Infortuni sul lavoro, importante sentenza della Cassazione

La Cassazione ha emesso una sentenza in materia di infortuni sul lavoro che è destinata, molto probabilmente a cambiare gli scenari relativi agli infortuni stessi e alle responsabilità giuridiche legate a questo tipo di accadimenti.

Secondo i giudici della Suprema Corte, da un punto di vista giuridico, le responsabilità dell’azienda in caso di infortuni sul lavoro dei propri dipendenti restano tali anche in caso di comportamenti negligente da parte del lavoratore infortunato e anche, soprattutto, se gli incidenti che causano gli infortuni sul lavoro avvengono al di fuori dell’orario lavorativo.

La sentenza della Cassazione è stata emessa in merito al caso di un operaio edile caduto dall’impalcatura di un cantiere, infortunio per il quale l’impresa è stata ritenuta responsabile di lesioni personali colpose, nonostante l’operaio avesse commesso una serie di irregolarità, prime fra tutte il non aver indossato l’imbracatura di sicurezza e l’essersi presentato in cantiere al di fuori dell’orario di lavoro.

Secondo i giudici, infatti, le misure di sicurezza in cantiere non erano comunque sufficienti e il fatto di non aver indossato l’imbracatura di sicurezza fornita dall’azienda è sì motivo di negligenza da parte del lavoratore, ma non esclude le responsabilità del datore di lavoro per prevenire questo tipo di infortuni sul lavoro.

Per quanto riguarda invece l’orario di lavoro, la fattispecie rilevante nel caso in oggetto era che l’uomo, anche se al di fuori dell’orario di lavoro, stava comunque svolgendo le proprie mansioni.

Del resto, come ricordano gli ermellini, l’unico caso di irresponsabilità del datore di lavoro in caso di infortuni sul lavoro è rappresentato da una causa del tutto estranea al processo produttivo e alle mansioni attribuite al dipendente. Elementi che mancavano nel caso in oggetto.

Cartella di Equitalia nulla se arriva via posta privata

Esiste, come confermato da una sentenza della Cassazione, un caso in cui la notifica della cartella esattoriale Equitalia deve essere considerata nulla, ovvero quanto avviene tramite servizio postale privato.

Il motivo di ciò è che i messi privati non rivestono, ovviamente, un ruolo di pubblici ufficiali, quindi gli atti da loro notificati non godono della stessa presunzione di veridicità fino a querela di falso.

Questo significa che, se ricevuta tramite un servizio di posta privato, la notifica non può avere lo stesso valore della raccomandata postale, considerata un atto pubblico ai sensi dell’art. 2699 del codice civile, le cui attestazioni godono della stessa fede privilegiata di quelle relative alla procedura di notificazione eseguita per il tramite dell’ufficiale giudiziario (Cass. 17723/06 – Cass. 13812/07).

Inoltre, quando la notifica arriva a mezzo posta, deve essere considerata eseguita nella data della spedizione mentre i termini che hanno inizio dalla notificazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto.

Vera MORETTI

Ecco come i supermercati devono registrare i buoni pasto

Tutto era nato da un caso che vedeva protagonista l’Amministrazione finanziaria, che aveva inviato un accertamento unificato, e quindi comprendente di Irpeg, Irap e Iva, ad una catena di supermercati, in seguito ad un’ispezione della Guardia di Finanza che aveva rilevato la mancata annotazione di trenta fatture prodotte in seguito a rimborsi di altrettanti buoni pasto utilizzati dai clienti.

La società aveva proposto ricorso, respinto in primo grado e accolto in appello, con la motivazione che gli scontrini riportavano le somme corrispondenti ai buoni pasto, con la dicitura “pagamenti vari”: pur senza fatture registrate, il contribuente non aveva evaso l’imposta né altri tributi sugli incassi corrispondenti al controvalore dei buoni, fatta eccezione per l’irregolarità formale dell’indicazione del numero di fatture emesse a fronte del rimborso ricevuto dalle imprese emittenti dei buoni.

La Cassazione, quindi, ha stabilito come legittimo il recupero d’imposta in caso di scontrini fiscali discordanti dalle annotazioni sugli acquisti con buoni pasto: nei registri dei commercianti al dettaglio deve figurare espressamente il valore all’incasso dei corrispettivi tramite l’accettazione di ticket di spesa usati per l’acquisto di merci.

A questo punto, l’Amministrazione si è rivolta al giudice di legittimità perché nel registro delle fatture emesse e dei corrispettivi non era annotato il controvalore dei buoni pasto.
La Cassazione ha accolto le motivazioni del Fisco poiché, non riportando l’esatto valore in denaro dei buoni, si configura l’esistenza di incassi non documentati e non contabilizzati.

