Bonus 200 euro, chi lo prenderà e quando

Chi prenderà il bonus 200 euro e quando? L’erogazione dell’indennità prevista dal decreto legge “Aiuti” del governo, avverrà per tutte le categorie lavorative e per i pensionati. Tutti dovranno avere un reddito lordo annuo non eccedente il 35 mila euro. Inclusi nella misura anche colf e badanti e, in generale, i lavoratori domestici. Il bonus 200 euro sarà pagato anche a chi prende il reddito di cittadinanza e quanti hanno ricevuto nel corso dello scorso anno un’indennità per il Covid. A disciplinare la misura di aiuto contro il rincaro dei prezzi è il decreto legge numero 50 del 2022, in vigore da mercoledì 18 maggio. L’indennità verrà pagata anche ai commercianti, artigiani, liberi professionisti e partite Iva: ma i lavoratori autonomi dovranno attendere un altro decreto da emanarsi entro 30 giorni che disciplini le modalità di pagamento e quanto spetti di indennità.

Bonus 200 euro ai pensionati, come verrà pagato?

I pensionati con redditi personali del 2021 non eccedenti i 35 mila euro lordi all’anno prenderanno il bonus 200 euro con decorrenza entro il 30 giugno 2022. Sarà l’Inps a effettuare il pagamento nella mensilità di luglio 2022. I pensionati, dunque, non dovranno presentare alcuna domanda. Per il calcolo del reddito non si tiene conto della casa di abitazione, del trattamento di fine rapporto (Tfr) e delle competenze arretrate a tassazione separata. Anche i percettori del trattamento sociale o di invalidità civile percepiranno l’indennità. Sono incluse anche le prestazioni di accompagnamento alla pensione, come ad esempio, l’Ape sociale o i lavoratori usciti da lavoro con i contratti di espansione.

Indennità Inps 200 euro ai lavoratori dipendenti: cosa bisogna fare?

I lavoratori alle dipendenze riceveranno il bonus 200 euro nel cedolino della busta paga di luglio. L’indennità, prevista dagli articoli 31-33 del decreto legge numero 50 del 2022, è esentasse. Come tutte le altre categorie, i lavoratori dipendenti percepiranno l’indennità una sola volta. Il pagamento del bonus non prevede alcuna domanda. Tuttavia, il lavoratore dipendente non deve essere percettore di alcuna pensione, anche di invalidità civile, e nemmeno del reddito di cittadinanza. I datori di lavoro potranno recuperare l’indennità anticipata in compensazione sui contributi UniEmens.

Lavoratori dipendenti che percepiranno il bonus 200 euro: come verificare se si rientra?

I lavoratori dipendenti possono verificare se il bonus 200 euro spetti mediante il diritto allo sconto contributivo. Si tratta della misura introdotto per il 2022 che consente di beneficiare di uno sconto di contributi pari allo 0,8%. Ricevono lo sconto i lavoratori con reddito mensile lordo non eccedente i 2.692 euro. Dunque, basta che i dipendenti abbiano beneficiato dello sconto contributivo in almeno un mese tra gennaio e aprile per percepire il bonus 200 euro.

Prendono il bonus 200 euro i lavoratori autonomi occasionali?

Il bonus 200 euro verrà pagato anche ai lavoratori autonomi occasionali senza partita Iva. Ovvero ai titolari dei contratti previsti dall’articolo 2222 del Codice civile. Si tratta dei contratti con ritenuta d’acconto. L’indennità spetterà se è stato corrisposto almeno un contributo mensile durante l’anno 2021. Per questi contratti, tuttavia, è necessario il versamento dei contributi alla Gestione separata dell’Inps (che deve risultare aperta al 18 maggio 2022) che avviene se il totale dei compensi annui supera la cifra di 5 mila euro. Ne consegue che i lavoratori autonomi occasionali prenderanno il bonus 200 euro solo se, per uno o più contratti del 2021, hanno percepito almeno 6.330 euro. Questo importo è il minimo per l’accredito di un mese di contributi. Infine, per questi lavoratori serve presentare la domanda all’Inps per ottenere l’una tantum.

Bonus 200 euro, verrà pagato agli incaricati delle vendite a domicilio e lavoratori dello spettacolo?

Il bonus 200 euro verrà pagato anche agli incaricati delle vendite a domicilio. La condizione per ottenere l’indennità è che nel 2021 siano stati percepiti compensi superiori ai 5 mila euro. Tra le altre condizioni, serve la partita Iva e l’iscrizione alla Gestione separata dell’Inps. Occorre presentare domanda all’Inps. I lavoratori dello spettacolo con redditi 2021 entro i 35 mila euro percepiranno il bonus purché per il 2021 abbiano almeno 50 contributi giornalieri. A questi lavoratori il bonus viene pagato dall’Inps previa domanda.

Lavoratori stagionali, a termine, intermittenti e disoccupati agricoli: prenderanno il bonus 200 euro?

