Ritardi nei pagamenti: prima causa di fallimento

In Italia un fallimento su tre nel solo 2011 ha avuto come causa il ritardo nei pagamenti. La sentenza arriva da un’indagine condotta dalla Cgia di Mestre.

Ecco i dati emersi: nel 2011 circa 3.600 imprenditori italiani, su un totale di 11.615 che hanno portato i propri libri contabili in Tribunale (vale a dire il 31%), hanno dichiarato di averlo fatto a causa dell‘impossibilita’ di incassare in tempi ragionevoli le propri espettanze.

Secondo i dati Intrum Justitia, la percentuale di aziende che in Europa falliscono a causa dei ritardati pagamenti e’ pari al 25% del totale. Questo significa che la situazione italiana non ha eguali in Europa, arrivando a quota 31%, ben 6 punti percentuali in più rispetto alla media UE.

Ma come si è arrivati a questa situazione di insolvenza? In Italia i ritardi nei pagamenti superano la media europea di circa 26 giorni, vale a dire oltrepassa il 30% del totale. Qualche esempio? Se il committente è la Pubblica Amministrazione si arriva in media alla soglia dei180 giorni, mentre se si tratta di un’azienda privata il periodo scende a 103 giorni.

A ciò va aggiunto il peso della crisi economica che grava sulle aziende: il trend dei ritardi negli ultimi 4 anni è quasi raddoppiato (+97,5 %). Dati imbarazzanti se si pensa che nel 2008 la media per incassare i propri crediti era di 27 giorni, mentre lo scorso anno gli imprenditori italiani sono stati pagati con 53 giorni di ritardo.

Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre invita il Governo attuale a elaborare quanto prima un provvedimento affinchè venga rispettata la Direttiva Europea sui ritardi nei pagamenti: “Tra il 2008 ed il 2011 hanno fallito oltre 39.500 aziende – ha sottolineato Bortolussi. – La mancanza di liquidità sta facendo crescere il numero degli ‘sfiduciati’, ovvero di quegli imprenditori che hanno deciso, nonostante i grossi problemi che si sono accumulati in questi ultimi anni, di non ricorrere all’aiuto di una banca. E’ un segnale preoccupante che rischia di indurre molte aziende a rivolgersi a forme illegali di accesso al credito”.

Il pericolo più evidente per l’ imprenditoria italiana è l’aumento dell’usura: molte aziende, per far fronte al ritardo sempre più crescente nei pagamenti, potrebbero decidere di rivolgersi a strozzini e associazioni malavitose alla ricerca disperata di un prestito.

Un ultimo dato: a livello territoriale è la Lombardia la Regione che ha subito il numero più elevato di fallimenti, tra il 2008 e il 2011, sia in termini assoluti, sia prendendo in considerazione l’incidenza ogni 10.000 imprese attive. Secondo la Cgia di Mestre nel solo 2011 ci sono stati 31,5 fallimenti ogni 10.000 aziende attive.

Cgia Mestre: i lavoratori dipendenti sono tutelati dall’art 18

“Anche per noi è stata una vera e propria sorpresa: se si analizza solo la platea dei lavoratori dipendenti presente nel nostro Paese, oltre il 65% degli occupati lavora nelle aziende con più di 15 dipendenti. Da ciò si evince che la maggioranza dei lavoratori dipendenti è tutelata dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori”.

La dichiarazione è del segretario della CGIA di Mestre, Giuseppe Bortolussi, che, dopo aver analizzato i dati relativi alla distribuzione degli occupati italiani nelle aziende con più o meno di 15 addetti, afferma : “Se, invece, includiamo anche i lavoratori autonomi, la situazione, chiaramente, si capovolge. Gli addetti che lavorano nelle aziende con meno di 15 raggiungono il 54,3%, mentre quelli che sono occupati nelle imprese con più di 15 dipendenti non raggiungono il 46% del totale”.

Tuttavia, fanno notare nella nota quelli della CGIA, correttezza statistica suggerisce che il conteggio venga effettuato solo tra i lavoratori dipendenti. Per questo il dato che emerge da questa analisi “rovescia” la tesi dominante: vale a dire che, ad essere “coperti” dall’articolo 18, era solo una minoranza di lavoratori italiani. Da questi dati, sottolinea la CGIA, sono esclusi i lavoratori del Pubblico impiego, quelli occupati nel settore dell’agricoltura, nonché i cocopro ed i “lavoratori a progetto”.

Fonte: Agenparl.it

Nati con la camicia

Imprenditori si nasce, non si diventa. Sono gli imprenditori familiari, ovvero coloro che decidono di portare avanti l’azienda di famiglia. Nati con la camicia, forse o quasi, che secondo l’identikit tracciato dall’Isfol rappresentano una grossa fetta della realtà imprenditoriale italiana.

