Vino, la Cina è lontana

Nei giorni scorsi si è fatto tanto clamore intorno all’incontro, tenutosi al Vinitaly, tra Jack Ma, fondatore della piattaforma cinese di e-commerce Alibaba, la più grande al mondo, e il premier italiano Matteo Renzi, per coinvolgere il colosso cinese in una grande operazione di promozione e vendita di vino italiano nel Paese del Dragone.

Clamore, a nostro avviso ben giustificato. Principalmente perché l’Italia, attualmente, non sfrutta quasi per nulla le potenzialità della Cina come mercato per il vino. Basti dire che la quota di mercato del vino italiano nel Paese è del 6%, contro il 55% di quello francese.

I margini di crescita sono quindi incalcolabili, specialmente se, come ha sottolineato in una nota Denis Pantini, responsabile di Nomisma Wine Monitor, nei primi due mesi dell’anno il vino in Cina ha fatto segnare un “+59% di import in valore in euro“. Un treno del quale però l’Italia sta sfruttando poco le potenzialità.

La nota di Nomisma sull’import di vino in Cina lo ha messo in luce, anche in rapporto all’incontro tra Renzi e Ma: “Nell’orizzonte della tumultuosa crescita cinese, l’Italia sta giocando un ruolo marginale da Cenerentola, e i margini per crescere sono elevati“. “La Cina – ha proseguito la nota – corre e noi rincorriamo, ecco perché è utile l’incontro con Alibaba Group“.

Nel 2015 la crescita del vino in Cina è stata tumultuosa – ha aggiunto Pantini -: il Dragone lo scorso anno è diventato il quarto mercato mondiale per importazione di vini, surclassando il Canada. La Francia resta padrone incontrastato tra i vini importati in Cina (+44%), e sempre nel 2015, crescono in particolare Australia (+22%) e Sud Africa (+2%)“.

La nota si chiude guardando alle prospettive di crescita dell’import di vino in Cina per il 2016: “Nel primo bimestre, secondo i dati Wine Monitor Nomisma, l’onda lunga della crescita cinese continua imperterrita, segnando un +59% di import in valore in euro. Tra i principali Paesi da dove la Cina continua ad importare di più spicca l’Australia (+108%), mentre l’Italia conferma il ritmo del 2015 (+15%)“.

Un 2016 promettente per la moda italiana in Cina

Nelle scorse settimane avevamo anticipato di come per la moda italiana in Cina, specialmente per quella di una fascia prezzo più accessibile, il 2016 si presenti come un anno molto promettente.

Dopo l’aumento record del 32% nel 2015, la moda italiana donna in Cina potrebbe crescere ancora nel 2016 di circa il 25%, soprattutto nel comparto del middle luxury, grazie ad una forte richiesta di capi di qualità ma a prezzo accessibile.

Una richiesta che arriva dopo un 2015 nel quale le top griffe della moda italiana hanno scontato una flessione sul mercato cinese, anche a causa di prezzi troppo elevati nella distribuzione locale, a volte superiori del 50% rispetto a quelli dei negozi italiani.

Un trend che commenta così Giacomo Gardumi, Ceo di Retaily Shanghai, società attiva nella diffusione della moda italiana sul mercato cinese: “La domanda cinese sta cambiando e analizzando i dati del primo bimestre si prevede una crescita di un ulteriore 25% nell’import cinese di moda italiana donna nel 2016, concentrato soprattutto nei capi italiani di qualità, ma di prezzo accessibile. Gli acquisti di moda italiana ormai interessano un ampio strato di cittadini cinesi, certamente benestanti, ma non miliardari”.

Seguendo questo trend, il gruppo di distribuzione cinese IFF, dopo aver selezionato negli scorsi mesi aziende della moda italiana per un possibile sbarco in Cina, aprirà una seconda fase di selezione durante gli Open Day del 4 e 15 aprile prossimi, in via Cerva 14 a Milano (per informazioni, marketing@retaily.it).

Nel corso della prima fase, oltre 100 aziende italiane hanno stretto accordi commerciali con IFFG, e circa 50 di queste entreranno nel primo concept store del gruppo, che aprirà a settembre 2016 a Shanghai.

Ai marchi italiani vengono proposti accordi commerciali della durata di 5 anni che prevedono l’acquisto di prodotto vincolato al rilascio di un’esclusiva distributiva estesa a tutto il territorio cinese. Gli investimenti sono a costo zero per le aziende italiane e IFFG garantisce prezzi più accessibili sul mercato cinese, vicini a quelli del mercato italiano.

