Professionisti, una spallata alla crisi

Secondo un’indagine della Camera di commercio di Milano, condotta dal Consorzio Aaster su oltre mille professionisti milanesi nel 2011, il 43% dei professionisti ha reagito alla crisi non chiudendosi ma cercando nuovi clienti e mercati. Ma per un professionista su tre peggiora il tenore di vita suo e della famiglia. Che significa declassamento economico, in quanto il 70,6% è insoddisfatto della propria retribuzione in rapporto alla qualità del lavoro svolto, mentre il 75% crede che nella società di oggi la professione non abbia più il prestigio di cui godeva una volta.

Per muoversi dopo la crisi, le possibili soluzioni vengono offerte dal nuovo protagonismo dei social network usati per lo scambio professionale e dall’internazionalizzazione: un professionista su quattro si è internazionalizzato (24%) mentre il 37% serve la città e meno del 20% si spinge in Lombardia.

Il nuovo e complesso mondo delle professioni – ha dichiarato Carlo Sangalli, presidente della Camera di commercio di Milano –  chiede di essere messo nelle condizioni migliori per poter esprimere tutte le sue potenzialità e guardare al domani con fiducia. Si tratta di un mondo parcellizzato, talvolta senza volto e sottovalutato sul quale è necessario invece aprire gli occhi perché la ripresa della nostra economia passa anche attraverso questo passaggio nodale. Milano può raccogliere la sfida per rilanciare se stessa anche come capitale delle professioni pensando al futuro ma agendo da subito“.

Confcommercio: Sud e turismo per la ripresa dell’Italia

È stato presentato nei giorni scorsi a Roma il Rapporto sulle “Economie Territoriali e il Terziario di Mercato 2011,” redatto dall’ufficio Studi di Confcommercio su dati Eurostat e Istat. I risultati del rapporto sono in linea con quanto da più parti lamentato riguardo allo stato attuale dell’Italia. In particolare, secondo quanto ha affermato il direttore dell’ufficio Studi di Confcommercio, Mariano Bella, “si ripresenta il tema della scarsa crescita che attanaglia l’Italia da dieci anni“.

Come avviare, dunque, la ripresa? Secondo l’ufficio Studi, è necessario potenziare e migliorare i servizi e valorizzare il Sud. Secondo Bella, il turismo è “il perno sul quale fondare una politica economica di rilancio. Il turismo è fatto di una pluralità di servizi – trasporti, logistica e infrastrutture – e l’intreccio turismo-mezzogiorno può essere una carta da giocare. Dobbiamo quindi riuscire a mettere a reddito il capitale turismo. Il Mezzogiorno ne beneficerebbe molto e ricordiamoci che senza il Mezzogiorno il Paese nel suo insieme non può crescere“.

In generale, l’ufficio Studi di Confcommercio ha rivisto al ribasso le stime sui consumi degli italiani per il 2011 e per il 2012. Secondo il rapporto, la spesa delle famiglie residenti, quest’anno, si attesterà a +0,7% dal +0,9% previsto a marzo. In calo anche la previsione per il 2012, con i consumi che cresceranno dell’1,2% rispetto all’1,5 previsto a marzo.

Imprenditori per necessità: servono davvero?

di Davide PASSONI

Che ogni crisi porti in sé anche delle opportunità non è solo un modo di dire. Se ne ha dimostrazione anche durante questi anni di magra, quando, a fronte di tanti pessimisti che si limitano a piangersi addosso e sperano in una rapida fine della recessione senza cercare idee per fronteggiarla, ci sono, per fortuna, persone sveglie e volenterose che si rimboccano le maniche e stabiliscono che, crisi o non crisi, il business deve crescere. O, almeno, deve provare a farlo.

Lo dimostra una recente indagine del Centro studi di Unioncamere, condotta su un campione di 5.200 imprese attive nate nel 2010 per le quali è possibile identificare il settore di appartenenza: un campione rappresentativo delle oltre 213mila “vere” nuove imprese iscritte nel corso dell’anno. Dalla ricerca emerge infatti che tra coloro che nel 2010 hanno deciso di fondare, da titolari o da soci di maggioranza, una nuova azienda, rischiando in prima persona e investendo proprie risorse economiche, più di un terzo (34%) lo ha fatto perché impossibilitato a trovare un impiego stabile o per lasciarsi alle spalle l’incertezza del precedente contesto occupazionale. Circa 1800 persone prematuramente estromesse dal mercato del lavoro, o che lo stesso mercato non ha voluto saperne di assorbire, hanno deciso di fare da sé, di mettere sul piatto la propria esperienza, professionalità o buona volontà e fare impresa.