I lavoratori stagionali, a termine e intermittenti prenderanno il bonus 200 euro purché nel 2021 il reddito non sia stato eccedente i 35 mila euro. Anche per questi lavoratori sono necessarie 50 contributi giornalieri. L’Inps eroga il bonus previa domanda. Non serve la domanda all’Inps, invece, per i disoccupati agricoli. Sarà l’Inps stessa a erogare l’indennità purché sia stata percepita la disoccupazione nel 2021.

Lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.): prenderanno il bonus 200 euro?

I lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.) prenderanno il bonus 200 euro a determinate condizioni. Infatti, il contratto deve essere in essere alla data del 18 maggio 2022. Il lavoratore deve essere iscritto alla Gestione separata dell’Inps. Inoltre, i lavoratori di questa categoria non devono essere percettori di pensione. E nemmeno essere iscritti ad altre gestioni previdenziali. Anche per questi lavoratori vale il limite di reddito di 35 mila euro. È l’Inps a erogare il bonus previa domanda.

Colf, badanti e disoccupati: prenderanno l’indennità di 200 euro?

Colf, badanti e lavoratori domestici prenderanno il bonus purché abbiano in essere un rapporto di lavoro alla data del 18 maggio 2022. Serve presentare la domanda all’Inps. I disoccupati, ex lavoratori alle dipendenze o parasubordinati, percepiranno il bonus 200 euro purché ricevano una mensilità di disoccupazione Naspi o Dis coll a giugno 2022. È l’Inps a pagare senza bisogno di presentare la domanda.

Colf e badanti, rimodulazione aliquote contributi Inps: chi ci guadagna?

Per colf e badanti, e per le famiglie datrici di lavoro, è tempo di rimodulazione delle aliquote ai fini dei contributi Inps. Per varie fasce di lavoratori domestici saranno versati più contributi previdenziali per ogni ora di lavoro. Per altre, invece, la rimodulazione delle aliquote porterà un minore versamento, con un risparmio per le famiglie. Ecco nel dettaglio chi ci guadagna e chi risparmia.

Colf e badanti, contributi Inps in rialzo per la rimodulazione delle fasce di aliquote

Rispetto allo scorso anno, nel 2022 saranno in aumento gli importi dei contributi dell’Inps per colf e badanti. L’aggiornamento delle tabelle dei contributi fatta dall’Inps per i lavoratori domestici riguarda sia chi ha un contratto a tempo indeterminato che determinato, con o senza la quota degli assegni familiari. In generale, per via dell’adeguamento all’aumentato livello dei prezzi (inflazione), gli importi nel 2022 cresceranno rispetto al 2021 da due a quattro centesimi di euro per ciascuna ora lavorata.

Colf e badanti, di quanto aumenteranno i contributi Inps nel 2022

In base agli aumenti del 2022, dunque, i contributi Inps passeranno da 1,43 a 1,46 euro per i colf e i badanti assunti con contratto a tempo indeterminato e una retribuzione effettiva di 8 euro per ogni ora. L’aumento dei contributi previdenziale include già la tredicesima mensilità e l’eventuale accordo circa il vitto e l’alloggio.

Colf e badanti, contributi Inps del 2022: quali famiglie risparmieranno con meno versamenti?

Non ci saranno aumenti ma risparmi, in relazione ai contributi Inps versati per i colf e le badanti che abbiano un rapporto di lavoro fino a 24 ore alla settimana. Per questi rapporti di lavoro, i domestici e le famiglie datrici di lavoro vedranno scendere i versamenti contributivi. Infatti, per le retribuzioni orarie che abbiano un valore compreso tra 7,45 e 7,60 euro per ogni ora, a esclusione della tredicesima mensilità, le famiglie risparmieranno 50 euro di contributi previdenziali ogni tre mesi.

Colf e badanti per 9 euro l’ora, quanti contributi Inps vanno versati?

Per i colf e badanti pagati tra 9,10 euro e 9,28 euro, il risparmio dei versamenti contributivi si attesterà sui 100 euro ogni tre mesi. Secondo l’Assindatcolf, le famiglie che avranno meno contributi Inps da pagare per colf e badanti saranno all’incirca 30 mila su un totale di 920 mila. Si tratta, in questo caso, di quasi un milione di famiglie che hanno regolarizzato il lavoro domestico dei propri collaboratori. La prima scadenza del 2022 per versare i contributi Inps ai colf e alle badanti è fissata all’11 aprile 2022.

Partite Iva, professionisti, collaboratori e agenti, senza Green pass si rischia di perdere i contratti

Nessuna certezza per le partite Iva, i collaboratori, gli agenti e i liberi professionisti di mantenere i contratti e le commesse in assenza di Green pass. In mancanza del documento verde, infatti, sono possibili la risoluzione per inadempimento oppure il recesso per impossibilità sopravvenuta. Gli autonomi, in quanto a regole sulla sicurezza e sull’obbligo di esibire il Green pass sui luoghi di lavoro non potranno esimersi al pari dei lavoratori dipendenti a partire dal 15 ottobre 2021. E la disciplina potrebbe avere un impatto negativo sui loro affari.