L’ agroalimentare italiano “punta” la Cina

Che cosa amano i cinesi del made in Italy? Di sicuro la moda, le auto e il lifestyle, ma non dimentichiamoci dell’ agroalimentare. Di sicuro non se ne dimentica Sace, gruppo assicurativo-finanziario attivo, tra l’altro, nell’export credit e nell’assicurazione del credito. Secondo Sace, infatti, l’export agroalimentare italiano in Cina potrebbe passare dai circa 320 milioni del 2014 a 410 milioni nel 2018.

Questa impennata dell’export agroalimentare è dovuta in gran parte, secondo Sace, al fatto che la Cina, dopo anni di crescita ininterrotta sta indirizzando la propria economia su binari più equilibrati. Una maggiore stabilità che porterà con sé maggiori stimoli ai consumi interni, produzione di beni di qualità più elevata, sviluppo dei servizi, maggior utilizzo delle rinnovabili per la produzione di energia (a oggi la Cina è uno dei maggiori utilizzatori di combustibili fossili e uno dei Paesi maggiormente inquinanti).

Secondo Sace “Il ribilanciamento cinese può rappresentare un vantaggio per i Paesi esportatori”, che hanno settori di pregio come, per esempio, quello agroalimentare. Lo studio di Sace evidenzia come la parte di popolazione più abbiente delle grandi città cinesi sia in proporzione molto numerosa, tanto che anche una piccola élite di persone ha un elevato potenziale di consumo.

Sace sottolinea anche il forte processo di occidentalizzazione dei consumi, anche nel settore agroalimentare, che si è innescato in Cina negli ultimi anni, grazie anche al fatto che i flussi turistici cinesi hanno sostenuto e sosterranno la domanda di prodotti esteri al loro rientro in patria.

A tutto questo, a vantaggio di settori come quello dell’ agroalimentare italiano, si aggiunge il fatto che il mercato continua a crescere e che la legislazione locale sarà via via semplificata, rendendo più facile l’ingresso sul mercato cinese di nuovi importatori e distributori. E l’Italia, si spera, sarà in prima fila.

Moda italiana e mercato cinese

La Cina continua a essere un mercato centrale per la moda italiana, specialmente per la moda donna. Lo dimostrano alcuni dati emersi dalla conferenza stampa tenutasi nei giorni scorsi a Milano, organizzata dal Gruppo asiatico IFF (International Fine Fashion Group) e da Retaily. Un dato su tutti, l’aumento della domanda cinese di moda italiana per donna registrato nel 2015: +32% nel 2015.

Si tratta di un dato che, al di là delle griffe internazionali, riguarda l’intera produzione medio/alta della moda italiana, con un mercato potenziale di 300 milioni di cinesi benestanti, un settore al riparo dalle turbolenze finanziarie delle borse locali.

Il Gruppo IFF ha già messo sotto contratto 100 marchi della moda italiana, che esporranno in 9 Fashion Center in corrispondenza delle più importanti città cinesi, con una strategia commerciale a più canali che affianca la vendita al dettaglio, all’ingrosso e online.

Il primo concept store di IFFG aprirà a Shanghai nel settembre del 2016, all’interno dello shopping center “Golden Eagle”, una delle più prestigiose catene del retail di lusso di tutta la Cina. Gli altri Fashion Center saranno aperti successivamente a Changsha, Shenzhen, Xian, Hangzhou, Beijing, Wuhan, Shengyang e Xiamen.

Mentre i grandi marchi della moda internazionale stanno perdendo quote di mercato in Cina – ha spiegato durante la conferenza Dan Jiang, Project Manager IFFG -, la domanda di prodotti italiani di qualità, e dal prezzo accessibile, continua a crescere in modo costante. Nel 2015 le nostre stime riferiscono di un aumento dell’import di prodotti moda donna made in Italy di circa il 32%. Si tratta di aziende storiche della moda italiana, ma anche di linee nuove e stilisti emergenti, destinati ad incontrare il gradimento di grandi fasce di consumatori cinesi, soprattutto quello delle classi medie urbane emergenti”.

Secondo Giacomo Gardumi, chairman di Retaily, “l’interscambio tra Cina e Italia nel comparto moda crescerà di anno in anno. Le tempeste speculative registrate sulle borse di Shanghai e Shenzhen non impattano sull’ economia reale della Cina, che è, per sua natura, impermeabile alle dinamiche della finanza internazionale”.

