Aprire partita Iva, c’è ancora chi ci crede

Abbiamo visto nei giorni scorsi come, secondo la Cgia, il popolo delle partite Iva sia ormai il popolo dei nuovi poveri. Eppure c’è ancora chi ci crede e, in questo scorcio di 2014 si sta chiedendo se aprire partita Iva o no. Sempre che se ne voglia assumere i rischi, aprire partita Iva è una decisione da prendere entro il 31 dicembre.

Il Ddl di Stabilità cambierà un po’ di regole anche per i lavoratori autonomi che possono accedere alla posizione con il regime dei minimi. Aprire partita Iva dopo il 1 gennaio 2015 comporterebbe pagare un’imposta sostitutiva del 15% e non del 5% come ora. Inoltre, il monte dei ricavi non sarà più fissato a 30.000 euro, ma varieranno in base al tipo di attività svolta e la cifra sarà calcolata con un coefficiente di redditività variabile. Non sarà più uguale per tutti

Chi è scoraggiato dall’aprire partita Iva in regime dei minimi a fine anno perché dovrebbe sostenere fiscalmente i costi dell’operazione per poche settimane e pagare le imposte relative già nel 2015, può stare tranquillo se non percepisce alcun compenso, il timore è infondato. Deve anche tenere conto che, aprire partita Iva entrando adesso nel regime dei minimi, significa avere applicate le vecchie regole fino al termine del quinquennio concesso o fino al compimento del 35esimo anno di età se under 35.

Anche a fine 2014, il profilo del lavoratore che sceglie di aprire partita Iva in regime agevolato è quello di un autonomo che non ha un grande giro d’affari o investimenti cospicui da fare. Diverso il discorso per chi vuole aprire una start-up: il Ddl di Stabilità prevede per le start-up che il reddito imponibile considerato sia pari a un terzo del totale. Una spintarella per il neo imprenditore che vuole aprire partita Iva.

Nuove partite Iva o nuova povertà?

All’inizio della crisi, l’apertura di nuove partite Iva sembrava la via più facile per reinventarsi se espulsi dal mercato del lavoro. Purtroppo, la tendenza si è fermata ben presto e i numeri relativi alle aperture di nuove partite Iva hanno cominciato, mese dopo mese, un inesorabile calo.

Anche a settembre 2014 la tendenza si è confermata, dopo il calo già sensibile di agosto anno su anno (-4%): la flessione a settembre nel numero di nuove partite Iva è stata dello 0,2%, per un totale di 41.190 nuove partite Iva.

La distribuzione per natura giuridica mostra che le persone fisiche hanno avviato il 74,2% delle nuove partite Iva, il 20% lo hanno fatto società di capitali, il 5% società di persone, in fondo alla classifica i “non residenti” e “altre forme giuridiche” (1%).

Rispetto al mese di settembre 2013, si registra un aumento di nuove partite Iva per le sole società di capitali (+16%), mentre le altre forme giuridiche mostrano un calo, più marcato per le persone fisiche (-3,3%) e più contenuto per le società di persone (-0,9%).

Riguardo alla ripartizione territoriale, il 42,2% delle nuove partite Iva si è registrato al Nord, il 22,7% al Centro e il 35% al Sud e Isole. Crescono la Basilicata (+9,9%), l’Abruzzo (+6,4%) e la Liguria (+4,9%), calano la provincia di Trento (-11,4%), la Sicilia (-6,9%) e la Valle d’Aosta (-6,4%).

Il commercio continua a registrare il maggior numero di nuove partite Iva (26,1%), seguito dalle attività professionali (12,3%) e dall’edilizia (9,4%). Relativamente alle persone fisiche, la ripartizione è relativamente stabile, con il 63,7% di aperture di nuove partite Iva da parte del genere maschile. Il 48,6% viene avviato da giovani fino a 35 anni e il 34,4% da persone comprese nella fascia dai 36 ai 50 anni. Rispetto settembre 2013, tutte le classi di età registrano cali, ad eccezione di quella più anziana (over 65).

