Riforma del lavoro? Una guerra tra poveri

La riforma del lavoro è realtà. Approvata lo scorso 27 giugno, entrerà ufficialmente in vigore il prossimo 18 luglio. E dopo 40 anni le regole di assunzione e licenziamento in Italia cambiano. Tutti lo sapevano ma solo ora si alza definitivamente il polverone.

La parola d’ordine del nuovo ordinamento è flessibilità. Flessibilità in ingresso e in uscita nel mercato del lavoro, stando alla nuova disciplina sostanziale che regolerà i licenziamenti.

I margini? Resta ancora da vedere quali siano i margini di suddetta flessibilità e che reale vantaggio avranno piccole e medie imprese, oltre che i lavoratori.

Flessibili nel licenziare, flessibili nel reintegrare o assumere.

Il processo sui licenziamenti sarà più veloce e saranno introdotte nuove forme di tutela della disoccupazione, ovvero, stando all’articolo 3 della Riforma di legge il deus ex machina del licenziamento per giusta causa sarà lo sfruttamento degli ammortizzatori sociali: la novità principale riguarderà l’introduzione dell’ASPI (Assicurazione Sociale per l’impiego), che sarà in vigore nel 2013 e sostituirà a regime, nel 2017, l’indennità di mobilità e di disoccupazione. A usufruire, oltre i lavoratori dipendenti, potranno essere gli apprendisti e gli artisti. Sarà possibile trasformare l’indennità Aspi in liquidazione per disporre in tal modo di un capitale per avviare un’impresa.

Già, un’impresa, stando all’Associazione Nazionale dei Consulenti del Lavoro sarà un’impresa trovare un posto di lavoro e mantenerlo.

Addio quindi al reintegro automatico in caso di licenziamento per motivi economici, anche se per alcuni casi specifici sarà prevista un’indennità risarcitoria. Nel caso di licenziamento disciplinare, per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, il giudice avrà una minor discrezionalità nella decisione del reintegro, che sarà previsto solo sulla base dei contratti collettivi.

E i piccoli medi imprenditori? Dovranno puntare sul contratto di apprendistato che diventerà la forma contrattuale dominante attraverso un sistema di incentivi e di benefici contributivi e che dovrà avere una durata minima non inferiore ai 6 mesi, unica vera novità sotto questo fronte.

E i titolari di Partita Iva? Nodo ancora irrisolto e che si appresta a diventare focolaio di discussioni e polemiche. Per i liberi professionisti la durata di collaborazione non dovrà superare gli 8 mesi e il corrispettivo pagato non dovrà superare l’80% di quello di dipendenti e co.co.co. In caso di collaborazione continuata che superi gli 8 mesi, il rapporto di lavoro si dovrà tramutare in altra forma contrattuale.

Mettiamo insieme le due cose: la guerra ai partitivisti porterà sempre meno titolari a mettersi in proprio e a fare, come accade oggi, di necessità virtù. Dall’altra parte, i piccoli medi imprenditori, ai quali mancheranno agevolazioni e aiuti nell’ acquisizione di nuove risorse, saranno costretti a trovare un mutuo accordo con chi sarà in cerca di un impiego. Che per uscire da un circolo vizioso come quello proposto dall’attuale Riforma si proceda alla mala parata e si fomenti il lavoro nero?

Mutua solidarietà tra piccolo imprenditore e lavoratore, l’uno alla ricerca di nuove commesse e l’altro alla ricerca di un nuovo lavoro?

Ma non sarebbe meglio incentivare le assunzioni a tempo indeterminato liberando le pmi dalle tassazioni e dalla pressione fiscale cui sono soggette, almeno nei primi tre anni di vita dell’attività?

Una riforma apprezzabile, dunque, o solo fumo negli occhi? A dire il vero molti sono ancora i tasti dolenti e quelli poco chiari. Come essere tutelati e scegliere la più opportuna tipologia di contratto di lavoro da proporre o da accettare? Che fine faranno gli ordini professionali ancora in bilico con relative casse previdenziali al seguito? E le partite IVA finte e i lavoratori parasubordinati che esistono da sempre?