Nei Concept Store di IFFG esporranno marchi della moda italiana selezionati in base a qualità, taglio stilistico ed accessibilità del prezzo. Prodotti legati ad una nuova idea di lusso e capaci di imporsi ad una larga fascia di consumatori cinesi. Oltre ad abiti della moda italiana, il progetto IFFG prevede l’esportazione di accessori e gioielli.

Il made in Italy in Cina con Unimpresa

Una importante vetrina cinese per il made in Italy. È infatti stata inaugurata a Wuhan, città di 9 milioni di abitanti, una grande piattaforma logistica destinata al trading dei prodotti made in Italy dell’agroalimentare, della moda, degli accessori e del design.

Si tratta di un progetto voluto dall’amministrazione locale e da Unimpresa, che coinvolge circa 20 piccole e medie imprese associate, che esporranno e commercializzeranno i propri prodotti attraverso la rete di buyer a disposizione del colosso della logistica cinese, Sinotrans Group, al quale è stata affidata la gestione del centro insieme a Unimpresa. Dal canto suo, Unimpresa assicurerà assistenza e supporto alle Pmi italiane in ambito marketing, logistico e su tematiche economico-fiscali.

L’idea di Unimpresa è quella di replicare in altre 15 città cinesi la piattaforma di trading commerciale di Wuhan dedicata al made in Italy, che rientra nell’ambito del progetto Rethink retail di Unimpresa, progetto che vede la Cina come primo Paese interlocutore.

Con il progetto, Unimpresa si propone di promuovere e valorizzare le eccellenze imprenditoriali e produttive italiane, facendole crescere e posizionandole nelle grandi strutture mondiali di vendita al dettaglio.

Il progetto ha anche importanti risvolti sotto il profilo della tutela dell’originalità del made in Italy. Nella patria del tarocco, i prodotti italiani, avranno un certificato di origine garantito dalla dogana cinese che potrebbe avere un ruolo importante nel fermare il commercio e la diffusione di prodotti contraffatti.

Un nuovo distretto per il made in Italy in Cina

Da alcuni mesi l’economia della Cina è in frenata e i consumi, specialmente per quello che riguarda i beni di importazione, ne stanno risentendo. Il made in Italy cerca però di difendersi nel modo in cui sa fare meglio: attaccando.

Ne è una dimostrazione la nascita, nella Free Trade Zone di Tianjin, di Ta Italy – Italian Food District, polo dedicato all’eccellenza delle aziende alimentari made in Italy. L’idea è quella di strutturare il polo secondo tre direttrici di base: una zona B2B, divisa in moduli che caratterizzano la produzione dei diversi territori italiani; una zona B2C; una zona da adibire a scuola professionale di cucina territoriale e al mondo della ristorazione. Ampio spazio anche a eventi, fiere e corsi di formazione nel settore enogastronomico dell’eccellenza italiana.

Il tutto distribuito su una superficie complessiva di 22mila mq, di cui 8mila destinati al cash & carry delle eccellenze enogastronomiche italiane. Questo vero e proprio food district made in Italy avrà una presenza significativa all’interno della città, dal momento che si articolerà in parte nel centro e in parte nella cosiddetta Free Trade Zone.

L’anima dell’idea e del progetto è italo-cinese, dal momento che nasce dalla famiglia Zheng, imprenditori in Italia da più generazioni che hanno capito lo straordinario peso che il made in Italy ha come biglietto da visita per affermarsi su un mercato come quello cinese.

Ta Italy – Italian Food District si rivolge a una clientela trasversale, fatta di buyer della grande distribuzione, titolari di supermarket, hotel, ristoranti, enoteche ma anche profili più consumer come famiglie e professionisti che abbiano in comune la passione per il made in Italy.

Moda italiana e Bric, Russia e Cina non sono morte

Nonostante una congiuntura che negli ultimi anni ha fortemente indebolito i cosiddetti Paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina), per diverso tempo le motrici dell’economia mondiale, su alcuni di questi continua a scommettere la moda italiana per sostenere il proprio export.

Il Brasile vive ormai da tempo una profonda recessione, l’India si barcamena ma tutto sommato è la realtà con ancora i migliori margini di crescita, la Cina ha rallentato pericolosamente la propria crescita e, con la svalutazione dello Yuan, ha messo in crisi i mercati mondiali, la Russia è fiaccata dalla sanzioni economiche internazionali a seguito della crisi con l’Ucraina. Ma la moda italiana continua a credere specialmente in Russia e Cina.