La prova certa deriva dall’esame dei registri dei supermercati, mentre la Commissione del secondo grado si era basata semplicemente su indizi che facevano solo pensare all’esistenza di una corrispondenza specifica sugli scontrini fiscali di chiusura giornaliera di cassa.

Vera MORETTI

La Cassazione ribadisce i requisiti per il bonus prima casa

Per i nuovi acquirenti di immobili, i benefici di imposta sono validi solo se si dimostra di risiedere o di lavorare nel Comune dell’immobile acquistato.

Nonostante ciò fosse chiaro, è stata la Cassazione a ribadirlo, per evitare contenziosi di sorta: i benefici prima casa possono essere elargiti solo in presenza di requisiti soggetti, relativi all’acquirente, e oggettivi, concernenti la natura e l’ubicazione dell’immobile.

Questo significa che le agevolazioni si applicano agli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di abitazione non di lusso e agli atti traslativi o costitutivi di nuda proprietà, usufrutto, uso e abitazione relativi alle stesse solo se ricorrono alcune condizioni, tra le quali che l’immobile sia ubicato nel territorio del Comune in cui l’acquirente ha o stabilisca entro diciotto mesi dall’acquisto la propria residenza o, se diverso, in quello in cui l’acquirente svolge la propria attività.

La Cassazione si è dovuta pronunciare in merito ad un ricorso presentato da due contribuenti a seguito della revoca dei benefici fiscali “prima casa” ottenuti, ai sensi della normativa richiamata, in occasione dell’acquisto da parte degli stessi di un immobile da destinare a prima abitazione.

Tale revoca era fondata sull’intervenuta decadenza dei contribuenti/ricorrenti dall’agevolazione in esame, in conseguenza del mancato trasferimento della residenza, nel Comune dell’immobile acquistato, nel prescritto termine di diciotto mesi.

Il ricordo è stato respinto in primo grado, ma l’appello successivo è stato invece accolto dai giudici del gravame sul presupposto che i contribuenti/appellanti avessero fornito idonea prova dei requisiti necessari per beneficiare del regime fiscale agevolato, nello specifico, la sussistenza del presupposto fattuale del trasferimento di residenza nei termini normativamente previsti.

Avverso tale pronuncia, l’ufficio finanziario propone ricorso in Cassazione deducendo la violazione e la falsa applicazione della succitata normativa in tema di benefici fiscali “prima casa”.
I giudici di Cassazione hanno ritenuto “insufficiente e illogica” la motivazione della sentenza d’appello, atteso che non contiene gli elementi da cui i giudici del gravame hanno tratto il proprio convincimento logico-giuridico, rendendo di fatto impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento adottato.

Nel caso di specie, infatti, precisa la Cassazione, la sentenza d’appello fa riferimento a una bolletta per la fornitura di energia elettrica resa in termini generici. Questo significa che non vi erano elementi che potessero giustificare il trasferimento di residenza, né era stato chiesto il cambio di domicilio per il nucleo familiare e il relativo trasloco.
Poiché, dunque, è emerso che l’erogazione di energia serviva per la mera esecuzione di lavori edili, l’appello è stato respinto.

Vera MORETTI

Processi rimandati a settembre

Il “rompete le righe” in vista delle vacanze estive è partito anche per i termini processuali che riguardano le giurisdizioni ordinarie ed amministrative: dal 1 agosto, e fino al 15 settembre, è tutto sospeso.
Sono compresi nel rinvio anche decadenza e prescrizione dei termini.

Tutto congelato, dunque, fino al 17 settembre, poiché il 16 cade di domenica ma, secondo l’orientamento della Cassazione, il 16 settembre deve essere ugualmente conteggiato come giorno di ripresa della decorrenza dei termini processuali, salvo che tale data rappresenti l’ultimo giorno per la presentazione di un atto: in tal caso, infatti, il termine è prorogato al 17 settembre 2012.

Cosa comporta questa lunga pausa estiva?
Nei casi di scadenze entro le quali le parti in giudizio possono procedere al deposito di atti e documenti, previsti dalle disposizioni che regolano il processo tributario, i termini iniziano a decorrere dal 16 settembre.
Se, invece, l’inizio del decorso dei termini processuali cade durante il periodo di sospensione feriale, i termini iniziano a decorrere alla fine del periodo di sospensione e cioè dal 16 settembre.