Partite Iva con Green pass quando vanno a svolgere una prestazione lavorativa

Non si sottraggono, pertanto, le partite Iva e i liberi professionisti alla regola generale enunciata dal decreto legge 127 del 2021. “Chiunque svolge un’attività lavorativa nel settore privato è obbligato, ai fini dell’accesso ai luoghi in cui la predetta attività è svolta, di possedere e di esibire, su richiesta, la certificazione verde Covid-19”. In quanto intenti a svolgere una prestazione lavorativa a qualsiasi titolo, anche gli autonomi sono assoggettati alla stessa regola dei lavoratori dipendenti privati e pubblici.

Green pass, anche gli autonomi devono esibirlo se vanno a lavorare all’interno di un’azienda

Non può essere altresì motivo di sottrazione all’obbligo di esibire il Green pass nei luoghi di lavoro per gli autonomi il fatto che i controlli siano fatti, come specifica il decreto 127, a cura del “datore di lavoro”, dando quindi un’impronta più propriamente di tipo “subordinato” al rapporto di lavoro. Un commercialista che per redigere il bilancio di un’azienda deve recarsi nella sede del cliente più volte (ma anche se dovesse andarci una sola volta), si vedrebbe richiedere l’esibizione del Green pass all’entrata al pari di un dipendente dell’azienda stessa.

Sanzioni per gli autonomi senza Green pass

Il controllo all’interno dell’azienda, peraltro, potrebbe essere svolto non solo dal personale preposto dal datore di lavoro, ma anche da un pubblico ufficiale. La mancanza del Green pass per il lavoratore autonomo o per la partita Iva comporterebbe la previsione della sanzione, come avverrebbe anche per i dipendenti. L’importo della sanzione varia da 600 a 1500 euro. Fatte le premesse di obbligo di esibire il documento verde, è in ogni modo fare le opportune differenze tra i lavoratori autonomi.

Partite Iva e co.co.co. perdono i compensi della prestazione senza Green pass

I lavoratori autonomi che svolgono la propria attività con il contratto di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.) o con partita Iva si trovano in una situazione molto simile a quella dei dipendenti aziendali nel momento in cui devono svolgere la propria prestazione all’interno dell’azienda. Pertanto, il controllo all’ingresso dell’addetto si estende, secondo quanto recita il decreto 127, “anche sulla base dei contratti esterni”. In mancanza di Green pass anche le partite Iva e i co.co.co. non potrebbe accedere all’interno. Il risultato è che il committente non è tenuto alla sua prestazione. Di conseguenza, dunque, può esimersi dal pagare il compenso legato alla prestazione.

Recesso per impossibilità sopravvenuta senza Green pass

Rispetto ai lavoratori dipendenti che senza Green pass non possono essere licenziati, ma risultano assenti ingiustificati e pertanto senza stipendio fino al momento in cui si mettano in regola, l’autonomo potrebbe vedersi risolvere il contratto per inadempimento. Il che significa che il contratto che lo lega all’azienda cliente o committente subirebbe il recesso per impossibilità sopravvenuta della prestazione nel momento in cui questa situazione si dovesse protrarre per diverso tempo.

Agenti, senza Green pass si possono perdere contratti

Una situazione simile potrebbe riscontrarsi per gli agenti. La conclusione dei contratti, e dunque andare presso la sede, l’ufficio o lo stabilimento dei clienti, in assenza di Green pass si potrebbe tradurre in una perdita di ordini. Ovviamente la perdita potrebbe ridursi nel caso in cui l’agente si mettesse in regola con il documento verde. Oppure riuscisse a operare senza la visita dei clienti. Tuttavia, a lungo andare, l’agente potrebbe trovarsi in situazioni di inadempimento o di impossibilità di rendere la prestazione.

Liberi professionisti, il concetto ampio del luogo di lavoro

Al libero professionista che si reca presso la sede di un’azienda cliente incombe l’obbligo di Green pass da mostrare all’ingresso. Ma cosa avviene, invece, all’interno del proprio studio professionale? In queste situazioni, il decreto 127 del 2021 traccia un concetto di luogo di lavoro molto ampio. All’interno di aziende, esercizi commerciali, laboratori artigiani, a prescindere dal numero di lavoratori, il Green pass è obbligatorio.

Libero professionista: dentro il suo studio deve avere il Green pass?

È importante rilevare che anche all’interno del proprio studio professionale o del negozio, anche lavorando da solo, il libero professionista o il negoziante devono essere in possesso di regolare Green pass. La ragione della norma risiede nella necessità di tutelare clienti e collaboratori che entrino nello studio o nel negozio. Rimarrebbe escluso da questo ambito solo il libero professionista che svolge la prestazione lavorativa dalla propria abitazione. Anche in questo caso, però, è necessario che l’attività non comporti la visita di collaboratori o di clienti.