Dopo tante chiacchiere e pagine di Riforma, un punto proprio ci manca: dov’è finita la forza di trascinamento e incoraggiamento verso le piccole e medie imprese?

 

Giovani, carini e disoccupati

 

Ma cosa devono fare i ragazzi italiani per darsi da fare? Lauree, master, stage, concorsi sembrano soluzioni inutili stando ai dati emessi dall’indice Istat in queste ore.

A maggio 2012, il tasso di disoccupazione giovanile calcolato sui ragazzi di età compresa tra i 15 ai 24 anni ha registrato un’incidenza del 36,2%, ovvero 1 ragazzo su 3 si trova senza lavoro.

“Bravo, ma hai troppa esperienza”, oppure “Sei in gamba, ma non possiamo pagarti”, o ancora, “Hai famiglia, non possiamo rispettare le tue aspettative”, quante volte ce lo siamo sentiti dire?

Turnover e stagisti: agli italiani delle Human Resources piacciono i nomi esterofili, peccato che non ne seguano anche i modelli di pianificazione delle risorse.

Gli esaminatori dei colloqui recitano sempre le solite frasi che sanno di scherzo, ed anche cercarsi un lavoro dignitoso diventa un’impresa per chi, di voglia di fare e di mettere al servizio buona volontà o conoscenze fresche di scuola.

Il risultato? Più vacanze per tutti, che se non sono un male con queste ondate di caldo ma che di certo nuocciono allo spirito di chi, sfaccendato dopo anni di studio o dopo una consapevole riflessione sulle proprie potenzialità, non vede spiragli nel suo futuro più imminente.

E non parliamo dei progetti a lungo termine…

I dati sul tasso di disoccupazione, dunque, rimangono sconfortanti, senza parlare della crisi degli over 30-40 che, per colpa della crisi, perché poco meritevoli o semplicemente “troppo formati” per vedere confermato il loro impiego, subiscono l’egemonia dei famosi Co. Co.Pro. o non si vedono rinnovato il contratto di impiego dopo mesi, se non anni di lavoro.

C’è da dire che se nulla o poco possono le piccole medie imprese nazionali, ancora meno fanno le grandi aziende, dove “essere un numero” diventa sempre più sinonimo di precarietà.

Mettere su una start up? In molti ci provano, nonostante le agevolazioni messe in atto e le difficili condizioni per accedervi.

In questo possono molto i franchising, ma al contempo fare i conti con il classico “27 del mese” diventa una responsabilità troppo alta per chi, già, ha da mettere il pane in tavola.

Certo, la provincia di Milano ha da poco proposto al governo un nuovo volano strategico per lo sviluppo economico, una nuova no tax area destinata a chi vuole intraprendere “l’impresa di mettere su un’impresa”. L’idea, non del tutto malsana, è quella di creare delle condizioni favorevoli e delle agevolazioni tributarie in favore di chiunque decida di avviare una nuova impresa nel territorio.
A sostenerla, Cristina Tajiani, assessore del Comune di Milano, il cui obiettivo è quello di creare un progetto che potrebbe ispirarne anche altri. Ma intanto?

Dal gennaio 2004 ad oggi mai la situazione era stata così grave e nonostante spread, bond, CCT, i giovani – che intanto invecchiano – continuano a rimanere inoccupati, con un aumento di 0,9 punti percentuali su aprile che segnano un record storico.

C’è da dire che, sempre secondo i dati Istat, il tasso di disoccupazione tra la popolazione nel suo complesso è scesa di -01 punti percentuali a maggio 2012, ed è la prima diminuzione, anche se lieve, del tasso di disoccupazione da febbraio del 2011. Ciononostante, per i tecnici il risultato rimane “sostanzialmente stazionario” e la disoccupazione persiste su “valori molto elevati”. Ovvero, non va niente bene.