C’è poi un 52% di persone che ha aperto un’attività facendo tesoro dell’esperienza acquisita, perché consapevole delle proprie capacità o convinto di avere una idea di business innovativa, perché insoddisfatto dell’attività svolta in precedenza o desideroso di affermarsi professionalmente e personalmente.

Una notizia buona, ma che dà lo spunto per fare alcune riflessioni su quello che, nel nostro Paese, è ancora oggi il concetto di cultura imprenditoriale. Se, infatti, quel 52% ha tutto sommato fondato la propria scelta sulla consapevolezza di ciò che significa fare impresa, vuoi per la propria storia professionale, vuoi per “fame” di affermazione, non possiamo essere certi del fatto che chi si è messo in proprio perché non aveva alternative lo abbia fatto con altrettanta consapevolezza o know-how da spendere. Una decisione che, se presa alla leggera come unica alternativa alla disoccupazione, potrebbe avere una duplice, pesante ricaduta; da una parte sul neoimprenditore il quale, incapace magari di differenziarsi sul mercato, senza una visione a lungo termine e orientato a un approccio del tipo “intanto incasso quattro soldi, mi sistemo e poi vediamo come sviluppare il business”, si ritroverebbe a breve con un lavoro sì, ma che non gli porta nulla, anzi, con l’aggravante di aver investito capitali propri senza un ritorno; dall’altro sul sistema delle imprese, per il quale ogni fallimento, piccolo o grande che sia, rappresenta un costo e quindi un ulteriore ostacolo sul cammino di una ripresa difficile.

Certo, idee di business vincenti e solide ci saranno sicuramente, così come ci saranno imprenditori svegli e capaci: non tutti i rappresentanti di quel 34% sono destinati a implodere, ci mancherebbe… Ma non possiamo escludere che una parte di loro lo farà. È il ciclo di vita delle imprese, si dirà; il mercato è giudice e carnefice, si dirà; e ancora si dirà che una percentuale di fallimenti è fisiologica, nulla di strano. Viene però da chiedersi se, con la prospettiva di dinamiche simili, il nostro sistema produttivo, fondato per il 95% su realtà medio piccole, abbia bisogno di imprenditori poco consapevoli in un momento in cui il mercato, dove ancora c’è, è già selettivo di suo ed è ancora più carogna con chi vi entra a cuor leggero.

La crisi morde, la crisi passerà. Attenzione però ad affrontarla con gli strumenti giusti, altrimenti le opportunità che porta con sé, anziché diventare occasioni per rialzare la testa, saranno ulteriori armi di cui disporrà per sparare ad alzo zero su un tessuto economico e produttivo già boccheggiante.

Presidente di Rete Imprese: La crisi è passata ma il punto dolente sono le tasse

Giorgio Guerrini, presidente di Rete Imprese Italia e di Confartigianato ad un’intervista a “Il Giornale” ha espresso ottimismo a riguardo della situazione economica con delle riserve però per quanto riguarda la tassazione: “La parte peggiore della crisi è alle spalle: chi non ce l’ha fatta ha già chiuso, gli altri hanno resistito e ora possono guardare le prospettive con più ottimismo. Però il Paese non cresce ci sono ostacoli da abbattere“. Come già affermato più volte l’Italia dovrebbe puntare sull’export, sull’apertura verso nuovi Paesi, gli stessi che grazie a politiche fiscali agevolate finiscono per competere con noi, spesso vincendo la sfida: “Dobbiamo superare gli handicap rispetto ai Paesi vicini: è una competizione ad armi impari, sia sul fisco che sui costi dei servizi pubblici” – ha ribadito Guerrini.

La ultima opportunità è rappresentata da una corretta applicazione del federalismo fiscale con il quale diminuire la pressione fiscale ponendo un freno al circolo vizioso del “spendi e tassa” e introducendo elementi di responsabilizzazione, sempre stando alle parole di Guerrini. Se questa misura non rispetterà i presupposti l’intera categoria degli artigiani è pronta a cambiare opinione.

Intanto è stata accolta con entusiasmo la proroga della moratoria dei debiti per le Pmi (scadrà tra altri 6 mesi). Il nuovo accordo pur essendo lontano da quello precedente “consente tuttavia un allungamento del credito residuo, oltre che strumenti facoltativi per tutelarsi da possibili aumenti dei tassi d’interesse. La crisi ha cambiato la strategia delle banche che sono tornate sul territorio e al rapporto diretto con la clientela“. La maggior vicinanza e un cambio di approccio al credito dunque han saputo sollevare molte imprese che in caso contrario sarebbero finite sul lastrico.