Da notare infine che a settembre 11.142 persone fisiche, pari al 27,1% del totale delle nuove partite Iva, hanno aderito al regime fiscale di vantaggio per l’imprenditoria giovanile e lavoratori in mobilità; un regime che limita per cinque anni l’imposta dovuta al 5% degli utili dichiarati, esonerando i contribuenti interessati dal pagamento di Iva ed Irap.

Nonostante questo, però, la sensazione che dietro al calo di nuove partite Iva ci sia il timore sempre più forte di andare incontro a un futuro di povertà è forte. In questo senso, la ricerca della Cgia di cui abbiamo parlato lunedì ha confermato il segnale.

Lavoratori a partita Iva, guerra tra poveri

Abbiamo visto ieri come, secondo la Cgia di Mestre, i lavoratori a partita Iva sono di fatto i nuovi poveri. Tra questa guerra di straccioni, però, c’è sempre chi è più povero degli altri: nello specifico, si tratta delle lavoratrici a partita Iva. In un recente convegno svoltosi a Roma, l’Associazione 20 Maggio ha fatto il punto su questa sconcertante realtà analizzando alcuni dati dell’Inps secondo i quali la media dei compensi di tutti i lavoratori a partita Iva 2013 è di 19mila euro lordi annui. Una miseria, ma se si considera che a parità di attività svolta, le donne guadagnano 11mila euro in meno rispetto agli uomini, il dato appare ancora più scandaloso. Gli uomini percepiscono in media redditi di 23.874 euro, mentre le donne di 12.185.

A proposito di cifre, l’Associazione fa notare che con un compenso lordo medio di 18.640 euro, il reddito netto annuo dei lavoratori a partita Iva iscritti alla Gestione separata si riduce a 8.679 euro, pari a 723 euro mensili. Osservando poi la distribuzione per fasce di età, si nota che su 1 milione e 259mila lavoratori, 607.198 hanno tra i 30 e i 49 anni (il 48% del totale) e il 33% ne ha più di 50 anni.

È quindi evidente che il lavoro parasubordinato riguarda soprattutto lavoratori e lavoratrici adulte e con famiglia, queste ultime in maggioranza nella fascia under 39; dopo questa età, a causa delle minori protezioni sociali e contrattuali di cui godono i collaboratori, tendono a lasciare il lavoro in concomitanza con la nascita dei figli. Inoltre, le più colpite dalla disparità di trattamento economico sono le fasce d’età dai 40 a i 49 anni, ossia le lavoratrici all’apice della carriera.

Per non parlare dei giovani lavoratori a partita Iva: tra il 2007 e il 2013 sono diminuiti di 230mila unità, con un calo del 59% tra gli under 25 e del 43% nella fascia 25-29 anni. Attenzione alla soglia di povertà…

Lavoratori autonomi, i nuovi poveri

Quando ci sono di mezzo studi e ricerche della Cgia sui lavoratori autonomi, spesso i temi vengono affrontati in maniera volutamente provocatoria e “sopra le righe”, ma in questo caso la tematica è brutalmente cruda nel suo essere semplice ed evidente: secondo l’Ufficio Studi dell’associazione, tra i lavoratori autonomi 1 su 4 è a rischio povertà.

Il dato emerge da una ricerca secondo la quale nel 2013 il 24,9% delle famiglie in cui i lavoratori autonomi portano a casa il reddito principale ha vissuto con un reddito disponibile inferiore a 9.456 euro annui, che è la soglia di povertà calcolata dall’Istat.

Per le famiglie con reddito da pensioni, il 20,9% ha percepito entro la fine dell’anno un reddito inferiore della soglia di povertà, mentre per quelle dei lavoratori dipendenti il tasso si è fermato al 14,4%, ossia quasi la metà rispetto al dato riferito alle famiglie dei lavoratori autonomi.

Secondo la Cgia, dal 2008 al primo semestre di quest’anno i lavoratori autonomi che hanno chiuso l’attività sono stati 348.400, pari a una contrazione del 6,3%. Il numero dei lavoratori dipendenti, invece, si è ridotto di 662.600 unità, in termini percentuali un -3,8%. Sempre paragonando lavoratori autonomi e dipendenti, la Cgia fa notare che il reddito delle famiglie dei primi ha subito in questi ultimi anni un taglio di oltre 2.800 euro (-6,9%), mentre quello dei dipendenti è rimasto pressoché identico.