Grenn pass, deve averlo il professionista che va a svolgere l’attività in una casa privata?

Infine, il lavoratore autonomo che si dirige in un’abitazione privata altrui per svolgere la sua prestazione potrebbe vedersi inibito l’accesso senza Green pass. In questo caso il controllore sarebbe il proprietario di casa che ha la facoltà di farsi mostrare il documento verde, ma non l’obbligo. In tutti questi casi, dunque, il lavoratore autonomo rischia di perdere contratti e prestazioni lavorative per l’assenza di Green pass. Sempre che non si veda richiedere il risarcimento qualora dalla sua condotta ne derivi un danno al committente.

Chi controlla il Green pass delle partite Iva e professionisti?

Con l’estensione del Green pass anche ai professionisti e alle partite Iva dal 15 ottobre 2021 si innesca un meccanismo a cascata per le verifiche del documento verde. Infatti, l’obbligo di esibire il Green pass non spetta solo ai dipendenti per l’accesso ai luoghi di lavoro, ma anche alle partite Iva e ai professionisti per una prestazione da svolgere all’interno di luoghi di lavoro o di un ufficio pubblico.

Lavoratori autonomi, chi deve esibire il Green pass?

Ne deriva che la platea dei lavoratori autonomi che deve esibire il Green pass risulta notevolmente allargata. Le categorie coinvolte riguarda, dunque, le partite Iva, i collaboratori, i liberi professionisti e ogni altra tipologia di lavoratori non subordinati. Di conseguenza si moltiplicano le occasioni e i luoghi nei quali è necessario esibire il documento verde. Le estensioni di lavoratori e le occasioni di esibizione del Green pass derivano da una lettura combinata delle norme sia per il settore pubblico che privato.

Chi deve fare i controlli del Green pass?

Tanto nella Pubblica amministrazione, quanto nelle realtà del settore privato, saranno i datori di lavoro a verificare il possesso del Green pass. Il lasso di tempo rimanente fino al 15 ottobre prossimo servirà agli enti, ma anche alle aziende del privato, per organizzare le verifiche all’entrata di un ufficio pubblico o di un’impresa privata. Per la Pubblica amministrazione, il ministro della Funzione Pubblica Renato Brunetta ha annunciato che verranno emanate linee guida per come si faranno entrare i lavoratori all’interno degli uffici pubblici. Per il settore privato potrebbe essere necessaria l’estensione dell’applicazione “Verifica 19”, già in uso in locali di pubblico esercizio e sui treni.

Autonomi, partite Iva e professionisti: chi dovrà esibire il Green pass dal 15 ottobre?

Se le modalità di controllo potrebbero essere meglio definite per quanto riguarda chi deve svolgerli e come, quel che è certo è che tutti i soggetti che entreranno in un ufficio o in un ente pubblico dovranno esibire il Green pass. E dunque, a qualsiasi titolo, un autonomo o un libero professionista, per un’attività lavorativa o di formazione, perfino di volontariato, da svolgere presso un’amministrazione pubblica, all’entrata si troverà di fronte un responsabile che gli chiederà il Green pass. Tra le professioni più frequenti che dovranno esibire il documento verde rientrano, a titolo di esempio, gli ingegneri, gli architetti e i commercialisti.

Green pass, l’eccezione della Giustizia

Alle regole generali del Green pass fa parzialmente eccezione il settore della Giustizia. Oltre ai dipendenti (compresi i giudici) che sono tutti obbligati a entrare con il Green pass, l’eccezione riguarda gli avvocati, i periti, i consulenti e gli altri ausiliari dei giudici estranei alle pubblica amministrazioni della giustizia. Non sarà richiesto all’entrata il Green pass anche ai testimoni e alle parti dei processi.

Green pass, come entrano in azienda i professionisti e gli autonomi?

Ampia è la platea dei professionisti e degli autonomi che dovrà esibire il Green pass all’entrata delle aziende private. Una delle situazioni più frequenti che potrà presentarsi è quella di un professionista che sta preparando il bilancio per una società. Dovendo preparare il bilancio e recandosi spesso presso la sede societaria, il professionista dovrà munirsi di documento verde. Ma dovrà possederlo anche per un solo accesso in azienda. In generale, dovranno avere il Green pass tutte le persone che accedono all’interno di un luogo di lavoro per svolgere una prestazione lavorativa. Quindi, oltre ai dipendenti dell’azienda, tutti i professionisti, i collaboratori e ogni altra tipologia di lavoratore autonomo.

Chi svolgerà i controlli del Green pass nelle aziende?