Ciò significa che se il termine di decorrenza processuale cade prima del 1° agosto 2012 si ha la sospensione feriale dei termini processuali dal 1° agosto al 15 settembre 2012, con ripresa della decorrenza dei termini dal 16 settembre compreso anche se il 15 cade di sabato ed il 16 di domenica.

Se il termine iniziale di decorrenza processuale cade all’interno del periodo 1° agosto – 15 settembre 2012 il decorso dei termini parte dal 16 settembre, anche se il 15 cade di sabato ed il 16 di domenica, ad eccezione del caso in cui il 16 rappresenti l’ultimo giorno per il compimento di un atto processuale. Se questo fosse il caso, infatti, il termine per il compimento dell’atto slitterebbe dal 16 settembre al 17 settembre 2012.

La norma, comunque, fa riferimento ai termini giuridici e non a quelli amministrativi, perciò non sono compresi casi di adesione al processo verbale di constatazione.
Ad essere interessati dalla sospensione sono:

  • le controversie di natura civilistica (ad esempio, controversie in materia di locazione di immobili urbani);
  • le controversie di natura amministrativa e tributaria;
  • i procedimenti giudiziari in materia societaria (costituzioni, trasformazioni, fusioni, scissioni);
  • l’accertamento con adesione del contribuente;
  • la definizione in via breve delle sanzioni amministrative tributarie.

Per quanto riguarda il processo tributario, la norma si applica alle scadenze relative alla presentazione del ricorso contro gli atti impositivi, sia introduttivo che costitutivo, in tutti i gradi di giudizio, dal primo alla Cassazione, ma anche al deposito di documenti e/o memorie illustrative.

Ad esempio, nel caso in cui la notifica dell’atto di accertamento sia intervenuta prima del periodo di sospensione feriale, ossia prima del 1° agosto 2012, il computo dei 60 giorni utili per la proposizione del ricorso si ottiene sommando il periodo decorso anteriormente al 1° agosto a quello successivo al 15 settembre 2012.

Se, invece, la notifica dell’atto di accertamento è intervenuta tra il 1° agosto 2012 ed il 15 settembre 2012, ossia durante il periodo feriale, il computo del termine di 60 giorni inizierà dal 16 settembre 2012, salvo che il 16 rappresenti l’ultimo giorno per il compimento di un atto processuale; in quest’ultimo caso, il termine per il compimento dell’atto slitta dal 16 settembre al 17 settembre 2012.

La sospensione feriale vale anche per la nuova istanza di reclamo/mediazione per le controversie col Fisco di valore non superiore a € 20.000.
In questo caso la sospensione vale solo per la presentazione dell’istanza, mentre non si applica alla fase di trattazione dell’istanza da parte del Fisco in quanto trattasi di una fase amministrativa e non processuale.

Il contribuente, che ha 60 giorni di tempo dalla data della notifica dell’atto per presentare l’istanza di reclamo/mediazione, deve tenere conto del periodo di sospensione ferial mentre l’Amministrazione finanziaria deve dare risposta di accoglimento o meno dell’istanza entro i 90 giorni da essa senza considerare il periodo di sospensione feriale dei termini processuali.

Vera MORETTI

Iva detraibile sulle auto aziendali a uso promiscuo solo se inerenti all’attività

L’Iva sulle auto aziendali a uso promiscuo è detraibile solo se è dimostrata l’inerenza con l’attività d’impresa. Lo ha chiarito la Cassazione, con la sentenza 11943 del 13 luglio. La Corte ha così accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate nei confronti di una società che aveva chiesto il rimborso per l’Iva versata in occasione dell’acquisto di automezzi utilizzati dai dipendenti.

Il fatto
La vicenda concerne il silenzio–rifiuto opposto dall’ufficio finanziario sull’istanza di rimborso dell’Iva versata da una Spa per l’acquisto di alcuni automezzi dati in uso ai propri dipendenti.
La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso, con esito confermato anche in secondo grado. La Commissione regionale riteneva, in particolare, la fondatezza del diritto al rimborso sulla base della dichiarata illegittimità della norma relativa all’articolo 19-bis, lettere c) e d), Dpr 633/1972 (trattasi dell’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di veicoli stradali a motore nonché all’acquisto o all’importazione di carburanti e lubrificanti destinati ad aeromobili, natanti da diporto e veicoli stradali a motore), per contrasto con l’ordinamento comunitario e con l’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia Ce (sentenza causa C-228/05 del 14 settembre 2006). Sempre ad avviso della Commissione del riesame, nella richiesta del rimborso si appalesava corretto l’operato della società, che aveva provveduto alla fatturazione con applicazione del tributo Iva con percentuale del 100% per le autovetture concesse in uso promiscuo ai dipendenti, e con la percentuale forfettaria del 30% per quelle concesse ai dirigenti. L’ente impositore produceva ricorso per cassazione contestando – per violazione degli articoli 19 e 19-bis, comma 1, del Dpr 633/1972 – il fatto che era stata riconosciuta la spettanza del diritto al rimborso prescindendo dalla dimostrazione dell’inerenza dei beni con l’attività d’impresa esercitata dalla società.