I lavoratori autonomi hanno sofferto specialmente al Sud. Tra il 2008 e il primo semestre di quest’anno la riduzione delle partite Iva nel Mezzogiorno è stata del 9,9% (pari a -160.000 unità), nel Nord Ovest del 7,8% (-122.800 unità), nel Nord Est del 4,3% e nel Centro dell’1,3 per cento.

Allarmato il commento del segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi: “A differenza dei lavoratori dipendenti quando un autonomo chiude definitivamente bottega non dispone di alcuna misura di sostegno al reddito. Ad esclusione dei collaboratori a progetto che possono contare su un indennizzo una tantum, le partite Iva non usufruiscono dell’indennità di disoccupazione e di alcuna forma di cassaintegrazione in deroga e/o ordinaria/straordinaria. Una volta chiusa l‘attività ci si rimette in gioco e si va alla ricerca di un nuovo lavoro. Purtroppo non è facile trovarne un altro: spesso l’età non più giovanissima e le difficoltà del momento costituiscono una barriera invalicabile al reinserimento, spingendo queste persone verso forme di lavoro completamente in nero”.

È quindi evidente che, a quasi sette anni dallo scoppio della crisi, il cosiddetto ceto medio è sempre più in difficoltà: oggi, quello composto dai lavoratori autonomi è il corpo sociale che più degli altri è scivolato verso il baratro della povertà e dell’esclusione sociale.

Fallimenti aziendali, è ancora allarme rosso

Per quanto il premier Matteo Renzi ostenti ottimismo sulle possibilità di ripresa dell’Italia, le piccole e medie imprese sono ancora in grande sofferenza, come dimostra il dato sui fallimenti aziendali. Nel secondo trimestre 2014, i fallimenti aziendali sono stati 4.241, in aumento del 14,3% rispetto allo stesso periodo del 2013. È quanto emerge dai dati del Cerved, società quotata specializzata nell’analisi del rischio di credito, analizzati dall’Ansa.

Nell’intero primo semestre 2014 i fallimenti aziendali hanno raggiunto quota 8.120 (+10,5%); si tratta del record assoluto dall’inizio della serie storica, risalente al 2001. L’analisi condotta dal Cerved mostra come i fallimenti aziendali riguardano tutta Italia: i tassi di crescita sono dappertutto in doppia cifra ad eccezione del Nord Est, dove l’incremento è del 5,5%.

In aumento del 14% rispetto al primo semestre 2013 sono invece i fallimenti aziendali al Sud e nelle Isole; il Nord Ovest fa registrare un +10,7%, il Centro un +10,4%. A causa dei recenti correttivi legislativi sono letteralmente collassate le domande di concordato in bianco (-52%) e diminuiti i concordati comprensivi di piano (-12,3%). Giù anche le liquidazioni che, con un -10,3% tra gennaio e giugno, segnano un’inversione di tendenza a livello semestrale dopo un lungo periodo di incremento.

Queste analisi sui fallimenti aziendali hanno suscitato diversi commenti. Secondo Gianandrea De Bernardis, amministratore delegato di Cerved, “stiamo vivendo una fase molto delicata per il sistema delle Pmi italiane: la nuova recessione sta spingendo fuori dal mercato anche imprese che avevano superato con successo la prima fase della crisi e che stanno pagando il conto sia al credit crunch sia a una domanda da troppo tempo stagnante“.

Sui fallimenti aziendali è ancora più dura ancora Confcommercio: “Il dato sui fallimenti aziendali conferma che la crisi continua a dispiegare i suoi effetti, costringendo molte imprese, che finora hanno resistito, a chiudere“. Secondo l’associazione delle imprese, “per il perdurare della stagnazione dei consumi, per una pressione fiscale che non accenna a diminuire, per l’impossibilità di far fronte ai fabbisogni finanziari, come della scarsa offerta del credito, e per il calo di fiducia, le imprese fronteggiano un quadro economico di crisi strutturale“.

