisioni strategiche. D’accordo, nell’atteggiamento di Marchionne c’è qualche elemento strumentale: l’amministrazione di Barack Obama ha concesso prestiti da miliardi di dollari e vuole che questi soldi non solo vengano restituiti al più presto, ma anche che siano serviti per salvare un’azienda americana, e non italiana. In più, la Fiat ha finora il 25 per cento di Chrysler: se vuole salire e consolidarla, deve passare attraverso i sindacati, ora azionisti di maggioranza. E anche loro – ovviamente – vogliono che Detroit prevalga su Torino.

Quindi ci sono questi oggettivi argomenti tattici che influenzano le dichiarazioni del capo del Lingotto. Ma non è solo questo. Marchionne ha dimostrato chiaramente di non amare il clima sociale e sindacale che si vive in Italia. Lui è di cultura americana e si trova molto più a suo agio dall’altra parte dell’Atlantico. Il rischio che finisca per portare lì la stanza dei bottoni non è da sottovalutare.

Chi invece si trova benissimo in Italia è la famiglia Benetton. Nei giorni scorsi è stato annunciato che aumenterà la sua presenza azionaria nella Gemina, la finanziaria cui fanno capo gli Aeroporti di Roma. Ecco: questa famiglia diventata famosa nel mondo con le sue magliette, ora nel fashion è in difficoltà, non riesce a reggere la concorrenza di nuovi protagonisti come Zara e H&M. Così si è ritirata nelle nicchie protette: Autostrade, Grandi stazioni e aeroporti. Qui la competizione è quasi inesistente: una volta vinta la gara per assicurarsi il business (e qui ci vogliono buone relazioni e ottimi lobbisti) basta di anno in anno andare a batter cassa e chiedere aumenti tariffari (e anche questo è lavoro da lobbisti). Essere buoni imprenditori non ha molta importanza. Che volete? La cosa potrà non piacere, ma oggi l’Italia funziona così.

Vade retro, patrimoniale! Ecco perché è una proposta che non ha capo né coda

di Gianni GAMBAROTTA

Non è piaciuta questa storia della patrimoniale praticamente a nessuno. L’idea, come si sa, è stata lanciata una prima volta da Giuliano Amato, lo stesso che quando era al governo fece il prelievo blitz sui conti correnti di tutti gli italiani; poi, la settimana scorsa, è stata ripresa da Walter Veltroni che ne farà (si immagina) uno dei punti di forza della sua prossima campagna elettorale; infine, nei giorni scorsi, ne ha parlato in un’intervista al Corriere della Sera, Pellegrino Capaldo.

La sua proposta è articolata, studiata, approfondita: non per niente il professor Capaldo è una delle più (giustamente) stimate menti giuridiche italiane. Lui parla di tassare gli immobili, visto che circa l’80 per cento degli italiani abita in casa di proprietà. Questi beni, questi mattoni – è il punto di vista di Capaldo – hanno avuto nel corso degli anni una rivalutazione impressionante; talvolta il loro valore è decuplicato. Andiamo allora a colpire questa ricchezza, per certi versi immeritata, caduta dal cielo, così lo stato potrà incassare una cifra vicina agli 800-900 miliardi di euro. Il debito pubblico, ora al 120 per cento del pil, scenderà a quota 80 per cento, permettendo così di reimpostare una politica economica espansiva.

Sono molte le obiezioni che si possono muovere (e sono state mosse) a questo progetto. A parte quelle già dette nella rubrica della settimana scorsa, ce ne sono due che mi pare interessante riprendere e sottolineare. Anzitutto l’impianto che ha in mente Capaldo appare molto complesso per la macchina burocratica italiana. Abbiamo un catasto che non è un modello internazionale di efficienza e veridicità; i valori degli immobili sono spesso casuali, irrealistici. Questa imposta straordinaria rischia di colpire alla cieca, tassando chi già paga e risparmiando (o colpendo marginalmente) furbi e/o fortunati. Non possono essere questi i criteri cui si ricorre per una misura che dovrebbe reimpostare la vita economica di una nazione.