La ricerca, condotta dal sociologo del lavoro Domenico Barricelli e pubblicata sulla rivista del Cgia di MestreQuaderni di ricerca sull’artigianato’, evidenzia come le microimprese familiari italiane siano per la maggior parte appannaggio degli uomini, che rappresentano il 78,2%, mentre le donne raggiungono solo il 21,8%. Va sottolineato però, che le quote rosa, seppur minoritarie, molto spesso ricoprono ruoli chiave all’interno dell’azienda di famiglia, come il supporto alla gestione amministrativa.

Un quinto degli imprenditori ‘di famiglia’ possiede solo la licenza media, mentre il 56,2% è diplomato e il 22,1% ha ottenuto la laurea. Hanno tra i 35 e i 54 anni e hanno iniziato a lavorare da giovanissimi, prima dei 20 anni. L’identikit prosegue rilevando che il fatturato annuo medio degli imprenditori familiari non supera i 500 mila euro, mentre l’area di attività si concentra soprattutto nel territorio urbano.

Ma quali sono i settori a maggior concentrazione di microimprese di famiglia? Dall’indagine emerge la centralità del terziario, che supera il 60%, con una netta prevalenza di imprese appartenenti al commercio, ai servizi e alle costruzioni. Il settore dell’artigianato comprende poco meno del 20% delle imprese e soprattutto attività commerciali e industriali o di laboratorio. Quanto al mercato di riferimento, per poco meno del 30% delle microimprese è esteso e le esportatrici sono circa il 14%. Le microimprese con un mercato più esteso sono quelle artigiane, attive nel comparto industriale e guidate da imprenditori più giovani. Si dichiarano al di fuori di circuiti di distretto o di filiera oltre il 90% delle imprese intervistate e da associazioni il 50%.

E rispetto alla crisi economica globale, come hanno reagito i microimprenditori? Si registrano criticità legate soprattutto alla liquidità, a causa di un’elevata dipendenza da singoli committenti, e gli elementi poco chiari su cui si esercita spesso la concorrenza, ma anche il peso crescente degli oneri amministrativi.

Prospettive aziendali poco confortanti a parte, i microimprenditori si dichiarano soddisfatti per aver scelto un’attività autonoma, anziché un lavoro dipendente. Sono coscienti però che per rimanere al passo coi tempi occorre aggiornarsi e acquisire nuove competenze e conoscenze, anche in campi specifici.

Alessia Casiraghi

Spesa pubblica, l’accusa della CGIA

Un’altra, impietosa fotografia della spesa pubblica italiana scattata dalla CGIA, che in uno studio ha ecidenziato come tra il 2000 e il 2010 questa sia aumentata, al netto degli interessi sul debito, di 141,7 miliardi di euro (l’importo riferito al 2000 è stato rivalutato al 2010), pari al +24,4%. L’anno scorso, la spesa ha raggiunto quota 723,3 miliardi di euro: in rapporto al Pil, sempre nel 2010, le uscite pubbliche dello Stato hanno raggiunto il 46,7%, +6,8 punti rispetto a 10 anni prima. Sempre nel 2010, infine, lo Stato ha speso 11.931 euro per ogni cittadino italiano: 1.875 euro in più rispetto al 2000.

La parte del leone (se così si può dire…) la fanno le spese correnti, riconducibili per la maggior parte agli stipendi dei dipendenti del pubblico impiego e alle prestazioni sociali: 93,2% del totale della spesa pubblica. Secondo la CGIA, i redditi dei dipendenti del pubblico impiego sono aumentati del +12,9%, i consumi intermedi (manutenzioni, affitti, energia elettrica, acqua, gas, materiale di consumo, etc.), sono cresciuti del 24,9%, gli acquisti di beni e servizi da destinare ai privati (medicinali, apparecchiature sanitarie, etc.) sono lievitati del +34,6%, le prestazioni sociali hanno fatto segnare un +24,6%.

Tagliente l’analisi di Giuseppe Bortolussi segretario della CGIA di Mestre: “Il trend di crescita registrato dalle uscite pubbliche nell’ultimo decennio dimostra che è necessario invertire le politiche di bilancio sin qui realizzate. Non è più possibile agire prevalentemente sul fronte delle nuove entrate per riportare in ordine i nostri conti pubblici. Bisogna, invece, intervenire sulla spesa pubblica improduttiva. In questi giorni sentiamo echeggiare, dopo che i cittadini hanno subito in questi ultimi mesi una raffica di nuove tasse ed imposte, la possibile introduzione di una patrimoniale o, come ha suggerito la Banca d’Italia, il ripristino dell’Ici sulla prima casa. Se ciò si verificasse, darebbe luogo ad un ulteriore aumento del carico fiscale che deprimerebbe ancor più la capacità di spesa delle famiglie italiane che già oggi si trovano in una situazione di estrema difficoltà”.