Quale la soluzione per Confcommercio? “Le riforme economiche devono, pertanto, essere al centro dell’agenda di Governo perché se non si attua quella poderosa operazione di sottrazione, meno tasse e meno spesa pubblica, il Paese è destinato a rimare ancora fermo al palo“. Aspetta e spera…

Savings and Loans, una crisi dimenticata

Il congresso concesse alle S&L insolventi di non fallire, nel senso che tecnicamente fallirono ma i debiti non vennero ripianati dalle società, come invece accadeva per le banche Americane nelle stesse condizioni. La situazione venne risolta prelevando dalle casse dello stato 124 miliardi di dollari, provenienti dalle tasse degli americani. Solo la rimante parte di circa 29 miliardi di dollari venne effettivamente pagata dalle società fallite. Il totale della crisi fu quindi un buco di 153 miliardi di dollari.
Sono cifre di tutto rispetto, ma che fanno quasi sorridere se confrontate con l’enorme voragine della crisi dei mutui “subprime”. Vanno valutate per quello cui hanno condotto, cioè la terza grande crisi finanziaria in ordine di grandezza e che ha sostenuto la crisi dei mutui subprime che conosciamo.
La stessa FSLIC dichiarò fallimento, pesando per altri 20 miliardi di dollari sui contribuenti.
Tirando le somme, dal 1986 al 1989 la FSLIC chiuse 296 S&L association, la RTC (la compagnia assicurativa creata in seguito al fallimento della FSLIC) dal 1989 al 1995 chiuse 747 istituzioni , in totale furono chiuse 1043 Savings and Loans Assocation. Dal 1986 al 1995 le società di questo genere si ridussero da 3234 a 1645, cioè si dimezzarono circa.
La crisi si risolse abolendo la FSLIC e introducendo un ufficio del ministero del tesoro che ha l’incarico di sorvegliare gli istituti di credito, creando la Saving Association of Insurance and Fund che ha il compito di assicurare i conti bancari presso le S&L fino a 100.000 dollari, attribuendo a Freddie Mac e Fannie Mae (già, proprio loro!) compiti di sostegno alle famiglie con mutui.
Queste ed altre misure hanno riportato fiducia nei mercati, e soprattutto nella possibilità di contrarre i mutui per la casa, che ha fatto da base per il rilancio del settore immobiliare (fino a poco tempo fa, almeno!).
Le Savings and Loans Associations sono piccole banche, con compiti di sostegno alle famiglie. La maggior parte di esse si è trovata a far fronte a situazioni che non sapevano e non potevano gestire, ed hanno iniziato a cercare rendimenti facili che permettessero loro di sopravvivere.
Le misure adottate dal governo Usa non sono state la cura adatta, hanno dato solo una illusione di risoluzione ed invece hanno fatto avvitare sempre più le S&L su loro stesse, amplificando il debito. Probabilmente se fossero state fermate sul principio, il dissesto sarebbe stato di almeno 10 volte inferiore.
 Questa crisi è stata meno pesante di quanto avrebbe potuto ed inoltre non ha quasi intaccato le borse.
Questo non toglie che  la soluzione blanda e complice adottata dal governo americano e il fatto che sia ampiamente intervenuto per ripianare il debito, ha innescato un meccanismo di protezione delle savings and loans che ha portato alla crisi del 2009.
Ovvero si è fatto credere alle banche che possono permettersi di non fallire, facendo pesare i loro errori sui contribuenti.
Il coinvolgimento dei due colossi Freddie Mac e Fannie Mae nella risoluzione della crisi delle S&L non è un caso e non è un caso se proprio questi due pilastri dell’industria dei mutui americana si sono trovati in gravissime difficoltà più recentemente nel 2008, richiedendo l’intervento del governo americano a loro sostegno.
E per fortuna che negli states si parla di liberismo!
Se fossero propensi  all’intervento statale cosa pensate accadrebbe?

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Dott. Marco Degiorgis – Life Planner / Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis

Imprese: ancora in aumento i fallimenti

L’argomento crisi è sempre tristemente attuale, tanto da riflettersi ancora pesantemente sulle imprese, ancora costrette a chiudere le serrande in massa.

I dati, a questo proposito, parlano chiaro: nei primi tre mesi del 2014 ci sono stati più di 3.600 fallimenti, ovvero 40 al giorno, 2 all’ora, per un aumento del 13% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
In salita anche le procedure di concordato, ora 577, pari a +34,7%.

