Agricoltura: Nuovo record per le esportazioni nell’agroalimentare

Il settore dell’agricoltura continua ad essere trainante per l’economia dell’Italia e gli ultimi dati resi noti da ISMEA autorizzano a essere positivi. Crescono le esportazioni nel settore agro alimentare.

Saldo attivo per l’export nel settore agricoltura

ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare) nei giorni scorsi ha reso noti i dati sull’export del 2021. Il valore è giunto a 52 miliardi di euro. Rispetto al 2020 la crescita è stata dell’11%. I dati possono essere divisi in due comparti: quello dei prodotti agricoli registra un aumento delle esportazioni più contenuto, cioè 8,8%, mentre i prodotti alimentari hanno una crescita dell’11,6%. Deve essere sottolineato che nel 2021 crescono anche le importazioni nel settore agroalimentare, l’aumento in questo caso rispetto al 2020 è quasi del 12% con un valore di 48 miliardi di euro. Dalla differenza tra export e import emerge quindi un saldo attivo, cioè le esportazioni hanno un valore maggiore rispetto alle importazioni.

Esportazioni: ottime prestazioni per vini e formaggi

Tra i prodotti più apprezzati all’estero ci sono sicuramente i vini, infatti nei primi 9 mesi del 2021 le sole esportazioni di vino hanno avuto un incremento del 15,1% rispetto allo stesso periodo del 2020 per un valore di 5,13 miliardi di euro. Tra i consumatori più accaniti di vini italiani ci sono la Svizzera, ma anche Austria, Germania e, a sorpresa, la Francia. Domanda alta anche da parte degli Stati Uniti, Canada, Cina e Giappone.

Se sei produttore di vini e uve leggi l’articolo: Agricoltura: scopri il Piano Nazionale di sostegno al settore vitivinicolo

Assolatte ha invece reso noto che anche le esportazioni di formaggi italiani nel 2021 ha avuto buoni risultati. In questo lasso di tempo i consumi interni sono tornati ai livelli pre-covid, mentre le esportazioni hanno avuto un forte incremento. Lo stesso è in parte dovuto all’azzeramento dei dazi aggiuntivi che erano stati introdotti da Trump. Nel solo primo quadrimestre del 2021 le esportazioni sono cresciute dell’8,1% rispetto alla stesso periodo del 2020. Da registrare anche il fatto che oltre alla crescita dell’esportazione di Parmigiano Reggiano e Grana Padano, si registra una crescita di domanda dall’estero anche per i formaggi freschi italiani e in particolare per il gorgonzola.

ISMEA sottolinea invece problemi con l’olio extravergine di oliva, ma questi sono determinati soprattutto dal calo della produzione.

Agricoltura: la regina della tavola è la pasta

Buoni risultati si registrano per l’esportazione di pasta. Nel 2021 l’Italia si conferma leader nella produzione internazionale di pasta. Secondo i dati ISMEA in Italia si producono 3,9 milioni di tonnellate di pasta con una filiera che conta 120 imprese, 200.000 aziende agricole e oltre 10.000 addetti. A fare la differenza c’è anche la riscoperta di grani antichi come il grano Senatore Cappelli, la Timilia, il Saragolla .

Naturalmente anche i vantaggi legati ai contratti di filiera stanno aiutando il settore. Per saperne di più leggi l’articolo Contratti di filiera del grano duro e contributi pubblici del MIPAAF

Oltre il 62% della pasta di produzione italiana è destinata all’estero. I principali clienti sono Germania, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Giappone che assorbono oltre la metà dell’export di pasta italiana. In crescita anche la domanda da Cina, Canada, Spagna e Arabia Saudita. Secondo Coldiretti l’aumento dell’export di pasta è del 7% in più rispetto al periodo pre-covid.

Ricordiamo che negli ultimi anni, le politiche del Paese stanno cercando di aiutare questo settore con importanti incentivi. Per saperne di più leggi gli approfondimenti:

Progetto Nocciola Italia: le opportunità per l’agricoltura di questa filiera

Coltivazione della lavanda: costi e guadagni della nuova agricoltura

Organizzazione dei Produttori Agricoli: vantaggi per le aziende agricole

Banca delle Terre Agricole: ISMEA mette a disposizione Terreni in Puglia

Agricoltura: vuoi far crescere la tua attività? Con ISMEA Investe puoi

 

 

La filiera fa la forza del Made in Italy

di Alessia CASIRAGHI

Ai nastri partenza della Settimana della Moda milanese, che debutta quest’oggi, Infoiva ha chiesto a Michele Tronconi, Presidente di Sistema Moda Italia quale sia il segreto del successo di un settore, come quello della moda italiana e dell’abbigliamento, apprezzato e invidiato in tutto il mondo. Tante piccole aziende, che se da un lato rappresentano un omaggio alla tradizione e all’artigianalità, dall’altro sono la vera forza intrinseca dei capi che vediamo rinnovarsi di anno in anno sulle passerelle di tutto il mondo.