Non che altrove le cose siano differenti: nei Paesi della zona Euro la stessa percentuale, a maggio, è salita all’11,1%, quando ad aprile era all’11% e nel maggio 2011 era al 10%.

Espatriare? Rimettersi alla canonica fuga di cervelli? “Varrebbe la pena” in Austria (dove i tassi di disoccupazione sono minimi, attestati all’4,1%), Olanda (5,1%), Lussemburgo (5,4%) e Germania (5,6%), ai massimi di Spagna (24,6%) e Grecia (21,9% il dato di marzo 2012).

In Italia, invece, il numero dei disoccupati è calato di 18mila unità ed è sceso 2.584 mila rispetto ad una base annua del 26% pari a 534mila unità che vede uomini e donne ugualmente penalizzati. E questo, per qualche animo più debole, significa dire addio a sogni di lavoro.

I lavori stagionali saranno d’aiuto? Il lavoro nobilita l’uomo ed è un diritto sancito dalla Costituzione italiana. Un articolo troppo in incipit perché qualcuno se ne ricordi a buon diritto.

 

Paola PERFETTI

Come ti stritolo la partita Iva

di Davide PASSONI

L’operazione terrorismo portata avanti dal governo sulle partite Iva ha funzionato. Brava Fornero, bravo Monti. A forza di parlare di false partite Iva e a forza di identificare i veri partitivisti come dei parasubordinati nonché potenziali evasori, una delle risorse più importanti per la nostra asfittica economia schiacciata dalla crisi ha poderosamente tirato il freno a mano.

Ad aprile 2012 sono state infatti aperte 46.337 nuove partite Iva: se nel raffronto anno su anno si parla di una flessione del 3%, rispetto a marzo 2011 il calo è stato pari al 25,8%. Non un calo, un crollo. Il dato emerge dalle cifre pubblicate dal Dipartimento delle Finanze, ovvero il gran nemico dei partitivisti. Che potrà dirsi a pieno titolo soddisfatto del risultato.

Il commercio continua a registrare il maggior numero di aperture di partite Iva: il 22,1% del totale, seguito dalle attività professionali con il 14,7%. Considerando i macrosettori produttivi, solo in quello agricolo si registra un aumento di aperture (+4,5%), mentre l’industria accusa la diminuzione maggiore (-8,9%). Consoliamoci con i giovani: il 51,3% delle aperture è operato da giovani fino a 35 anni, scaglione di età unico in aumento rispetto al corrispondente mese del 2011 a +13,6%.

Che cosa pensare, dunque, se non, come detto all’inizio si tratta di un effetto dell’operazione terrorismo fatta sulle partite Iva? Lo avevamo scritto tempo fa: se passassero gli emendamenti al ddl lavoro su co.co.pro. e partite iva, la piccola impresa che vive di commesse e cerca collaboratori per i quali essere a sua volta committente, si troverebbe nell’impossibilità di offrire commesse perché non potrebbe fruire dei servizi di un professionista a partita Iva pagandolo il giusto. La piccola impresa, che vive di un rischio imprenditoriale proprio, non potrebbe permettersi di pagare un salario minimo ai co.co.pro. perché non potrebbe far fronte ai costi aggiuntivi che tale formula prevedrebbe. Per cui, non avrebbe più committenti, di conseguenza nemmeno commesse. In sostanza, fallirebbe. Questo dato sul crollo delle nuove partite Iva aggiunge amarezza ad amarezza. Non solo, infatti, la riforma del lavoro introduce minore flessibilità in entrata soffocando un mercato già ingessato; in più, la stretta sulle partite Iva chiude l’ultimo rubinetto ancora aperto per dare un minimo di lavoro e ossigeno alla piccola impresa. Prima temevamo che sarebbe successo, oggi questo dato sulle partite Iva ce ne dà la certezza.

Altro che “Cresci Italia“, qui ormai siamo “Crepa Italia“.

Alzi la mano chi conosce la riforma del lavoro!

La riforma del lavoro, dopo aver suscitato molte polemiche, si ripresenta con alcune modifiche, in certi casi consistenti.
Vediamole punto per punto.