L’ aumento riguarda sia le società di capitali (+22,6%), sia le società di persone (+23,5%) e le imprese individuali (+25%).
Le regioni che soffrono di più sono Abruzzo, Liguria, Puglia, Umbria e Marche.

In controtendenza sono, invece, le aperture di procedimenti fallimentari per le imprese costituite come consorzi o cooperative, che hanno mostrato un calo di circa il 2%.
Una procedura fallimentare su 4, aperta tra l’inizio di gennaio e la fine di marzo, ha riguardato aziende che operano nel commercio (+ 24% rispetto allo stesso periodo del 2013). In crescita anche i fallimenti nell’industria manifatturiera, un comparto in cui il fenomeno era in calo nel 2013: nel primo trimestre del 2014 si contano 763 fallimenti di imprese industriali, il 22,5% in più dell’anno precedente.
Allo stesso modo, anche l’edilizia ha fatto registrare un incremento rispetto al dato 2013: +20,1% corrispondenti a 771 nuove procedure avviate.

Considerando la situazione dal punto di vista geografico, l’aumento riguarda, più o meno, tutte le aree del Paese: in misura maggiore, rispetto alla media nazionale, nel Nord Ovest (+22,8%), nel Centro (+23,0%) e nel Mezzogiorno (+27,8%); sotto la media nel solo Nord-Est (+12,5).

La Lombardia è la regione con il maggior numero di procedure fallimentari aperte (808), seguita a distanza da Lazio (364) e Toscana (293).
Le uniche regioni in cui i fallimenti appaiono in diminuzione sono la Basilicata (-17,6%), il Molise (-9,1%) e la Calabria (-2,4%).

Vera MORETTI

Savings and Loans, una crisi dimenticata

 

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Durante l’amministrazione successiva di Reagan, alle S&L vennero concesse altre liberalizzazioni, con prerogative proprie delle banche, ma non si richiedevano le stesse garanzie alle S&L: pagare tassi d’interesse di mercato su depositi, prendere a prestito denaro della Federal Reserve, di contrarre mutui e prestiti commerciali, concedere credito al consumo, rilasciare carte di credito, possedere immobili.
Per riuscire a fornire ai loro depositanti tassi d’interesse di mercato e quindi uscire dal rischio di insolvenza, le S&L cercarono rendimenti elevati alternativi, investendo in fabbricati e terreni e contemporaneamente concedendo crediti commerciali facili.
Il patrimonio delle S&L Texane aumentò in media di oltre il 50%, alcune lo triplicarono. Anche le società Californiane ebbero un simile sviluppo.

Nel 1986, il Tax Reform Act stabilì di limitare numerose deduzioni fiscali sulle proprietà immobiliari e sugli affitti percepiti, causando la fine del boom degli immobili, poiché venivano acquistati proprio in funzione del vantaggio fiscale che ne derivava. Inoltre i possessori di proprietà furono spinti a svendere i loro immobili.
La costruzione di nuove case crollò da 1,8 milioni a 1 milione, il valore più basso dalla seconda guerra mondiale in poi.

Iniziarono i fallimenti delle S&L texane (14 delle maggiori S&L del paese erano in Texas), una recessione collegata anche alla diminuzione drastica del prezzo del petrolio (-50%) di cui il Texas è produttore. La – organo di supervisione- fu per la prima volta insolvente.

Nel 1988 viene eletto presidente Bush (padre) ma la crisi delle S&L non fa parte del suo programma elettorale. Vengono successivamente aboliti il FHLBB (che aveva compiti di vigilanza) e il FSLIC, creando un nuovo ufficio per la supervisione delle Saving and Loans Associations. Vengono inoltre stanziati 50 miliardi di dollari per far fronte alla crisi; questa sottovalutazione del problema sarà una costante e causerà l’allargamento della voragine. Solo nel 1995 sarà chiaro quanto era grande il buco, ma guardando al passato.

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 Dott. Marco Degiorgis – Life Planner / Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis

 

Il governo Renzi e le prime misure economiche

Dopo tanti proclami, per Matteo Renzi è arrivato davvero il momento di fare. Specialmente nel campo delle misure economiche e sul fronte della spesa pubblica, il governo Renzi è atteso da scelte importanti.