Mirko Zago

Da Confindustria serve chiarezza per aiutare il Paese a uscire dalle secche

di Gianni GAMBAROTTA

“L’Italia è alla paralisi”, titolava in prima pagina ilSole24Ore di domenica scorsa, presentando l’intervento del presidente della Confindustria sul palco dei Giovani Industriali riuniti nel convegno di Capri. “C’è uno smarrimento forte nel Paese – ha detto Emma Marcegaglia, è necessario trovare il senso delle istituzioni e della dignità. Il parlamento non funziona più, manca ancora il presidente della Consob. Siamo alla paralisi“. E qual è la soluzione per uscire da “questa ondata di fango che investe le istituzioni“? Non le elezioni anticipate, perché “sarebbero sei mesi di campagna elettorale drammatica“. E allora? Qual è la strada virtuosa da imboccare per uscire da questo pantano, secondo il leader degli imprenditori nazionali? La Marcegaglia non lo dice perché non spetta alla Confindustriadire alla politica che cosa deve fare“, anche se – aggiunge – gli imprenditori non vedono di buon occhio “alchimie partitiche che discutano per mesi di legge elettorale“.

L’Italia ha un grave problema di leadership, la sua classe dirigente si sta dimostrando assolutamente inadeguata a fronteggiare i problemi di crescita che il Paese deve affrontare, come stanno facendo in partner europei; non sembra esserci nessuno, a destra come a sinistra, in grado di immaginare un futuro e farlo diventare un obiettivo condiviso da una parte determinante degli italiani. Il Paese è senza una guida e – fatto ancora più grave – questa situazione è chiaramente percepita.

In passato, a una simile carenza (perché non è la prima volta che si manifesta) il mondo produttivo sapeva offrire un’alternativa, una supplenza; riusciva a colmare un vuoto che veniva dalle stanze ufficiali del potere. Forse ciò non sempre è stato un bene, spesso ha anzi rappresentato un precedente che alla lunga si è rivelato scomodo. Però, nei momenti di impasse, arrivavano delle indicazioni di tendenza e di priorità che erano utili, nelle quali molti si riconoscevano.

Questo è proprio uno di quei frangenti in cui il Paese del fare dovrebbe lanciare quei segnali. Invece da viale dell’Astronomia, quartier generale degli industriali italiani, arrivano messaggi incerti, contraddittori. Emma Marcegaglia alterna momenti di affiancamento al governo (sono di pochi giorni fa le sue parole di apprezzamento per il ministro Giulio Tremonti e, in generale, per tutta la politica economica) ad attacchi aperti e severi come, appunto, quello di Capri. Sarebbe meglio una maggiore chiarezza, una scelta precisa: al Paese sarebbe utile sapere da che parte sta Confindustria che è – o almeno pretende di essere – una parte di spicco della sua classe dirigente.

Imprese, fine della crisi? Tra gennaio e marzo sono in ripresa le aperture.

La crisi allenta il morso sull’economia reale e la vitalità delle imprese italiane recupera i livelli del 2007, preannunciando il possibile ritorno alla stabilità nel corso del 2010. Sono state 123mila le imprese iscritte ai registri delle Camere di Commercio tra gennaio e marzo di quest’anno, 4.700 in più rispetto allo stesso trimestre del 2009. Un dato che segna un’inversione di tendenza apprezzabile rispetto agli ultimi due anni, segnati dall’esplosione della crisi internazionale: nei primi tre mesi del 2008, infatti, si registrarono circa 11.800 aperture in meno rispetto al 2007 e l’anno scorso la diminuzione rispetto al 2008 fu di ulteriori 12.200.

A questo recupero nella dinamicità delle iscrizioni ha fatto eco un sensibile rallentamento delle chiusure che, sempre tra gennaio e marzo, sono state di poco superiori a 139mila unità, oltre 10mila in meno rispetto al corrispondente periodo del 2009. Conseguentemente, il saldo tra aperture e chiusure di imprese nei primi tre mesi dell’anno si è attestato a –16.181 unità, risultato che si avvicina molto a quello registrato nel 2007 e che, soprattutto, dimezza quello del 2009 quando il “buco” all’anagrafe delle imprese, nei primi tre mesi dell’anno, era stato di oltre 30mila imprese. Ripresa delle aperture e rallentamento delle chiusure hanno determinato l’attestarsi del tasso di crescita trimestrale dello stock delle imprese al valore di –0,27% (contro il –0,5% fatto registrare nel primo trimestre dello scorso anno), portando il numero delle imprese presenti nei registri camerali a fine marzo al valore di 6.058.558 unità.

È questo il quadro di sintesi che emerge dai dati sulla nati-mortalità delle imprese italiane nel primo trimestre dell’anno fotografati attraverso Movimprese, la rilevazione trimestrale condotta per Unioncamere da InfoCamere – la società consortile di informatica delle Camere di Commercio italiane.

fonte: Uff. Stampa Unioncamere