Secondo le previsioni di Prometeia e del Centro Studi di Confindustria, presentate nei giorni scorsi durante il lancio del progetto Esportare la Dolce Vita, l’export della moda italiana crescerà del 37,4% nei Paesi emergenti da qui al 2020, ma il 2016 sarà l’anno della Russia, dopo il periodo duro delle sanzioni.

In particolare, il made in Italy e la moda italiana dovrebbero tornare a crescere a Mosca a partire dal prossimo anno, sostenuti dal Progetto speciale Russia ideato da Ice, Smi (Sistema Moda Italia) e ministero dello Sviluppo economico e la crescita dovrebbe proseguire anche nel 2016.

Secondo Prometeia e Confindustria, la ripresa in Russia dovrebbe essere sostenuta dai prodotti di fascia medio-alta della moda italiana, che entro il 2020 dovrebbero portare l’export a un +26,7%, per un controvalore di 1,3 miliardi di euro. Numeri da sogno se rapportati al -13% registrato nel 2014 e al -30% del primo semestre 2015.

Sarà invece la Cina in prima persona a venire da noi e a proporre la vendita dei prodotti della moda italiana di fascia medio-alta, semplificando le operazioni di vendita e azzerando i rischi per le aziende italiane. Lo farà con una iniziativa del colosso cinese della distribuzione IFF, che sarà presentata a Milano alle aziende italiane interessate il 6 e 7 ottobre.

Il progetto in questione prevede che i prodotti della moda italiana siano esposti in 8 nuovi Fashion Center posti nelle più note strade commerciali delle città di Pechino, Shanghai, Shenzhen, Changsha, Hangzhou, Wuhan, Shengyang e Xiamen, nei quali 300 distributori cinesi selezionati da IFF esporranno i prodotti italiani per venderli sia al dettaglio sia all’ingrosso. I centri di IFF si attiveranno anche come centrali di acquisto online, utilizzando una piattaforma di eCommerce.

L’arrivo di IFF in Italia a ottobre è mirato a selezionare circa 200 aziende della moda italiana operanti nel segmento dell’abbigliamento e degli accessori, con l’obiettivo di acquistarne i prodotti della collezione autunno/inverno 2016/17. Le aziende interessate possono accreditarsi agli incontri compilando il modulo sul sito di IFF oppure inviando una e-mail a info@retaily.it, per avere anche maggiori informazioni sulla formula di affiliazione adottata.

Export verso la Cina in ribasso

Dopo che, negli ultimi anni, il Made in Italy aveva spopolato in Cina, con cifre record per l’export, ora si sta registrando una brusca inversione di tendenza, dovuta anche ai mercati finanziari internazionali che stanno vivendo un periodo burrascoso.

La svalutazione della moneta cinese, ovviamente, si fa sentire, così come il rallentamento dell’economia cinese, che finora era andata avanti a gonfie vele, e queste sono i principali fattori che hanno portato ad un improvviso stop delle esportazioni.

I dati Istat, a questo proposito, sono piuttosto chiari. Nei primi sei mesi dell’anno l’export verso la Cina è sostanzialmente statico (+0,8%), a fronte di un Made in Italy che cresce del 5,0%; la dinamica del cambio influirà negativamente sulle statistiche delle vendite in Cina relative alla seconda metà dell’anno.

Per quanto riguarda i prodotti che maggiormente sui dirigono in terra cinese, un terzo di essi è composto da macchinari, seguito dal tessile, che comprende abbigliamento e pelli, al 16,6%, poi il 9.9% da mezzi di trasporto e il 6,1% di prodotti chimici, con il 5,5% di Prodotti farmaceutici, 5,3% di Prodotti di metallo e con il 5,0% di Prodotti delle altre attività manifatturiere.

Conseguenza della staticità del mercato è stato un aumento dell’export dei prodotti delle altre attività manifatturiere, in salita del 40,3%, Articoli farmaceutici, chimico medicinali e botanici (+32,3%), Prodotti alimentari, bevande e tabacco (+31,0%) e Prodotti tessili e dell’abbigliamento, pelli e accessori (+14,4%).

All’opposto si registrano marcati cali nei settori di Macchinari ed apparecchi n.c.a. (-9,9%), Legno e prodotti in legno; carta e stampa (-14,2%) e Mezzi.

Vera MORETTI

Imprenditori stranieri in Italia, exploit dei cinesi

Non è una novità il fatto che il tessuto delle imprese italiane deve ringraziare anche il grande numero di imprenditori stranieri se è riuscito a passare senza la bufera della crisi senza morire del tutto. In Italia, infatti, le imprese guidate da imprenditori stranieri (ossia le persone nate all’estero titolari di cariche imprenditoriali all’interno delle imprese registrate nelle Camere di Commercio) continuano a crescere.