Tra le principali misure ci sono il taglio ai costi della politica, la riforma elettorale, la riforma del fisco, la scuola e novità per lavoro e imprese. L’aumento della tassa sulle rendite finanziarie dal 20 al 25% sarà la prima misura che Renzi e l’esecutivo adotteranno.

L’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie era già previsto nel Jobs act, presentato da Renzi a dicembre 2013, prima che stravincesse le primarie del Pd. Il piano di lavoro del nuovo governo parte dalla necessità di allargare le tutele economiche e sociali per i lavoratori e di introdurre un reddito minimo garantito per chi dovesse perdere il posto di lavoro, oltre che dalla necessità di creare occupazione. L’obiettivo è quello di avere 200mila occupati in più nei settori di punta dell’economia.

Del piano per il lavoro faranno parte gli incentivi alle assunzioni degli under 30, ma solo per le aziende che prima non licenziano. Queste assunzioni dovrebbero essere defiscalizzate e ulteriormente agevolate nel caso di lavoratori impiegati nei settori dell’innovazione e della ricerca; l’impresa pagherà solo i contributi previdenziali.

L’esecutivo Renzi punta poi a ridurre Irap e Irpef sui redditi da lavoro; l’ipotesi è quella di una riduzione di un punto delle prime due aliquote: quella del 23% che si paga ora fino al 15mila euro, e quella del 27% che si versa fino a 28mila euro. L’impatto sarebbe su tutti i cittadini, ma il dato importante è che con queste due aliquote pagano le tasse 34 dei 41 milioni di contribuenti che presentano la dichiarazione dei redditi ogni anno. Il problema è il costo elevato di questa misura necessaria: circa 5 miliardi di euro.

Governo Renzi e politiche economiche: il manifesto

E alla fine l’Italia ha il nuovo governo Renzi. Il segretario del Pd dà una spallata a Letta e al suo esecutivo, schiera la propria squadra di ministri e si appresta a governare. O almeno a provarci. Noi di INFOIVA guardiamo con attenzione a questa nuova avventura e aspettiamo di vedere quali saranno le misure in campo economico che il governo prenderà per tentare di rimettere in piedi l’Italia.

Le cose da fare sono poche e chiare e noi la pensiamo esattamente come Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, che sul Corriere del 21 febbraio hanno scritto un editoriale che Renzi e i suoi dovrebbero stampare, appendere nei loro uffici e applicare passo passo. Ve lo riproponiamo qui sotto, perché per noi è un manifesto. Voi che ne dite?

Il nuovo governo dovrà dimostrare (e in tempi brevissimi) di aver chiare quali sono le priorità e di essere determinato nell’affrontarle. Se saprà farlo tranquillizzerà i mercati e potrà rinegoziare i vincoli europei. Perché una rinegoziazione è inevitabile se si vuol far ripartire la crescita.

Quali siano i problemi dell’Italia lo sappiamo da tempo: un debito pubblico enorme, una recessione che sembra non finire mai, banche che prestano col contagocce, una disoccupazione soprattutto giovanile elevatissima, una tassazione asfissiante, una burocrazia che impone oneri immensi alle imprese, e infine i costi della politica. La difficoltà non è dunque individuare le cose da fare, ma metterle in fila e poi affrontarle con determinazione.

La prima è annunciare stime di crescita credibili. Le previsioni del governo uscente sono più ottimiste di quelle delle organizzazioni internazionali, inclusa la Commissione europea. Il governo prevede un aumento del prodotto interno lordo (Pil) dell’1% nel 2014 e dell’1,7% nel 2015. Il consenso internazionale è 0,5% nel 2014 e poco sopra l’1% nel 2015.

Da che numeri parte il nuovo governo? Le previsioni di crescita sono cruciali perché costituiscono il punto di partenza per un piano credibile di riduzione del rapporto debito-Pil. Per avviare tale riduzione è necessario compiere tre passi: ridurre la spesa pubblica e le imposte, far ripartire la crescita e vendere aziende e immobili oggi posseduti da Stato, Comuni e Regioni.
Per rilanciare la crescita, servono due interventi immediati. Primo: provvedimenti per allentare la stretta creditizia. È difficile tornare a crescere se non riparte l’offerta di credito all’economia. Lo si può fare anche con l’aiuto della Bce, come spiegavamo il 9 febbraio (nell’editoriale E ora le banche non hanno scuse ). A ciò deve aggiungersi un’accelerazione del pagamento dei debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese. Il governo uscente ne ha saldati 22 miliardi su circa 100: troppo pochi.