L’altra osservazione è contenuta in un commento di Francesco Giavazzi, editorialista del Corriere della Sera, interpellato sull’argomento dal Foglio di venerdì scorso. Una patrimoniale – non importa se mirata a colpire la ricchezza immobiliare o quella finanziaria – avrebbe comunque un effetto recessivo. “Se la famiglie hanno un certo target di ricchezza e si toglie una parte di questa ricchezza, che cosa faranno? – si chiede GiavazziRicominceranno a risparmiare per raggiungere di nuovo quell’obiettivo di ricchezza che si erano poste. E non bisogna essere keynesiani per sapere che un aumento del tasso di risparmio, determinando un’ulteriore caduta dei consumi, spingerebbe l’economia a scendere a picco“. Risultato: il rapporto debito pubblico rispetto al pil non cambierebbe perché diminuirebbe sì il numeratore (debito) ma anche il denominatore (pil). Dunque tutta l’operazione si rivelerebbe inutile.

Eh no, Veltroni, non ci siamo: la tua patrimoniale è un’idea insana

di Gianni GAMBAROTTA

Non so chi sia, secondo le ultime statistiche del mensile americano Forbes sui Paperoni del mondo, l’uomo più ricco d’Italia. Forse è ancora Leonardo Del Vecchio, padrone di Luxottica, o uno dei fratelli Benetton, o l’immancabile Silvio Bersluconi, o qualcun altro, una new entry finora sconosciuta al grande pubblico.

Non importa. Chiunque sia, desidero affermare un concetto che ritengo fondamentale nella situazione politica italiana di oggi: sono contrario a qualsiasi proposta, da qualunque parte venga, che punti ad aumentare anche solo di un euro all’anno le tasse sul primo nababbo nazionale. E a scendere su tutti gli altri, compresi i detentori di risparmi per poche decine di migliaia di euro.

Dico questo dopo aver letto le cronache dell’intervento di Walter Veltroni al convegno del Lingotto nel weekend scorso. Il leader di Modem, l’unica minoranza organizzata all’interno del Pd, ha detto che fra le tante cose che farebbe se un giorno dovesse andare al governo, ce n’è una che gli sta particolarmente a cuore: una patrimoniale, sul tipo dell’eurotassa varata dal governo di Romano Prodi nel 1997, che colpisca i grandi patrimoni. “Il debito pubblico italiano – ha detto – ha raggiunto livelli insostenibili. Bisogna per tre anni tassare chi ha di più per portare quel debito a grandezze ragionevoli, attorno all’80 per cento del prodotto interno lordo contro l’attuale 120 per cento“.

Un’idea insana. Oggi una cifra vicina al 50 per cento di tutta la ricchezza prodotta dal Paese va allo Stato e al parastato sotto forma di tasse dirette e indirette e prelievi di vario tipo. Questo succede perché da decenni politici come Veltroni hanno chiesto e spinto sull’aumento delle spese pubbliche per conquistare consensi elettorali. L’Italia si basa su un gigantesco voto di scambio, che è una delle ragioni della sua arretratezza e dell’esplosione del debito pubblico.

Che questo (del debito) sia uno dei più gravi problemi italiani è fuori discussione. Ma lo si deve aggredire tagliando senza andare per il sottile la spesa pubblica, togliendo favori, elargizioni, prebende alle clientele elettorali che invece ogni politico culla amorevolmente. Aumentare le tasse, anche solo introducendo un’imposta straordinaria sulla ricchezza, non farebbe altro che fornire altro ossigeno finanziario ai partiti che lo userebbero come hanno sempre fatto, dilatando la spesa per catturare consensi al momento delle urne.

La stessa eurotassa citata da Veltroni lo prova: è servita sì a darci un salvacondotto momentaneo per entrare nell’euro, ma non ha prodotto alcun effetto sullo stock del debito che ha continuato, imperturbato, a crescere. E’ dal lato della spesa che deve essere affrontata la questione. Anche della spesa che riguarda la politica e il suo costo. Perché Veltroni non mette nel suo programma la netta riduzione degli emolumenti dei nostri parlamentari e ministri che guadagnano più dei loro colleghi tedeschi? Perché deve essere normale che una consigliera della Regione Lombardia, Nicole Minetti, divenuta famosa per le sue capacità di organizzatrice di festini con prostitute, riceva dalla Regione stessa uno stipendio da oltre 10mila euro al mese?