La decisione
La Corte suprema, decidendo la vertenza, ha ritenuto fondate le censure dell’Amministrazione finanziaria, affermando che, in tema di Iva, ai sensi degli articoli 4, secondo comma, n. 1, e 19 del Dpr 633/1972 (e anche alla luce della VI direttiva, la 77/388/Cee), in ordine agli acquisti di beni e in generale alle operazioni passive, occorre sempre accertare ai fini della detraibilità “che ricorra l’effettiva inerenza all’esercizio dell’impresa” (cfr Cassazione 11765/2008 e 7344/2011), cioè il loro compimento in stretta connessione con le finalità imprenditoriali, senza, tuttavia, che sia richiesto il concreto esercizio dell’impresa, potendo la detrazione dell’imposta spettare anche nel caso di assenza di operazioni attive, con riguardo alle attività meramente preparatorie, quali la ristrutturazione di un immobile, purché finalizzate alla costituzione delle condizioni d’inizio effettivo dell’attività tipica (cfr Cassazione 8583/2006 e 1863/2004). Per tutte le operazioni passive, infatti, occorre accertare di volta in volta che ricorra l’effettiva connessione con le finalità imprenditoriali.

Tali principi rimangono validi – sottolinea la Cassazione – anche successivamente alla riferita sentenza della Corte di giustizia del 2006, con la quale si è, tra l’altro, affermato che il diritto alla detrazione costituisce parte integrante del meccanismo dell’Iva e, in linea di principio, si è attribuito al contribuente un diritto che può essere soggetto alle sole limitazioni stabilite dalla VI direttiva. Ne consegue, che l’adozione di misure derogatorie in violazione del diritto comunitario non è opponibile da parte dell’Amministrazione finanziaria dello Stato membro nei confronti del soggetto passivo, al quale è riconosciuto il diritto di computare il proprio debito Iva verso l’Erario conformemente al disposto dell’articolo 17 della VI direttiva.

Pertanto, il giudice di legittimità ha ritenuto che, nel caso in esame, la sentenza impugnata non abbia fatto applicazione dei detti canoni ermeneutici, laddove ha rigettato l’appello dell’Amministrazione finanziaria senza alcuna approfondita valutazione circa l’inerenza dei beni rispetto all’attività d’impresa. In tale contesto il giudice del riesame ha, peraltro, erroneamente determinato, ai fini della detrazione Iva, la quota di utilizzo personale forfettaria nella misura del 30% ai dirigenti, in violazione, oltre che della surrichiamata norma Iva, anche dell’articolo 48, comma 4, del Dpr 917/1986.

Infatti, gli automezzi diffusamente impiegati nell’attività d’impresa e di lavoro autonomo possono essere utilizzati anche per fini privati. Per questi motivi la normativa sull’Iva, al fine di evitare facili e possibili abusi, prevede oggettive e soggettive limitazioni al diritto di detrazione del tributo assolto in rivalsa per l’acquisto, manutenzione e gestione degli automezzi. Tali limitazioni, di conseguenza, producono effetti in sede di cessione, concessione in uso a terzi o personale dell’automezzo.

E’ legittimo il sequestro conservativo se il Trust è finalizzato a distrarre i beni

Il sequestro conservativo disposto sui beni che costituiscono il patrimonio di un trust ha valore se lo stesso è stato istituito con lo specifico intento di distrarre beni a danno di un creditore. Ciò anche nel caso in cui gli stessi beni siano già sottoposti a sequestro preventivo, in quanto si tratta di misure cautelari reali cumulabili e, quindi, possono concorrere sui medesimi beni. Questi i principi contenuti nella sentenza della Cassazione n. 25520 del 28 giugno.