Clicca qui per scaricare il documento della CGIA.

Bloccati 33 miliardi di euro di pagamenti dai Comuni

I Comuni bloccano 33 miliardi di euro di pagamenti, e “La causa di questo mancato pagamento  va ricercata nelle disposizioni previste dal Patto di stabilità interno, che per ragioni di contenimento della spesa pubblica, non consentono il pagamento di lavori o di forniture ricevute. Il paradosso è che in questa condizione di insolvenza si trovano molte realtà comunali che, pur avendo i soldi, non possono saldare le spettanze, altrimenti non rispetterebbero più i vincoli previsti dal Patto. Un danno economico non di poco conto, che penalizza soprattutto le piccole imprese e le aziende artigiane che devono attendere tempi biblici per ricevere le loro spettanze”, commenta il segretario della CGIA di Mestre, Giuseppe Bortolussi.

Il Comune di Roma presenta la quota di spesa non onorata più alta di tutti: l’importo, al 31 dicembre 2009 (ultimo dato disponibile), è pari a 6,26 mld di euro. Seguono Milano, con 3,85 mld di euro e Napoli, con 3,39 mld di euro. Rispetto alla fine del 2008, l’incremento percentuale medio nazionale dei residui passivi è stato del + 5,4%.

In termini pro capite,  il Comune meno virtuoso è quello di Avellino, con un ammontare complessivo di pagamenti non effettuati pari a 3.754 €.

Segue Carbonia con 3.622 €, Salerno con 3.608 € e, al quarto posto Napoli con 3.529 €.

In una fase di grave crisi economica mettere in pagamento oltre 33 miliardi di euro sarebbe una boccata di ossigeno non indifferente per migliaia e migliaia di piccole imprese. Se in questa elaborazione abbiamo analizzato solo la situazione dei Comuni capoluogo di Provincia, in capo ai Comuni non capoluogo stimiamo vi siano altri 7 mld di pagamenti non erogati. Infine, non dimentichiamo che ci sono altri 35/40 mld di euro di crediti che le imprese avanzano dalle Regioni in materia di sanità, per questo è urgente che il Governo intervenga subito per il bene delle piccole imprese e dei loro occupati”. conclude il segretario.

Marco Poggi

La Cina è in Italia

A dispetto della crisi, ancora ben presente in Italia, c’è chi, invece, sembra proprio non avere difficoltà.

Sono i cinesi che, invece di chiudere le loro attività, si moltiplicano, e non solo nelle grandi città, ma anche nelle province, dove è ancora più difficile trovare un’occupazione.

I dati, raccolti dalla Cgia di Mestre, parlano di piccole e medie imprese cinesi che hanno superato le 54 mila unità, con una crescita dell’8,5% rispetto al 2009, in netto contrasto con i dati riguardanti imprese italiane, diminuite, nello stesso lasso di tempo, dello 0,4%. Ad aumentare è anche la presenza, nelle aziende italiane, di imprenditori cinesi, con una crescita, dal 2002 al 2010, del 150,7%.

Ma è tutto oro quello che luccica? A quanto pare no, poiché è lo stesso Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, ad affermare: “Pur riconoscendo che gli imprenditori cinesi hanno alle spalle una storia millenaria di successo, la loro forte concentrazione in alcune aree del Paese sta creando non pochi problemi. Spesso queste attività si sviluppano eludendo gli obblighi fiscali e contributivi, le norme in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro e senza nessun rispetto dei più elementari diritti dei lavoratori occupati in queste realtà aziendali. Questa forma di dumping economico ha messo fuori mercato intere filiere produttive e commerciali di casa nostra“.

La maggiore concentrazione di imprenditori cinesi si trova nel Nord, e soprattutto in Lombardia, dove sono 10.998, Toscana, 10.503 e Veneto, 6.343. Nonostante questi numeri, la crescita registrata è omogenea in tutto il Belpaese, compreso il Trentino Alto Adige, una volta inespugnabile.

Ovviamente, l’incidenza di imprenditori cinesi sul totale dell’imprenditorialità straniera è molto forte e raggiunge un 8,6% con picchi in Toscana del 18,2%.

Tra i settori di occupazione, trovano i primi posti pelletteria, calzature ed abbigliamento, seguiti da alberghiero, bar e ristorazione, dove i titolari cinesi sono ormai 10.079. E siamo sicuri che si tratta di dati destinati a crescere ancora.

Vera Moretti