Oggi debutta la Milano Fashion Week: i capi che vedremo in passerella e che faranno il giro del mondo sono però sola la punta dell’iceberg di un’industria, quella della moda, che in Italia è fatta non solo di grandi maison ma da tantissimi piccoli imprenditori, artigiani e artisti. E’ questo il segreto del suo successo?
Il suo segreto è racchiuso nel fatto di essere ancora una filiera: in Italia sono presenti tutte le componenti che concorrono alla realizzazione di un prodotto finito. Un prodotto che ha elevate componenti simboliche e di gusto, caratterizzato da una continua innovazione, in linea con il cambio delle stagioni, che portano al cambiamento del guardaroba. Ma per arrivare al prodotto finito, celebrato attraverso liturgie particolari come le sfilate, il punto di partenza è sempre la materia prima. Il nostro settore, quello della moda e del tessile, ha vinto sulla saturazione della domanda, che caratterizza tutti i settori economici maturi, grazie all’innovazione di prodotto e grazie alla moda stessa, che è una costruzione sociale che richiede continua propositività e che spinge il consumatore a desiderare il prodotto nuovo, anche se il suo armadio è già pieno. Il nostro è un settore che si è specializzato per rispondere alle esigenze che si susseguono di stagione in stagione: non è un caso che nella filiera del tessile e dell’abbigliamento continuino a esistere piccole imprese specializzate, è da loro che deriva la forza complessiva del settore. Una forza che si basa però allo stesso tempo sulla fragilità di ogni singolo elemento, fragilità che deriva dal fatto di non essere mai importante né per i propri clienti né per i propri fornitori. Esiste un ciclo di vita delle aziende incessante, è l’altra faccia della medaglia, le sfilate sono la punta dell’iceberg di questa fragilità strutturale.

Il bilancio del primo semestre del 2012 parla di un calo generalizzato del settore del tessile in Italia. Quali sono le maggiori difficoltà cui si trovano a far fronte gli imprenditori della moda?
La fragilità odierna non è settoriale ma endemica e dovuta a una crisi di carattere macroeconomico: dalla cattiva finanza americana sui debiti sovrani alla debolezza dell’Euro, una crisi che atterra sull’economica reale, generando crisi di domanda e crisi di consumi. Il calo di fatturati del nostro settore si spiega in un orizzonte più ampio. La domanda interna si è fortemente ridotta, la pressione fiscale si è fatta sentire fin dall’ingresso dell’Euro, ma adesso si avverte in misura maggiore anche in tante imposte indirette: il caso più eclatante è quello della benzina. L’aumento del costo di un bene riduce la possibilità di spesa su altri beni. Il forte calo dei consumi colpisce anche il tessile abbigliamento perchè ha come conseguenza diretta una riduzione e una frammentazione dei volumi produttivi, sia sull’artigianato che sull’industria, con la conseguenza che le imprese non riescono sempre a coprire i costi produttivi. Un altro problema riguarda la contrazione del credito, non solo delle banche, ma anche tra gli imprenditori: il rispetto delle scadenze nei pagamenti fra aziende e fornitori diventa sempre più difficile. Quello che fa un po’ specie è vedere come anche le aziende di grandi dimensioni, che dovrebbero avere le spalle più coperte, non sempre comprendano la necessità e l’importanza di sostenere le realtà più piccole e con esse la filiera stessa, allineando le condizioni di pagamento alle condizioni europee. Da ultimo si aggiunge il problema dell’aumento dei costi di produzione, indotto dalla fiscalità crescente e dall’ incremento del costo dell’energia, che penalizza la filiera italiana e dilata ulteriormente il differenziale negativo dell’industria italiana su i competitor più lontani, come Cina e Turchia, ma anche quelli più vicini come Germania e Francia. Se si produce di meno, viene da sè che si contrae anche la nostra capacità esportativa.

Quali sono attualmente i Paesi dove si esporta maggiormente?
Le nostre esportazioni continua a crescere in Cina, anche se rappresentano ancora una piccola fetta rispetto al valore che importiamo: la Cina è il nostro principale fornitore sia di tessile che di abbigliamento, ed è solo il nostro 12mo cliente, anche se sta salendo in graduatoria con un ritmo molto sostenuto dall’inizio del 2012. In Cina esportiamo più tessile che abbigliamento: il tessile ha registrato quest’anno una crescita del 20-22% rispetto allo stesso periodo del 2011, mentre le importazioni dalla Cina sono diminuite della stessa percentuale nel medesimo periodo. Poi c’è la Russia, seguita da Paesi molti interessanti come il Brasile e l’America Latina stessa, dove però è più facile esportare quando si ha un brand molto noto, meno facile invece quando si tratta di middle brand, perché occorre superare lo scoglio di dazi molto elevati: in Brasile parliamo di una media del 35% per capi di abbigliamento.