Analogamente agli uffici pubblici, dunque, autonomi e partite Iva dovranno esibire il Green pass accedendo alle strutture lavorative e agli uffici privati. Pertanto, tutte le persone che entrano in un luogo di lavoro per svolgere una prestazione dovranno essere in regola con il documento verde. La verifica spetterà ai soggetti che organizzano, in qualità di datori di lavoro, l’attività lavorativa dell’azienda. Alle regole decise dall’azienda per l’accesso dall’esterno dovranno uniformarsi gli autonomo o i  professionisti che intendano svolgere la propria prestazione all’interno dell’azienda.

Associazione culturale: quali compensi ai collaboratori?

Nel mondo del no profit spesso si fa leva sul supporto di attivisti e di volontari che danno una mano al fine di permettere ad un’associazione di perseguire il proprio scopo sociale. Pur tuttavia, molte realtà associative hanno bisogno pure di persone che, anche se in modo non continuativo e non abituale, possano esercitare delle attività di lavoro autonomo senza alcun vincolo di subordinazione. Per esempio, considerando un’associazione culturale, quali compensi si devono riconoscere ai collaboratori? E, soprattutto, come inquadrarli ai sensi di legge?

Quali compensi riconoscere ai collaboratori di un’associazione culturale?

Al riguardo c’è da dire, prima di tutto, che in generale nulla vieta alle realtà associative di avere lavoratori dipendenti e collaboratori. Così come, per esempio, nulla vieta ai volontari ed agli attivisti di riconoscere loro dei rimborsi spese. A patto che siano debitamente documentate.

Detto questo, concentrando l’attenzione sui collaboratori, per un’associazione culturale non ci sono restrizioni sulla possibilità di attivare dei rapporti di lavoro. L’importante è che il tutto avvenga sempre nel pieno rispetto della legge.

Di conseguenza, pure per un’associazione culturale un collaboratore può per esempio fornire delle prestazioni lavorative di natura occasionale per un massimo di 30 giorni nell’anno solare. E nel rispetto del limite di un corrispettivo annuo non superiore ai 5.000 euro. Altrimenti a scattare sarà l’iscrizione all’INPS.

Che si tratti di rimborsi spese, di compensi ai collaboratori, o di stipendi ai dipendenti, quindi, pure un’associazione culturale è chiamata ad adeguarsi a quelle che sono le vigenti normative sui rapporti di lavoro.

Come pagare i compensi ai collaboratori nel mondo del no profit

Per pagare i compensi ai collaboratori nel mondo del no profit, per gli incarichi assegnati, in genere la soluzione migliore, anche per un’associazione di tipo culturale, è quella di passare dall’approvazione da parte del Consiglio Direttivo tramite apposito verbale.

Il collaboratore, inoltre, deve percepire sempre un compenso che sia in linea ed anche proporzionale all’attività svolta. Altrimenti si può prefigurare il sospetto di una distribuzione indiretta degli utili. Cosa che un’associazione culturale non può assolutamente fare in quanto deve sempre operare al di fuori di scopi e di fini di lucro.

Anche per questo, e non solo, un’associazione culturale che è strutturata anche con dipendenti e collaboratori dovrebbe sempre rapportarsi con un commercialista o con un consulente del lavoro, esperto nel terzo settore, ai fini di un corretto inquadramento a livello fiscale, contributivo ed anche giuridico. Anche perché in un’associazione culturale, e per tante realtà del no profit, il lavoro volontario, e quello retribuito in maniera forfettaria, dovrebbe essere sempre e comunque preponderante rispetto al lavoro che, invece, è stipendiato.

Quindi, quando un’associazione culturale eroga degli specifici compensi per attività che sono connesse e finalizzate a perseguire lo scopo sociale, questi devono essere sempre riportati nel rendiconto annuale. Indicando peraltro in maniera esplicita i parametri quantitativi che hanno portato all’erogazione di un determinato compenso. E questo anche al fine di evitare poi eventuali contestazioni sulla normativa che è collegata alle attività degli enti no profit ed in generale per le realtà associative del terzo settore.

Franchising: chi paga i dipendenti il franchisor o il franchisee?

Il contratto di franchising ha sicuramente molti aspetti che richiedono attenzione e tra questi vi sono le clausole inerenti il trattamento economico e pensionistico di eventuali dipendenti presenti in sede. La domanda che spesso si pongono coloro che vogliono fare un investimento in franchising è: chi paga i dipendenti?

Chi paga i dipendenti nel franchising

La risposta alla domanda su chi paga i dipendenti nel franchising è molto simile a quella che abbiamo visto per il canone di locazione, quindi il singolo contratto può prevedere disposizioni diverse, ma  in linea generale i dipendenti li paga il franchisee in qualità di imprenditore autonomo.