La sentenza
Il tribunale della libertà di Roma respingeva l’istanza di riesame proposta dal trustee, legale rappresentante di un trust imputato in concorso con altri due imputati nell’ambito di un procedimento penale per circonvenzione di incapace, contro il decreto di sequestro conservativo emesso dal giudice per le indagini preliminari del medesimo tribunale. A sostegno della decisione, il tribunale di Roma, confermata l’indiscutibile fondatezza del reato ipotizzato, rilevava come l’immediato reimpiego da parte degli imputati delle ingenti somme ricavate dalla vendita degli immobili della persona offesa attraverso la segregazione in un trust, fosse un chiaro segnale della volontà degli stessi di distrarre i beni a garanzia del credito erariale riferito alle spese del procedimento.

Contro la decisione del tribunale, gli imputati ricorrevano in Cassazione, rilevando che le valutazioni del tribunale romano non avessero tenuto conto di alcuni rilevanti aspetti. A parere del difensore di parte, infatti, i giudici non avrebbero considerato l’esistenza di un vincolo cautelare già impresso sui beni del trust con il sequestro preventivo e non avrebbero indicato alcun sospetto concreto di dispersione dei beni sequestrati.

La Corte di cassazione ha ritenuto il ricorso degli imputati infondato. Il primo aspetto su cui si sono espressi i giudici della Suprema corte attiene alla possibilità che sui medesimi beni, frutto di un reato, possano coesistere contemporaneamente un sequestro preventivo e un sequestro conservativo. Entrambi rientrano nella categoria delle “misure cautelari reali” in quanto si tratta di provvedimenti a carattere giudiziale aventi l’obiettivo di garantire dal punto di vista patrimoniale l’esecuzione di una sentenza definitiva, ossia crediti dello Stato o crediti derivanti dalle obbligazioni civili scaturenti da un reato (sequestro conservativo), oppure di impedire che l’uso di una cosa pertinente a un reato possa agevolare le conseguenze dello stesso o la commissione di altri reati (sequestro preventivo).

A parere dei giudici della Cassazione, le finalità e le modalità di esecuzione del sequestro preventivo non sono di per sé idonee a realizzare quelle proprie del sequestro conservativo e, pertanto, è ammissibile non solo la coesistenza dei due sequestri sui medesimi beni, ma anche il succedersi nel tempo dei vincoli reali.

Partendo da tale assunto, l’adita Corte di cassazione ha sancito il principio per cui l’applicazione del sequestro conservativo presuppone un giudizio “che faccia fondatamente ritenere che le garanzie possano venire a mancare o essere disperse, sia per fatti indipendenti dalla volontà e, quindi, dal comportamento del debitore, sia per comportamenti addebitabili più strettamente al debitore”.
In questo modo il legislatore ha voluto contemplare tutte le possibili ipotesi che, anche astrattamente, potrebbero comportare la perdita delle garanzie, atteso che l’obiettivo primario è quello di “garantire e proteggere comunque il credito (dell’erario e/o dei privati)”.

Nel caso di specie era ravvisabile il rischio della perdita delle garanzie a tutela del credito erariale, tale da legittimare l’adozione del sequestro conservativo. Infatti, la costituzione di un trust, attività per sua natura complessa e articolata, avrebbe costituito, a parere dei giudici della Cassazione, una condotta distrattiva da individuarsi nella segregazione del patrimonio costituito dal ricavato di un reato (la vendita di immobili di persona incapace). In altre parole, i giudici hanno ritenuto che gli imputati/disponenti abbiano costituito il trust, il cui patrimonio è stato sequestrato, al precipuo scopo di distrarre un patrimonio che altrimenti sarebbe stato aggredibile in quanto costituente la garanzia di un credito di una persona terza (in questo caso, l’erario).

La sentenza in oggetto appare di particolare interesse in quanto il giudice ha compiuto un esame di merito riguardo alla costituzione del trust, andando a sondare le ragioni sottese all’operazione.
L’operato dei giudici è apprezzabile perché, se da un lato lo strumento del trust ha come finalità lecita quella di segregare un patrimonio a favore di un trustee affinché questi lo gestisca e lo amministri, ciò non esclude la possibilità che il trust stesso possa prestarsi a finalità elusive o distrattive e, in tale ottica, essere sottoposto a misure cautelari.

Dichiari il falso? Niente patrocinio gratuito

Con la sentenza n. 25409 del 27 giugno, la Cassazione ha stabilito che non può essere ammesso, né può mantenere il patrocinio a spese dello Stato, il contribuente che dichiara reddito zero oppure il falso. Il reato previsto dall’articolo 95 del Dpr 115/2002 – che sanziona le falsità o le omissioni nelle dichiarazioni o nelle comunicazioni per l’attestazione delle condizioni di reddito in vista dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato – è integrato dalle dichiarazioni con cui l’istante afferma, contrariamente al vero, di avere un reddito inferiore a quello fissato dalla legge come soglia di ammissibilità, a prescindere dalla circostanza che in concreto la soglia venga o meno superata.