Una delle note dolenti era rappresentata dall’apprendistato, che ora diventa canale d’ingresso nel mondo del lavoro da parte dei giovani. Se si tratta di aziende con meno di 10 dipendenti il rapporto tra apprendisti e professionisti non può superare quello di 1 a 1, se si tratta per le aziende con meno di 10 dipendenti. Nulla di fatto per gli apprendisti in staff leasing.

Per quanto riguarda gli ammortizzatori, arriva la nuova Aspi dal 2013. Dal 2017 sostituirà l’indennità di mobilità e le varie indennità di disoccupazione. C‘è inoltre la possiblità, in via sperimentale, dal 2013 al 2015, di prendere tutta insieme l’indennità per avviare un lavoro autonomo.

Per i collaboratori a progetto è previsto un salario base. In via sperimentale per tre anni l’una tantum, in caso di perdita del lavoro, viene rafforzata: potrà arrivare a 6mila euro per un collaboratore che abbia lavorato da sei mesi a un anno.

Anche il congedo di paternità è stato modificato: si potrà usifruirne nei primi 5 mesi di vita del figlio e sarà obbligatorio un giorno e facoltativo (e in accordo con la madre) per gli altri due. E i voucher per la baby sitter potranno pagare anche le rette dell’asilo.

Le aziende potranno esimersi dall’indicare la causale del contratto, quando si tratta di contratti a tempo, fino a un anno. I contratti collettivi possono prevedere, in alternativa ai 12 mesi, una “franchigia” nei casi di specifici processi organizzativi nel limite del 6% degli occupati.

L’articolo 18 che riguarda i licenziamenti ha subito alcune modifiche: nei licenziamenti disciplinari il reintegro è possibile in base alla “tipizzazioni” dei contratti collettivi (e non più dalla legge). Una finta malattia poi non potrà più inficiare il recesso (salvo maternità e infortuni).

Cambiano le regole anche per accedere alla sospensione delle rate di mutuo sulla prima casa.
In questo caso, non verranno applicate commissioni o spese di istruttoria e il tutto avverrà senza richiesta di garanzie aggiuntive.

Le partite Iva, per le quali si era scatenato un putiferio, sono considerate valide con un reddito lordo annuo superiore a 18mila euro. Per riconoscere quelle fittizie ci si baserà su tre indici: durata di 8 mesi della collaborazione, 80% del reddito totale e avere una postazione fissa.

Gli sgravi sul salario di produttività diventano strutturali dal 2012. La “cedolare secca” del 10%, introdotta in via sperimentale per il triennio 2008-2010,potrà contare su 650 milioni di euro.

Approvati i voucher in agricoltura per studenti, pensionati e casalinghe, ma per le imprese con un fatturato sotto i 7mila euro. Per tutte le altre imprese le casalinghe sono escluse. Previsto un valore orario, da aggiornare con i sindacati.

Vera MORETTI

Co.co.pro e partite Iva, specchietti per le allodole

di Davide PASSONI

Partiamo con una domanda: in questo momento di crisi, meglio poco per tanti o niente per nessuno?

Proseguiamo con una valutazione: gli emendamenti al ddl lavoro relativi ai co.co.pro. e alle cosiddette “false partite Iva” proposti da Tiziano Treu (Pd) e Maurizio Castro (Udc) sono una porcata. Che cosa prevedono? Relativamente ai co.co.pro., si introduce il concetto di giusta retribuzione, definita sulla base della media tra le tariffe del lavoro autonomo e dei contratti collettivi. Per le “false partite Iva” si parla di un limite massimo di 18mila euro di reddito lordo annuo: se un professionista a partita Iva guadagna di più, per lo stato è automaticamente una falsa partita Iva. Per cui, cara impresa che di lui ti servi, non saranno valide le presunzioni per far scattare l’assunzione. In più, nella formulazione prevista dal ddl si prevede che le partite Iva siano considerate collaborazioni coordinate e continuative se sussistono due di questi tre presupposti: collaborazione con durata superiore ai sei mesi nell’arco dell’anno, corrispettivo derivante dalla collaborazione superiore al 75% del reddito totale annuo, postazione di lavoro presso la sede del committente. Nell’emendamento si passa a otto mesi e 80%. Poco cambia, per le piccole imprese sarà l’ecatombe.