La legge italiana che regola questo contratto è la 129 del 2004 che, come detto, lascia ampia libertà alle parti e di conseguenza non regola nel dettaglio il contenuto che deve avere il contratto, descrive gli obblighi delle parti e stabilisce all’articolo 5 comma 2 “L’affiliato si impegna ad osservare e a far osservare ai propri collaboratori e dipendenti, anche dopo lo scioglimento del contratto, la massima riservatezza in ordine al contenuto dell’attività oggetto dell’affiliazione commerciale”. Invece l’articolo 3 comma 4  lettera f stabilisce che il contratto deve indicare “le caratteristiche dei servizi offerti dall’affiliante in termini di assistenza tecnica e commerciale, progettazione ed allestimento, formazione”. Quindi il contratto di franchising può anche prevedere la formazione obbligatoria per i dipendenti, ma questo non vuol dire che debba sostenerne i costi. In nessuna altra parte della normativa si tratta dei collaboratori, proprio per questo si può dedurre che c’è autonomia contrattuale.

L’autonomia del franchisee: quali spazi gli vengono riconosciuti

Molti potrebbero chiedersi il perché di questa domanda inerente chi paga i dipendenti nel franchising, in realtà non è così banale, infatti le politiche commerciali di chi stipula tali contratti sono elaborate dal franchisor che spesso detta delle linee guida molto meticolose e dettagliate inerenti molti punti dell’accordo al punto che alcuni imprenditori affiliati tendono a sentirsi quasi dei dipendenti anche loro. A fronte della scarsa autonomia dell’imprenditore affiliato, ci si potrebbe aspettare un impegno economico maggiore del franchisor, in realtà spesso è esattamente il contrario.

Ad esempio, possono essere imposte delle divise, dei criteri per la scelta dei dipendenti, può essere prevista la formazione obbligatoria per loro (in alcuni casi gratuita, in altri ricadente sul franchisee). Uno dei pilastri del franchising è conformarsi  alle istruzioni e alle procedure del franchisor perché deve essere data un’ immagine uniforme della catena, questo può anche voler dire che il franchisor può imporre determinati stipendi che in linea di massima potrebbero essere anche non in linea con quelli generalmente praticati per determinate mansioni in una determinata ubicazione.

Franchising: ecco un esempio di come vengono pagati i dipendenti

Nonostante questo, appare del tutto evidente che il contratto di franchising preveda che l’affiliato, o franchisee, si obblighi a corrispondere gli stipendi, gli oneri contributivi e previdenziali per il personale e i costi delle utenze. Pur cercando tra le più importanti catene di affiliazione dati inerenti il trattamento stipendiale dei dipendenti, in nessun caso è emerso che l’affiliante o franchisor, si occupi anche di questo aspetto.

Ad esempio McDonald’s prevede una piramide del personale molto definita, ma di fatto gli stipendi sono uniformi in tutta Italia, ma il versamento per coloro che lavorano in franchising resta a carico del franchisee. La posizione base è quella del Crew che per 24 ore settimanali prende circa 900 euro, i potenziali dipendenti sono prima selezionati attraverso i curriculum online e in seguito devono affrontare un colloquio.

McDonald’s ha una rete di distribuzione molto ampia, alcuni locali sono gestiti direttamente dalla società McDonald’s, altri sono affidati in franchising, nei primi gli stipendi sono erogati dalla catena, nei secondi dagli affiliati. I franchisee nella selezione devono rispettare i criteri della Multinazionale che in alcuni casi partecipa anche alla selezione, come accaduto con la rete gestita da Gianni Ieraci che dal 1996 ad oggi ha aperto 6 McDonald’s in provincia di Brescia (fonte: intervista rilasciata da Gianni Ieraci nel settembre 2016 al Corriere della Sera).

In ogni caso, prima di aprire un franchising, leggi bene il contratto che ti deve essere consegnato almeno 3 mesi prima e affidati alla consulenza di esperti scelti da te.

Se vuoi maggiori informazioni sul franchising leggi la guida presente QUI

Auto aziendale per collaboratori con partita IVA, tutto quello che c’è da sapere

Per molte aziende l’assegnazione e la concessione di vetture di servizio a dipendenti e collaboratori è una prassi comune e consolidata. Così come lo è in Italia anche ai fini dell’inquadramento ai fini fiscali. L’impresa, nel concedere l’auto aziendale ai dipendenti, agli amministratori ed ai collaboratori, anche con partita Iva, deve infatti sempre fare una scelta.

Ovverosia, fissare la modalità di assegnazione della vettura di servizio. Una scelta che è obbligatoria da fare a monte in quanto la tassazione, e le eventuali agevolazioni fiscali, dipenderanno proprio dalle modalità di assegnazione dell‘auto aziendale al collaboratore con la partita IVA.

Auto aziendale per i collaboratori con la partita IVA, come si assegna?

Nel dettaglio, l’auto aziendale assegnata dall’impresa al collaboratore con partita Iva può essere ad uso esclusivamente aziendale, ad uso sia aziendale che privato, oppure ad uso esclusivamente privato. La formula più utilizzata è in genere quella ad uso sia aziendale che privato.

Ed in tal caso si dirà che l’impresa ha assegnato l’auto aziendale, al collaboratore con la partita IVA, ad uso promiscuo. Una formula che, tra l’altro, copre ai sensi di legge pure il tragitto casa-lavoro e ritorno così come è riportato e spiegato in questo articolo.