A seguito degli accertamenti compiuti dall’ufficio dell’Agenzia delle Entrate, il Tribunale di Cagliari ha revocato il provvedimento con il quale una contribuente era stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato (ex articoli 98 e 112, Dpr 115/2002). I redditi del nucleo familiare della signora, relativi all’anno d’imposta 2007, sarebbero stati pari a 11.929 euro e quindi superiori al limite fissato per chiedere e mantenere il beneficio, in origine di 9.296,22 euro, elevato poi a 9.723,84 euro dal decreto interministeriale 29 dicembre 2005 e innalzato, successivamente, a 10.628,16 euro con il Dm 20 gennaio 2009. Il tetto aumenta di 1.032,91 euro per ognuno dei familiari conviventi con l’interessato e, in tal caso, il reddito di riferimento è costituito dalla somma dei singoli redditi percepiti nello stesso periodo dai conviventi, compreso l’istante.

Il decreto del Tribunale è stato impugnato per cassazione dalla contribuente perché:

  • nell’istanza di ammissione il reddito indicato era pari a zero in quanto la stessa era stata licenziata con lettera del 18 maggio 2007 allegata all’istanza
  • il licenziamento era avvenuto dopo la presentazione dell’ultima dichiarazione dei redditi e prima della presentazione della domanda di ammissione al gratuito patrocinio e, quindi, il giudice non avrebbe dovuto tener conto del reddito dichiarato nell’anno precedente in quanto non più corrispondente alla realtà.

La Corte, richiamando la pronuncia delle sezioni unite 6591/2009, ha affermato che “la falsità delle indicazioni contenute nell’autocertificazione deve ritenersi connessa ‘all’ammissibilità dell’istanza non a quella del beneficio (art. 96, comma 1), perché solo l’istanza ammissibile genera obbligo del magistrato di decidere nel merito…’ Dunque, non assume importanza, in presenza di una dichiarazione rivelatasi non corrispondente alla reale situazione reddituale, nemmeno l’effettivo ammontare del reddito …”.

La Cassazione pertanto ribadisce che la ratio dell’articolo 95 del Dpr 115/2002 consiste nell’evitare che siano ammessi al patrocinio a carico dello Stato soggetti che non ne hanno il diritto per carenza dei presupposti di legge. Il legislatore, cioè, per stabilire se una persona sia nelle condizioni o meno di usufruire del beneficio, ha riguardo a tutti gli introiti effettivamente percepiti dall’interessata in un determinato periodo (articolo 76, Dpr n. 115/02) e, in particolare, al “…reddito imponibile ai fini dell’Irpef, quale definito dall’art. 3 del Tuir, integrato dagli altri redditi indicati dall’art. 76 del D.P.R. n. 115 del 2002…” ossia quello “…risultante dall’ultima dichiarazione….formato per i residenti da tutti i redditi posseduti al netto degli oneri deducibili indicati nell’art. 10” (risoluzione n. 15/E/2008; Cassazione, 16583/2011), redditi che (compresi quelli non reputati tali ai fini fiscali – Cassazione, 36362/2010, 45159/2005 – o derivanti da attività illecita – Cassazione, 34643/2010 e 17430/2001 – o che sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta ovvero a imposta sostitutiva – Cassazione, 22299/2008), comunque, siano attestati in modo veritiero.

Prima ancora della condizione di reddito, infatti, nella fattispecie sottoposta al suo esame, la Corte ha chiarito che, presupposto per l’ammissione e per il mantenimento del patrocinio a spese dello Stato, è la presentazione di una dichiarazione fedele da parte del contribuente, senza che, a tale riguardo, possa considerarsi pertinente il principio di diritto evocato dalla ricorrente, secondo cui sono rilevanti le variazioni intervenute successivamente.

Secondo i giudici di legittimità, infatti, tale principio presuppone pur sempre una (precedente) veritiera dichiarazione reddituale, corrispondente, cioè, all’effettiva condizione dell’istante. Invece, dai controlli effettuati dall’Agenzia delle Entrate (che “possono essere legittimamente acquisiti come prova documentale” – Cassazione, 19000/2009), la contribuente aveva reso una dichiarazione rivelatasi oggettivamente non corrispondente alla sua reale situazione, con la conseguenza che nonostante “… le alterazioni od omissioni di fatti veri risultino poi ininfluenti per il superamento del limite di reddito, previsto dalla legge per l’ammissione al beneficio”, tale comportamento comunque configura “… l’inganno potenziale … della falsa attestazione di dati necessari per determinare … le condizioni di reddito …” al momento dell’istanza (Cassazione, 6591/2009).