BARACCA&BURATTINI – Bossi, il volpone, lo sa: meglio avere un banchiere piuttosto che una banca

di Gianni GAMBAROTTA

Negli ambienti finanziari e bancari italiani si trovano alcuni manager di valore, un certo numero di mascalzoni e una quantità incalcolabile di mezze figure. È raro incontrare fra tutti questi grigi signori qualcuno che sia simpatico, sappia comunicare, intrattenere piacevolmente un uditorio anche su temi ostici come quelli legati al denaro. Uno sicuramente c’è: si chiama Massimo Ponzellini, presidente della Banca Popolare di Milano. I quotidiani si sono occupati di lui nei giorni scorsi perché subito dopo il vertice della Lega di fine anno a Calalzo di Cadore culminato con la “cena degli ossi” fra tutti i fedelissimi del Carroccio, il leader Umberto Bossi ha intrattenuto proprio il banchiere in un lungo colloquio notturno. Suscitando l’invidia dell’entourage del leader delle camicie verdi e una dichiarazione ostile del segretario provinciale del Pd, Maurizio Martina, nei confronti di Ponzellini: “Stare al summit della Lega è inopportuno – ha detto –. La Bpm non è di Bossi, ma dei milanesi“.

E milanese Ponzellini non è, ma di Bologna. Suo padre Luigi, per 40 anni membro del consiglio superiore di Bankitalia, era amico del padre di Renato Pagliaro, attuale presidente di Mediobanca. Nascita giusta, dunque, e amicizie giuste. Così come giusta è la moglie, Maria Segafredo, della dinastia del caffè.  Discutibili invece – dal punto di vista del suo attuale posizionamento – i suoi primi legami politici: è stato amico e assistente di Romano Prodi che lo ha ricompensato con vari incarichi importanti.

Oggi Ponzellini fa tante cose. Partecipa al comitato di esperti che affiancano l’Apsa (Amministrazione del patrimonio della sede apostolica) nei suoi investimenti finanziari; è presidente di Impregilo, la società di costruzioni controllata al 33 per cento ciascuno dai gruppi Benetton, Gavio e Ligresti; ed è appunto presidente della Popolare Milano. Queste ultime due cariche hanno suscitato accese polemiche: come può – si sono chiesti in molti – il numero uno di un istituto erogatore di credito essere anche a capo di un’impresa, l’Impregilo, affamata di credito tanto quanto i suoi azionisti? “Può” è stata la risposta di chi lo ha portato ai vertici della Popolare con l’appoggio aperto della Lega e quello più discreto di Giulio Tremonti.

La sua presenza alla “cena degli ossi” (allo stesso tavolo sedeva anche il ministro dell’Economia) dimostra che questo legame politico oggi è più saldo che mai. Bossi ha detto apertamente che Ponzellini è una sua creatura: “L’ho scelto io quando c’era da fare la nomina alla Bpm“. Nel 2005, ai tempi delle scalate (poi fallite) dei furbetti e dei loro amici, Piero Fassino, allora segretario del Pd, chiedeva a Giovanni Consorte, il capo dell’Unipol che tentava l’assalto alla Bnl. “Abbiamo una banca?“. Bossi, politico di razza, sa che spesso basta avere un banchiere.

Un attacco speculativo contro l’Italia? Occhio, non è solo fantapolitica

di Gianni GAMBAROTTA

E’ uscito da poco “La sostanza del bianco“, libro edito dal Gruppo 24 Ore. E’ un thriller finanziario firmato da John Stitch, pseudonimo di Claudio Scardovi, professore della Bocconi, ex Lehman Brothers, oggi consulente di grandi gruppi italiani e internazionali. E’ un libro che vale la pena di leggere, sperando che quello che racconta, e che sembra del tutto verosimile, non si trasformi in una realtà cronistica di un domani molto prossimo.

Stitch-Scardovi immagina che un gruppo di finanzieri in qualche Paese orientale veda nelle attuali difficoltà dell’Occidente, ancora in preda alla grande crisi iniziata nel 2008, l’occasione per realizzare degli utili stratosferici, giocando contro alcuni Stati. Questi speculatori, che godono dell’appoggio dei loro politici di riferimento desiderosi di diventare i nuovi leader del pianeta, lanciano un attacco contro l’euro, la valuta nata una decina di anni fa e che non è ancora riuscita ad assicurarsi un ruolo solido. E per centrare il bersaglio, pensano di incominciare a muovere contro l’Italia, il ventre molle del sistema europeo.

Si tratta di un romanzo di fantapolitica, certamente. Ma l’autore non ha dovuto lavorare troppo di fantasia per immaginare la trama. Forse non ci saranno oscuri personaggi che, con l’avallo o la regia di spregiudicati politici, preparano una congiura per assicurarsi la supremazia mondiale. Però, che sia in atto una sorta di guerra globale combattuta attraverso le monete è indubbio, basta vedere che cosa sta succedendo fra Stati Uniti e Cina: Washington che continua a chiedere con insistenza una rivalutazione dello yuan e Pechino che, ostinatamente, la rifiuta.