Tiriamo una prima conclusione. In un periodo in cui ci sarebbe bisogno come il pane di un patto forte tra imprese e lavoratori per non affondare tutti, queste misure vanno esattamente nella direzione opposta. E, soprattutto, sono delle cannonate mortali per le piccole imprese. Le uniche, detto per inciso, che nei momenti più neri della crisi hanno continuato, bene o male, a dare lavoro. Quindi la domanda retorica con cui abbiamo aperto troverebbe una risposta a sorpresa: niente per nessuno.

Ebbene, passassero gli emendamenti in questione, la piccola impresa che vive di commesse e cerca collaboratori per i quali essere a sua volta committente, si troverebbe nell’impossibilità di offrire commesse perché non potrebbe fruire dei servizi di un professionista a partita Iva pagandolo il giusto: sforasse i 18mila euro lordi, sarebbero fritti in due, l’impresa e il professionista. La piccola impresa, che vive di un rischio imprenditoriale proprio, non potrebbe permettersi di pagare un salario minimo ai co.co.pro. perché non potrebbe far fronte ai costi aggiuntivi che tale formula prevedrebbe. Per cui, non avrebbe più committenti, di conseguenza nemmeno commesse. In sostanza, fallirebbe. Il professionista, si ritroverebbe a sua volta senza commessa e senza un reddito. E tanti saluti alla spina dorsale dell’economia italiana.

Tiriamo una seconda conclusione. Queste proposte di modifica arrivano sì dai partiti, ma da quei partiti che sostengono il governo. E sembrano quasi il frutto di una manovra diversiva che prepara alla stangata dell’aumento dell’Iva che a ottobre nessuno, statene certi, ci toglierà. Ovvero: cari lavoratori, vedete come siamo bravi, aumentiamo il potere d’acquisto del vostro reddito dandovi la certezza di uno stipendio! Ma intanto… zac! Due punti in più di Iva e deprimiamo i consumi. E i professori assentono. Non sarà mica che questi tecnici, questi professori che non passa giorno senza che sbandierino la loro apoliticità, si stiano invece preparando a candidarsi nel 2013 e lavorino già sul populismo attira-voti?

Perché lasciare la posizione di AD di un grande gruppo bancario per fare il ministro e prendersi pesci in faccia dal mattino alla sera, peraltro, pensiamo, guadagnando di meno? Perché assumere la guida di un governo e di un’economia alla frutta quando negli ambienti accademici si poteva stare tranquilli tranquilli? Per puro senso dello stato e spirito di servizio? Un tecnico alla guida di un governo e poi, qualche anno dopo, al Quirinale, lo abbiamo già visto. E nel 2013 anche Napolitano lascerà. Che sia tutta propaganda sulla pelle delle imprese? Non lo vogliamo credere, ma se due indizi fanno una prova…

Co.co.pro? No, grazie

di Vera MORETTI

Alla faccia di chi vuol farci credere che tra lavoratore dipendente e lavoratore precario la differenza è poca. Non si tratta solo di sicurezza e certezza nel futuro, ma anche di retribuzione.
A questo proposito, il gap tra precario e dipendente è di 5.000 euro e sale a 6.800 se si tratta di una donna. Come se ci fosse bisogno di altri motivi per diffidare dei contratti co.co.pro.

Se, poi, si ha meno di 24 anni, la penalizzazione è quasi raddoppiata, dal momento che il divario raggiunge 8.221 euro, ovvero la differenza tra gli 11.400 euro medi annui di un dipendente e i 3.179 euro di un co.co.pro. e un collaboratore coordinato e continuativo.