I mercati BRIC continuano a rappresentare un’ancora di salvezza per l’export e il fatturato del tessile italiano?
Oltre al già citato Brasile, un mercato molto interessante è quello dell’India, anche se la moda italiana fa ancora fatica a penetrare per una questione prettamente culturale: paradossalmente in India si esporta più facilmente la calzatura italiana che non l’abbigliamento. L’export italiano non guarda soltanto ai Bric ma anche i Next Eleven – Bangladesh, Egitto, Indonesia, Iran, Messico, Nigeria, Pakistan, Filippine, Turchia, Corea del Sud e Vietnam – che stanno crescendo a ritmo sostenuto. Fra i Paesi dell’America Latina, grande attenzione è posta sul Messico, un Paese che nonostante venga spesso ritratto dai media come caratterizzato da un alto taso di criminalità è interessato da un fortissimo sviluppo economico, e ancora il Cile e l’Argentina. Tutti Paesi che crescono ad una velocità raddoppiata rispetto alla vecchia Europa.

I buyers stranieri sono indirizzati per lo più verso produzioni di altissimo livello o ad attirare l’attenzione è anche la produzione di medio livello?
I nostri sono prodotti desiderabili sia per chi ha un alto tenore di vita, quindi rivolti al comparto lusso, sia per la classe media, che in Paesi come quelli prima citati cresce a ritmo sostenuto, e desidera avere un prodotto che evochi il sogno, che sia di buona qualità, continuamente innovato, perché gli aspetti simbolici sono quelli a cui si fa più attenzione nel momento in cui si esce da situazioni di precarietà e povertà.

Come si difende l’industria del tessile made in Italy dalla concorrenza, non solo a livello economico ma anche di filiera produttiva, dei Paesi asiatici?
Occorre cambiare la prospettiva: quando noi 10 anni fa ragionavamo di sostegno della nostra filiera, la questione principale riguardava la protezione della produzione italiana. Oggi le cose sono cambiate, oggi siamo chiamati a sostenere le nostre esportazioni in quei Paesi che 10 anni fa erano i nostri principali acquirenti. La Cina ne è l’esempio più lampante: da Fabbrica del mondo si è trasformata in grande mercato del mondo, e paradossalmente, per sostenere la nostra filiera oggi occorre creare prodotti che siano esportabili e vendibili in quei Paesi. Una cosa è rimasta costante nel tempo: la necessità di strumenti di trasparenza, l’indicazione di origine dei prodotti è importante sempre e ovunque. La Cina compra da noi solo quando il prodotto è autenticamente made in Italy; oggi dobbiamo pretendere che anche gli altri Paesi rispettino la piena reciprocità e trasparenza.

Secondo lei, quali soluzioni alternative potrebbe /dovrebbe adottare il Governo per salvaguardare un settore tradizionale e fondamentale dell’industria italiana, quasi identitario, come quello del tessile?
Per esportare di più occorre risolvere i problemi a casa nostra. All’Italia manca quella capacità a fare squadra, i problemi che stanno venendo a galla sono più grossi, e non riguardano solo il tessile e abbigliamento, ma visto che questo settore rappresenta ancora, per fortuna, un’industria di filiera, una maggior attenzione da parte dei grandi poteri andrebbe prestata. Occorrono interventi che agiscano sul conto economico delle imprese: prima di tutto ridurre il costo dell’energia, che è stratosferico ed è un problema solo italiano. Occorre poi ridurre la fiscalità sulle imprese, primo fra tutti il problema dell’Irap che penalizza tutte quelle aziende che presentano una forte incidenza della manodopera. La principale riforma di cui ha bisogno l’Italia in questo momento è fiscale: nell’attività produttiva a livello industriale non si assiste ad uno spostamento verso il sommerso, ma ad un annullamento dell’attività produttiva. Si tratta però di interventi che riguardano unicamente il Governo, non le parti sociali o gli imprenditori. Quando si ha a che fare con una filiera, come la nostra, composta per lo più da piccole realtà imprenditoriali, non ci si può aspettare che i piccoli risolvano i problemi dei grandi.

Settore dell’oreficeria in sentore di crisi

Confartigianato ha espresso preoccupazione per la crisi in cui il settore orafo si trova. Le osservazioni sono state rivolte direttamente al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta nel corso di un incontro di quest’ultimo con le organizzazioni che compongono la Consulta nazionale orafi. ”Dal Governo arrivato un importante segnale di attenzione – ha spiegato Luciano Bigazzi, presidente degli Orafi di Confartigianato – per affrontare i gravi problemi del settore orafo che sta vivendo uno dei suoi momenti pi difficili: la produzione a maggio diminuita del 18,1% e l’occupazione calata del 2,8% tra marzo 2010 e marzo 2011”.

Bigazzi ha proseguito: ”L’oreficeria italiana costituita da circa 11.000 imprese impegnate nella produzione e da oltre 20.000 dettaglianti, con complessivi 120.000 addetti, per un fatturato annuo di 6,5 miliardi di euro e un contributo significativo all’equilibrio della nostra bilancia commerciale. un settore d’eccellenza del made in Italy che per deve essere tutelato e valorizzato per consentire ai nostri prodotti di continuare a competere sui mercati internazionali”. Da risolvere rimangono i problemi dei dazi doganali e le barriere non tariffarie che penalizzano le esportazioni, le restrizioni sul fronte del credito, gli alti costi delle materie prime, il fenomeno della contraffazione e dell’oro sottotitolato.