Auto aziendale per i collaboratori con la partita IVA, quando è un compenso in natura?

Dal punto di vista prettamente fiscale, per l’Agenzia delle Entrate l’assegnazione di un’auto aziendale ai dipendenti, agli amministratori ed ai collaboratori, anche con la partita IVA, equivale in tutto e per tutto all’erogazione di un compenso in natura.

E, come sopra accennato, è soggetto a tassazione e, nello stesso tempo, pure ad agevolazioni fiscali in ragione della destinazione d’uso. Ovverosia, auto aziendale, auto personale oppure auto ad uso promiscuo. Inoltre, se l’auto concessa non è solo a scopo aziendale, allora per la tassazione si rientra nell’istituto del cosiddetto fringe benefit. Il calcolo dell’importo delle ritenute fiscali, legate al fringe benefit, spetterà al datore di lavoro che, al riguardo, agirà in qualità di sostituto di imposta.

Nel dettaglio, l’auto aziendale per collaboratori con la partita IVA è un compenso in natura quando è un bene ad uso personale o promiscuo. Mentre per l’auto ad uso esclusivamente aziendale non c’è imposizione a livello previdenziale e fiscale. In quanto in tal caso, ai sensi di legge, il mezzo di trasporto non potrà essere utilizzato al di fuori del lavoro.

Come si concede la vettura di servizio ad un collaboratore con la partita IVA?

Per l’assegnazione di una vettura di servizio ad un collaboratore con la partita IVA, come auto personale o come auto ad uso promiscuo, è necessaria una lettera. Ovverosia, la lettera di assegnazione del fringe benefit con tanto di data di decorrenza e di termine di assegnazione del mezzo di trasporto.

In più, nella lettera di assegnazione del fringe benefit occorre esplicitamente indicare, tra l’altro, la finalità d’uso dell’auto aziendale e gli estremi del veicolo, ai fini della sua identificazione. Inoltre, ed in genere, nella lettera di assegnazione sono elencate pure tutte le cause di revoca unilaterale del fringe benefit.

Chi ha partita Iva può prendere la disoccupazione?

Chi possiede la partita Iva può chiedere la disoccupazione? La domanda è di interesse dei  lavoratori autonomi, dei liberi professionisti e degli imprenditori e riguarda la possibilità che possano fare domanda dell’indennità Inps per la perdita dell’occupazione con una posizione di partita Iva già aperta ed operativa. Ma riguarda anche i casi di una partita Iva latente, che non produca redditi. Nella generalità delle situazioni, ed escludendo il nuovo ammortizzatore sociale Iscro introdotto dalla legge di Bilancio 2021 a favore proprio dei lavoratori a partita Iva, la disoccupazione spetta solo ai lavoratori dipendenti e ai collaboratori.

Casi in cui il lavoratore autonomo con partita Iva può chiedere la disoccupazione

Tuttavia, chi ha una partita Iva non è escluso in partenza dall’indennità di disoccupazione Naspi. Ad esempio, può presentare domanda di disoccupazione il lavoratore alle dipendenze che perda il proprio lavoro e che abbia anche la partita Iva. È necessario invece che i collaboratori che abbiano partita Iva prestino maggiore attenzione nel momento in cui, alla cessazione del contratto, richiedano la Dis-coll, ovvero la relativa indennità di disoccupazione. 

Autonomi e collaboratori, chi può chiedere la disoccupazione?

Dunque, per rispondere alla domanda se un lavoratore autonomo possa richiedere la disoccupazione Naspi, la risposta è negativa se l’unica attività del richiedente è quella per la quale ha aperto la posizione di partita Iva, ovvero si tratti dell’unica attività di lavoro da libero professionista, da autonomo oppure da imprenditore. Nel caso in cui, invece, oltre all’attività in proprio, il richiedente è anche dipendente allora è possibile fare domanda di indennità di disoccupazione. 

Indennità di disoccupazione Naspi: quali sono i requisiti per ottenerla?

L’indennità di disoccupazione Naspi spetta ai lavoratori con rapporto di lavoro subordinato che abbiano perduto, involontariamente, l’occupazione. Sono compresi gli apprendisti, i soci lavoratori delle cooperative con rapporto di lavoro subordinato con le stesse cooperative e il personale artistico con rapporto di lavoro subordinato. Sono ammessi alla disoccupazione anche i dipendenti delle Pubbliche amministrazioni con contratto a tempo determinato (esclusi, invece, se il contratto è a tempo indeterminato).

Rientrano tra gli esclusi alla prestazione Inps anche gli operai agricoli sia a tempo determinato che indeterminato, i lavoratori extracomunitari per i lavori stagionali, i lavoratori che abbiano maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia o anticipata, i lavoratori con assegno ordinario di invalidità. 