La Cassazione ha affermato, infatti, che “il reato di pericolo si ravvisa se non rispondono al vero o sono omessi in tutto o in parte dati di fatto nella dichiarazione sostitutiva, ed in qualsiasi dovuta comunicazione contestuale o consecutiva, che implichino un provvedimento del magistrato, secondo parametri dettati dalla legge, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni previste per l’ammissione al beneficio” (Cassazione, 34399/2011).

Si tratta, inoltre, di un reato costruito come “fattispecie di pura condotta” (Cassazione, 12019/2008) che si sostanzia nell’esternazione dei comportamenti previsti dall’articolo 79, comma 1, lettere b), c), d), Dpr 115/2002 (dichiarazione di false generalità; falsa attestazione delle condizioni di reddito previste per l’ammissione dall’articolo 76; violazione dell’impegno a comunicare eventuali variazioni rilevanti di tali condizioni, se si sono verificate nell’anno precedente), cui rinvia l’articolo 95.

Assumono rilevanza, allora, non tutte le dichiarazioni infedeli o le omissioni, ma solo quelle dalle quali emerga “inganno potenziale” (realizzato con la sola condotta descritta dall’articolo 95, prima parte) o “effettivo” (che si configura se dal fatto consegue l’ottenimento o il mantenimento dell’ammissione al patrocinio – articolo 95, seconda parte) del destinatario. Di conseguenza, la Corte, rinviando alla parte della sentenza 6591/2009 relativa all’“inganno potenziale”, ha rigettato il ricorso e ha provveduto a recuperare le spese processuali.

Cassazione: valida la percentuale di ricarico

Con la sentenza 4952 del 28 marzo, la Cassazione ha stabilito che l’Amministrazione può avvalersi, nell’accertamento del reddito, di dati o notizie comunque raccolti, con la conseguenza che la percentuale di ricarico può essere legittimamente determinata con riferimento alla dichiarazione del contribuente relativa al periodo di imposta precedente, a fronte di un volume di vendite accertato sulla base di dati afferenti all’esercizio in corso.

Il fatto
La vicenda giudiziale di una Srl che aveva fatto opposizione a un avviso di accertamento per Irpeg, Irap e Iva, si è risolta con l’annullamento dell’atto impositivo, trovando poi conferma anche in secondo grado.
Il ricorso proposto dalla soccombente Amministrazione finanziaria si articola in due motivi, con i quali la ricorrente lamenta, rispettivamente, violazione di legge (articolo 36 del Dlgs 546/1992) per mancata indicazione delle ragioni che sorreggono la decisione impugnata, e violazione dell’obbligo di motivazione, per motivazione insufficiente e illogica sul punto decisivo della controversia, atteso che, nella sentenza impugnata “non viene precisato quali ipotetici fattori impedirebbero di assumere per il 2003 la medesima percentuale applicata nel 2006“.

Prima di procedere oltre, ricordiamo che la percentuale di ricarico è il rapporto tra i ricavi dichiarati e gli acquisti registrati in contabilità, in relazione ai principali prodotti commercializzati, attribuendo, sovente, le medie ponderate di settore.
Normalmente, viene applicato, al costo del venduto (costo sostenuto dall’impresa per l’acquisto della merce ritenuta più rappresentativa, rivenduta durante l’anno), il coefficiente di ricarico medio ritenuto congruo sulla base spesso di medie teoriche (ricavate da quelle che pervengono da altri operatori del settore).
I valori percentuali medi del settore non costituiscono un “fatto noto”, storicamente provato, dal quale argomentare, con giudizio critico, quello ignoto da provare, ma soltanto il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati disomogenei, che fissa una regola di esperienza (Cassazione, nn. 7914/2007, 641/2006, 18038 e 26388 del 2005).

La decisione
La Corte suprema ha ritenuto infondata la prima censura, perché l’indicazione da parte del secondo giudice dei motivi di fatto e di diritto della decisione rendono possibile individuare sia il thema decidendum sia le ragioni che stanno a fondamento del dispositivo.