Secondo una rilevazione della Cgia, tra il 2013 e il 2014 sono aumentate del 4,1% e hanno superato, in valore assoluto, le 733.500 unità. Quelle condotte da imprenditori stranieri cinesi hanno fatto segnare un boom: +5,1% nell’ultimo anno, poco meno di 70mila (69.500).

Analizzando la provenienza geografica degli imprenditori stranieri, il Marocco è il Paese che ne dà all’Italia di più, 74.520, seguito da Romania (70.104) e Cina (69.401). Rispetto al 2009, anno in cui la crisi economica ha iniziato a mordere davvero, le attività cinesi sono aumentate del 39,2%, contro un incremento medio degli imprenditori stranieri in Italia del 22,5%.

Se l’incidenza degli imprenditori stranieri sui residenti stranieri in Italia è del 14,6%, quelli cinesi sono il 26,1%, presenti maggiormente nei settori del commercio, con quasi 24.571 attività, del manifatturiero, con poco più di 18.450 e della ristorazione-alberghi e bar, con quasi 14.800 attività. In crescita la presenza di imprenditori stranieri cinesi nel settore dei servizi alla persona: sono poco più di 4.100 unità, ma tra il 2013 ed il 2014 l’aumento è stato del 22,4%.

Significativa l’analisi che la Cgia fa sulle rimesse inviate in patria dagli imprenditori stranieri cinesi, ossia quanto denaro inviano al loro Paese d’origine. A causa della crisi economica, negli ultimi tre anni il calo è stato del 69,4%. Se nel 2012 i cinesi inviavano in patria circa 2,67 miliardi di euro, questo valore è sceso a 1,10 miliardi nel 2013 e a 820 milioni nel 2014. Inoltre, mentre nel 2012 le rimesse dei cinesi erano il 39,1% di quelle totali, nel 2013 sono scese al 19,8% e nel 2014 al 15,4%.

Italia, la più cliccata dai mercati stranieri

L’Italia e il Made in Italy piacciono ancora, anzi, sempre di più.
A testimoniarlo sono le percentuali delle ricerche su Google, che negli ultimi tre anni sono aumentate del 22%.

Questo dato è frutto di uno studio, il rapporto Italia – Geografie del nuovo Made in Italy, realizzato da Fondazione Symbola, Unioncamere e Fondazione Edison, presentato a Treia (Macerata) nella sessione di apertura del XIII seminario estivo.

Questo risultato fa capire come il Belpaese sia concepito all’estero, nonostante i sette anni di crisi: i mercati globali, infatti, hanno ancora un’idea di Italia innovativa, versatile, creativa, reattiva, competitiva e vincente.

Questo successo, comunque, è dovuto grazie ad un percorso che, in questi anni, si è deciso di percorrere, senza mai lasciare da parte la qualità, che da sempre contraddistingue, ad esempio, la nostra attività manifatturiera.

Proprio questo settore ha contribuito a far arrivare l’Italia tra le prime cinque potenze industriali, insieme a Cina, Germania, Giappone e Corea.
Non a caso dall’introduzione dell’euro l’Italia ha visto i valori medi unitari dei suoi prodotti salire del 39%, facendo meglio di Regno unito (36%) e Germania (23%).

Ma la qualità dei prodotti italiani non viene riconosciuta solo all’estero perché ben due italiani su tre sono disposti a pagare un sovrapprezzo per avere prodotti 100% italiani. E questa tendenza si riscontra anche in Giappone, Emirati Arabi, Usa, Russia e Brasile.

Ermete Realacci, presidente di Fondazione Symbola, ha dichiarato in proposito: “Mentre la crisi sembra finalmente allentare la sua presa sul Paese, è ancora più importante avere un’idea di futuro, capire quale posto vogliamo che l’Italia occupi in un mondo che cambia. Più che in passato, mi piace dire che l’Italia deve fare l’Italia, rispondendo ad una domanda che aumenta ed e’ confermata dai dati sull’innalzamento delle ricerche sul maggiore motore di navigazione internet, e puntare sui talenti che il mondo le riconosce: bellezza, qualità, conoscenza, innovazione, territorio e coesione sociale che sempre più incrociano la frontiera della green economy. Talenti che ci consegnano le chiavi della contemporaneità e delle sfide del futuro perchè assecondano la voglia crescente di sostenibilità dei consumatori e danno risposte ai grandi cambiamenti negli stili di vita e nei modelli di produzione”.

Vera MORETTI