Quando ci sono guerre in vista (o in corso) sono normalmente i vasi di coccio i primi a rimetterci. E questo, purtroppo, è lo stato in cui si trova l’Italia. Il Paese, come ha scritto anche lunedì scorso sul Corriere della Sera il professor Francesco Giavazzi, ha due problemi: il primo è costituito dal più alto debito pubblico d’Europa; il secondo da un’economia che cresce meno della media dell’Europa. Non è vero che l’Italia, nella crisi, abbia fatto meglio dei suoi partner: ha perso più punti di crescita di Germania, Francia, Inghilterra; ha avuto performance migliori solo rispetto a Spagna, Grecia, Portogallo.

Se la situazione non cambierà, se non riuscirà a recuperare – e in fretta – la strada della crescita, l’Italia non riuscirà a migliorare il rapporto debito/pil. Il mercato vede chiaramente questa difficoltà e le sta puntando contro. Il differenziale di tassi fra titoli pubblici italiani e tedeschi in continuo aumento ne è la conferma. Speriamo che Stitch-Scardovi non abbia buone qualità di futurologo.

Ma la politica s’è accorta della svolta epocale decisa da Marchionne?

di Gianni GAMBAROTTA

Mentre i palazzi della politica sono tutti impegnati a contare voti e a immaginare coalizioni governative, maggioranze improbabili, o ricorsi al popolo sovrano, fuori da queste segrete stanze succedono cose davvero importanti che lasceranno un segno nella storia del Paese. Il manager con il maglione, l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, ha deciso che d’ora in poi la prima fabbrica italiana farà a meno della Confindustria. Tratterà i suoi rinnovi contrattuali in assoluta indipendenza, concluderà gli accordi con i sindacati che vorranno sottoscriverli e andrà avanti così, incurante di pressioni, suggerimenti alla prudenza, proteste di piazza.

Perché ha preso questa decisione, che del resto era nell’aria da settimane, è noto. La Fiat ha assunto il controllo della Chrysler, è diventata davvero una multinazionale impegnata su tutti i mercati mondiali. E da azienda globale qual è adesso, deve seguire le regole che si applicano appunto a livello globale. Se non fa così, non può sperare di sopravvivere alla competizione internazionale ogni giorno più dura. Che cosa vuol dire questo? Quale novità reale, sostanziale porta il nuovo corso di Marchionne?

L’Italia, dalla fine della guerra e in maniera più accentuata dall’autunno caldo del 1969 in poi, è stata pesantemente condizionata dalla presenza sindacale. Per 60 anni, la cosiddetta Triplice (Cgil, Cisl, Uil) ha avuto un potere decisivo non solo su temi retributivi e normativi relativi al mondo del lavoro, ma su tutti gli aspetti della politica che, direttamente o indirettamente, toccavano l’economia. Non c’è stata decisione che non sia stata affrontata al cosiddetto tavolo delle parti sociali, vale a dire governo, sindacati e organizzazione degli imprenditori (Confindustria).

Questo ha portato a una lentezza del processo decisionale che non ha confronti nei moderni Paesi industrializzati. Ha creato inefficienza. Ma fosse stato solo questo: ha creato una situazione che, nel tempo, ha palesato un contenuto di profonda ingiustizia politica e sociale. Con un simile sistema si è dato vita a un Paese diviso a metà: una parte più privilegiata fatta da imprese e lavoratori rappresentati sindacalmente, più protetta, più forte, con più diritti; l’altra, formata da tutti quelli che non appartengono alle suddette categorie e assai più numerosa, esclusa da privilegi e aiuti, ridotta al rango di Serie B.

La scelta di Marchionne, che ha deciso che disegnerà le future strategie Fiat senza passare sotto le force caudine della potentissima Fiom-Cgil e risparmiandosi le liturgie confindustriali, manda in pensione due elementi che sono stati determinanti nel sistema di potere nazionale. Se ne stanno accorgendo i signori del Palazzo? Riescono a vedere che fuori dall’emiciclo di Montecitorio e lontano dai riflettori dei talk show televisivi tanto amati, il Paese sta andando avanti per la sua strada? E che fa scelte storiche senza neppure interpellare la politica?