Seconda cosa da fare: provvedimenti per ridare competitività alle imprese. La leva principale è una riduzione immediata e consistente del cuneo fiscale, finanziata con una combinazione di tagli di spese (immediate e future) e, se necessario, con imposte meno dannose delle tasse sul lavoro.

Per portare gli oneri sociali a carico delle imprese al livello tedesco bisogna ridurli di 23 miliardi. 9-10 miliardi si possono reperire tagliando i sussidi alle imprese: 4 miliardi il primo anno, altri 5-6 nei due successivi. Un altro miliardo, o due, tagliando i costi della politica, come suggerito in uno studio di Roberto Perotti pubblicato su www.lavoce.info. I rimanenti 8 miliardi vanno reperiti dalla spending review : il commissario Cottarelli ritiene che sia un obiettivo raggiungibile già quest’anno. Altre risorse possono arrivare dalla revisione del costo di alcuni servizi (come l’università) che lo Stato offre quasi gratuitamente a tutti, indipendentemente dal reddito.

Ridurre le imposte sul lavoro non basta. Bisogna anche riformare i contratti abolendo il muro invalicabile che separa chi ha un lavoro a tempo determinato da chi ne ha uno a tempo indeterminato. Qui il diavolo sta nei dettagli. La proposta giusta è quella di Pietro Ichino, che riprende un’idea degli economisti Olivier Blanchard (capo-economista del Fondo monetario internazionale) e Jean Tirole. Un contratto uguale per tutti, senza muri e con protezioni che crescono in funzione dell’anzianità sul posto di lavoro. Ad esempio: entro tre anni dall’assunzione un’impresa può licenziare liberamente, dal quarto anno in poi il licenziamento costa all’impresa una indennità (crescente con l’anzianità del contratto) e che finanzia (in parte) i contributi di disoccupazione.

Va abolito il principio del reintegro obbligatorio, tranne nei casi di discriminazione. In questo modo verrebbe di fatto cancellato, per i neoassunti, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Occorre anche ridurre il peso dei contratti collettivi, e legare maggiormente il salario alla contrattazione a livello aziendale. Il segreto del successo della Germania sta principalmente nell’avere fatto questo.

La riforma del mercato del lavoro è impossibile senza una revisione degli ammortizzatori sociali. Una maggiore libertà alle imprese nella gestione della forza lavoro si deve accompagnare a tutele per chi rimane temporaneamente disoccupato.

La Cassa integrazione (Cig) va abolita. Per tutti coloro che perdono il posto – e con le risorse ora destinate alla Cig e ai corsi di formazione gestiti dal sindacato – va introdotto un sussidio di disoccupazione decrescente nel tempo che li costringa a cercare lavoro (con la possibilità, al massimo, di due rifiuti). Il sussidio deve essere esteso anche alle categorie oggi non coperte dalla Cassa.

Infine bisogna cedere aziende pubbliche e semipubbliche. Qui le priorità sono: riscrivere da zero il progetto di apertura del capitale delle Poste e impedire che la Cassa depositi e prestiti continui ad essere usata come un salvadanaio dello Stato per false privatizzazioni (vedi Ansaldo Energia) e sprechi risorse pubbliche facendo, senza saperlo fare, il mestiere del finanziatore di startup , e cioè di nuove aziende.

Ma il nuovo governo non farà nessuna di queste cose se non sostituirà radicalmente i burocrati che gestiscono i ministeri (riformando i contratti della dirigenza pubblica e allineandoli a quelli del settore privato) cominciando dalla casta dei capi di gabinetto. Per farlo ci vuole coraggio perché questi signori sono depositari di «dossier» che tengono segreti per proteggere il loro potere. Bisogna aver il coraggio di mandarli tutti in pensione. All’inizio i nuovi ministri faranno molta fatica, ma l’alternativa è non riuscire a fare nulla.