Redditi da lavoro autonomo: compatibilità con la Naspi

Chi rientra nei requisiti per ottenere la Naspi ed ha anche la partita Iva per attività in proprio può dunque fare richiesta di disoccupazione. La Naspi non è incompatibile nemmeno nel caso in cui si apra una partita Iva in un momento successivo a quello si fa domanda disoccupazione. In tal caso la Naspi non viene né sospesa e nemmeno decade, ma è necessario prestare attenzione sull’eventuale reddito che derivi dall’attività per la quale si è aperta la partita Iva. Infatti, la Naspi viene conseguentemente ridotta. 

Riduzione disoccupazione Naspi per chi svolge attività con partita Iva

Più nel dettaglio, la riduzione della Naspi opera nel caso in cui chi percepisce la disoccupazione svolge anche un’attività in forma autonoma dalla quale si generi un reddito annuo corrispondente a un’imposta lorda pari o inferiore alle detrazioni spettanti. Tali detrazioni sono calcolate ai sensi di quanto quanto prevede l’articolo 13 del Testo Unico delle Imposte sui redditi (TUIR), ovvero determinate in 4.800 euro.

In tal caso, l’indennità Naspi spettante si riduce dell’80% dei redditi previsti, in rapporto al periodo che intercorre tra la data di inizio dell’attività e la data in cui è determinata la fine del godimento della Naspi stessa o, se antecedente, entro la fine dell’anno. Se l’attività autonoma produce un reddito superiore al limite fissato dal TUIR, ovvero oltre ai 4.800 euro lordi annui, il richiedente decade dalla Naspi in quanto l’Irpef lorda risulta inferiore alle detrazioni per i redditi da lavoro autonomo. 

Partita Iva aperta prima della domanda di disoccupazione

La prestazione Naspi, ancorché ridotta, si conserva solo se il soggetto beneficiario comunica all’Inps il reddito presunto annuo derivante da attività autonoma con partita Iva. Nel caso in cui è presente l’iscrizione alla Gestione separata Inps, oppure l’attività autonoma è preesistente alla data di cessazione del rapporto di lavoro che ha generato la disoccupazione, è necessario che il richiedente lo indichi nella domanda di Naspi. L’interessato deve necessariamente indicare nella domanda anche il reddito annuo che prevede di conseguire dallo svolgimento dell’attività autonoma, anche se pari a zero. 

Disoccupazione e modello Naspi Com in caso di reddito da attività autonoma

Il lavoratore autonomo che presenti domanda di disoccupazione Naspi, ricorrendone le condizioni, potrà comunicare all’Inps il reddito annuo previsto anche successivamente all’istanza. In particolare, entro un mese dall’invio della domanda Naspi, potrà comunicare il reddito autonomo presunto attraverso il modello Naspi Com. Il caso è molto simile anche per l’apertura della partita Iva in un momento successivo alla presentazione della domanda di Naspi.

In tal caso, è previsto che entro un mese dall’inizio dell’attività il richiedente ne dia comunicazione tramite modello Naspi Com con l’indicazione del reddito presunto. La mancata comunicazione nei termini indicati dell’inizio o di svolgimento di un’attività lavorativa autonoma, nonché del reddito presunto anche se pari a zero, comporta la decadenza della Naspi. Gli iscritti alla Gestione separata Inps che svolgono attività autonoma devono indicare, annualmente, il reddito presunto. 

Collaboratori con partita Iva e domanda di Dis-coll

Diverso è il caso di partita Iva e Dis-coll. Per percepire l’indennità riservata ai collaboratori non è consentito avere una partita Iva, anche se la posizione non dovesse produrre redditi. Pertanto, un collaboratore coordinato e continuativo, anche a progetto, che abbia perso involontariamente un’occupazione e che sia iscritto in via esclusiva alla Gestione separata Inps, può chiedere l’indennità di disoccupazione purché preliminarmente proceda con la chiusura della partita Iva.

La stessa posizione, tuttavia, può essere aperta dopo la presentazione della domanda: il collaboratore che percepisca la Dis-coll e che intraprenda un’attività lavorativa di impresa individuale, parasubordinata o autonoma dalla quale si generi un reddito annuo corrispondente a un’imposta lorda pari o inferiore alle detrazioni spettanti (4.800 euro) dovrà darne comunicazione all’Inps entro 30 giorni dall’inizio dell’attività.

Riduzione disoccupazione Dis-coll per attività autonoma con partita Iva

In tal caso, l’importo della Dis-coll viene ridotto dell’80% del reddito previsto, rapportato al periodo intercorrente tra la data di inizio attività e quella in cui finisca il periodo di pagamento dell’indennità di disoccupazione o, se antecedente, dalla data di fine anno. Se l’attività era preesistente alla presentazione della domanda di disoccupazione, il richiedente dovrà comunicare all’Inps, già all’atto della presentazione dell’istanza di Dis-coll, il reddito annuo che presume di produrre dall’attività stessa.