Invece, coglie nel segno la seconda censura, atteso che effettivamente, nel caso concreto, la sentenza del riesame non risulta motivata in modo sufficiente e giuridicamente corretto, non essendo state esposte sufficientemente le rationes decidendi sull’argomentazione sollevata dall’ente impositore circa l’insussistenza, tra gli anni considerati, di eventi significativi che potessero avere condizionato le scelte commerciali della ditta in ordine all’ammontare del ricarico.
Riguardo all'”ultrattività” delle percentuali di ricarico nell’accertamento induttivo, sia il fondamentale principio dell’imposizione fiscale, che impone l’inerenza dei dati raccolti a un determinato e specifico periodo di imposta, attesa l’autonomia di ciascun periodo di imposta (articolo 1 del Dpr 600/1973), sia il principio della effettività della capacità contributiva, posto dall’articolo 53 della Costituzione a fondamento della legittimità di qualsiasi prelievo fiscale, escludono la validità della “supposizione della costanza del reddito” in anni diversi da quello per il quale è stata accertata la produzione di un determinato reddito, ma non escludono il potere dell’ufficio di avvalersi, nell’accertamento del reddito o del maggior reddito, di dati e notizie comunque raccolti. La percentuale di ricarico è quindi legittimamente determinata con riferimento alla dichiarazione del contribuente relativa al periodo di imposta precedente, a fronte di un volume di vendite accertato sulla base di dati afferenti all’esercizio in corso come sono le rimanenze iniziali e finali di magazzino (Cassazione 5049/2011).

L’affermazione, peraltro, è una costante nella giurisprudenza di legittimità, considerato che in una similare occasione in materia di Iva, la Corte suprema ha affermato che la percentuale di incidenza di una determinata materia prima sul totale degli acquisti può essere utilizzata anche per la determinazione del volume d’affari relativo a diversi anni di imposta, tenuto conto della commercializzazione dei vari prodotti nell’anno precedente e della mancanza di mutamento delle condizioni della merce, come pure della sua tipologia (Cassazione 1647/2010).

D’altronde, è legittima la presunzione che quanto riscontrato in sede di accesso corrisponda all’andamento dell’attività anche in altri periodi solo se il contribuente non provi, in ipotesi anche per presunzioni – ovvero non risulti in punto di fatto -, che l’attività sottoposta ad accertamento va incontro a periodi disomogenei con riguardo all’andamento delle vendite e dei ricavi (Cassazione 12586/2011).

Fonte: fiscooggi.it

Capocantiere vs Imprenditore. Di chi è la responsabilità?

La Corte di cassazione ha stabilito, con la sentenza n. 44650 del 1° dicembre 2011, che non spetta all’imprenditore edile rispondere dei danni subiti da un operaio sul suo cantiere, se al momento dell’incidente la responsabilità era stata affidata ad un capocantiere o ad un coordinatore dei lavori.

I giudici del Tribunale di Asti proprio ieri hanno assolto un imprenditore edile accusato di lesioni colpose a seguito della caduta di un operario da un’impalcatura di circa 185 cm. In primo luogo perché non erano applicabili al caso giudiziario le norme antinfortunistiche poste a tutela dei lavori in quota, che riguardano però le impalcature superiori ai due metri. In secondo luogo, al momento dell’incidente era già stato nominato un capocantiere, assente in quel giorno per malattia, e un coordinatore, che è invece stato ritenuto colpevole in un altro procedimento con patteggiamento della pena.

Dopo il ricorso in cassazione da parte della pubblica accusa, anche se l’altezza dell’impalcatura non rendeva direttamente applicabili le norme antinfortunistiche, la Procura aveva stabilito che, in considerazione degli obblighi cautelari imposti dall’art. 2087 del Codice Civile, l’altezza dell’impalcatura, di poco inferiore ai due metri, rendeva la situazione concreta estremamente pericolosa per l’incolumità degli addetti.

Secondo la Procura dunque il datore di lavoro avrebbe dovuto rimuovere i fattori di rischio presenti in cantiere: l’impalcato avrebbe dovuto cioè alla parete del fabbricato, evitando interstizi pericolosi per gli operai.

La quarta sezione penale di Asti non ha però accettato il ricorso, confermando l’assoluzione dell’imputato. Inoltre, vagliando l’organigramma aziendale, ha stabilito che la nomina di capocantiere e coordinatore era stata fatta nei tempi e modi corretti. L’imprenditore edile non dovrà quindi rispondere dei danni subiti dall’operaio in seguito alla caduta da un’impalcatura. La responsabilità passa dunque a capocantiere e coordinatore, regolarmente nominati e responsabili dell’accaduto per non aver vigilato sul cantiere.

A.C.