Questi dati sono stati resi noti da Isfol, la cui direttrice generale, Aviana Bulgarelli ha commentato così: “Una situazione che per le lavoratrici diventa paradossale. Le donne hanno in genere tassi di istruzione più elevati degli uomini. E invece sul fronte salariale continuano a subire una forte disparità di genere. Sia se inquadrate come co.co.pro. che come lavoratrici dipendenti“.

I collaboratori a progetto sono un esercito di 676mila, ai quali si aggiungono i 50mila collaboratori coordinati e continuativi che ci sono nella Pubblica amministrazione e tutti sono accomunati da un reddito medio annuo di 9.885 euro contro i 16.290 euro di busta paga media l’anno degli oltre 17 milioni di occupati dipendenti.
Per quanto riguarda i lavoratori parasubordinati, in Italia sono 1 milione e 442mila unità. Tra loro, il 46,9% sono co.co.pro. Mentre il 35,1% dei collaboratori a progetto ha un’età inferiore ai 30 anni e il 28,7% tra i 30 e 39 anni.
L’84,2% dei co.co.pro. è caratterizzato poi da un regime contributivo esclusivo, ovvero non svolge un’altra occupazione: si tratta di 569mila lavoratori il cui reddito medio scende a 8.500 euro l’anno. Per ricevere uno stipendio pari a quello di un dipendente, un co.co.pro. e un co.co.co. deve superare i 60 anni e arrivare a fine carriera, quanto il reddito annuale medio ammonta a 19.797 euro contro i 19.462 euro per un dipendente.

Una recente indagine di Isfol-Plus, poi, informa che, per quanto riguarda i lavoratori parasubordinati, il 70% dei collaboratori deve garantire la presenza presso la sede di lavoro, il 67% ha concordato un orario giornaliero con il datore e il 71% utilizza, nello svolgimento della prestazione, mezzi e strumenti del datore di lavoro.

Chi decide il tipo di contratto? Di certo non i diretti interessati ma, guarda caso, i datori di lavoro stessi. Per questo, è richiesto a gran voce l’intervento di Elsa Fornero, ministro del Lavoro e del Welfare, che dovrebbe, secondo Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil, “equiparare i contributi, garantendo contestualmente le stesse tutele e dando certezza di un salario corrispondente al lavoro che si svolge“.

Una soluzione alternativa, per Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil, potrebbe essere quella di utilizzare queste forme contrattuali per “assumere lavoratori per qualifiche medio-alte“.

Co.co.co e progetti extra Ue esclusi dagli ingressi stagionali

Il Dpcm 1° aprile 2010 ha fissato i termini dei flussi di ingresso per lavoro stagionale per il 2010, autorizzando 80mila lavoratori extracomunitari per lavoro subordinato stagionale e 4mila permessi per motivo di lavoro autonomo.

Il ministero dell’Interno, con nota protocollo n. 8809/2010, ha precisato che i lavoratori coordinati e continuativi e quelli a progetto sono esclusi dai flussi d’ingresso per il 2010. I titolari di contratti di collaborazione non possono ottenere il rilascio del visto d’ingresso per lavoro autonomo.

I nuovi visti sono riservati soltanto a: imprenditori che svolgono attività di interesse per l’economia italiana; liberi professionisti; soci e amministratori di società non cooperative; artisti di chiara fama internazionale e di alta qualificazione professionale, ingaggiati da enti pubblici e privati; artigiani provenienti da Paesi extra Ue che contribuiscono finanziariamente agli investimenti effettuati dai propri cittadini sul territorio nazionale.

Pertanto, è escluso il rilascio del visto per lavoro autonomo ai titolari di contratti di collaborazione (co.co.co. e co.co. pro.).

Inoltre, il rilascio del visto d’ingresso a favore di soci e amministratori di società o di titolari di contratto per prestazioni di lavoro autonomo può avvenire solo se la società di destinazione del lavoratore in Italia risulta attiva in Italia da almeno 3 anni. L’attestazione relativa all’astratta individuazione delle risorse necessarie all’attività da intraprendere, rilasciata dalla Camera di commercio, non può risultare inferiore a 4.962,36 euro.