Operaio in crisi, va in Comune e minaccia di darsi fuoco

Era  disperato per non potersi permettere di pagare l’affitto della casa in cui abita con il figlio e ha tentato di fare il gesto estremo. Riccardo Messina, un operaio 52enne siciliano di Porto Recanati, in provincia di Macerata, si è presentato negli uffici del Comune e si è versato addosso una bottiglia di benzina minacciando di darsi fuoco se non lo avessero aiutato ad affrontare la situazione. L’uomo, che lavora saltuariamente come operatore ecologico per la stessa amministrazione, è stato dissuaso dai dipendenti ed è  stato poi ricoverato in ospedale per verificare le sue condizioni psichiche.

La ditta non salda il debito da 150mila euro, artigiano minaccia di darsi fuoco

Quando ha chiamato il 112 si era già cosparso il corpo di benzina ed era pronto a suicidarsi davanti alla ditta che da un anno e mezzo gli deve 150mila euro per alcuni lavori effettuati in precedenza.

Fortunatamente l’arrivo dei carabinieri è stato tempestivo per salvare la vita a un artigiano di 34 anni, che stamattina ha voluto compiere un gesto estremo per dare l’ultimo avvertimento alla Termocalor, situata in via Grazzini nella zona industriale di Bovisa, a Milano.

La ditta però ha da poco cambiato gestione e l’amministratore delegato, nonostante il debito fosse stato contratto dalla gestione precedente, ha comunque rassicurato l’artigiano promettendogli che verrà in qualche modo risarcito.

Morire d’impresa. Ora basta.

di Davide PASSONI

Ne abbiamo già parlato, purtroppo, sulle nostre pagine. Morire d’impresa è l’estrema, intollerabile, bastarda conseguenza di questa crisi che non ci vuole mollare, nonostante l’impegno di imprenditori e professionisti che, ogni giorno, ce la mettono tutta per far quadrare bilanci, pagare stipendi, dare lavoro, permettersi il lusso di vivere e non di sopravvivere. Ogni giorno, fino a quando non ce la fanno più. E allora posano la chiave inglese, il mouse, le chiavi dell’auto e afferrano una pistola, un flacone di antidepressivi o infilano un tubo di gomma nel tubo di scappamento, chiudono lo sportello dall’interno e soffocano se stessi e la propria speranza di dare e darsi un futuro.

Dicono le cronache che durante queste festività non ancora terminate, tra molti casi di suicidio alcuni hanno riguardato imprenditori che… non ce l’hanno fatta più. Si sa, quando è d’obbligo festeggiare ed essere felici, chi non ha più uno straccio di motivo per unirsi al coro della bontà un tanto al chilo si sente ancora più schiacciato dalla depressione e dalla solitudine; e allora viene ancora più facile tirare quel grilletto, ingollare quelle pasticche, girare quella chiave nel quadro dell’auto.

Parlano le cronache di Antonio Losciale, 49 anni, di Trani che si è impiccato nel box che utilizzava come deposito della sua piccola ditta di climatizzatori.

Parlano le cronache di Roberto Manganaro, 47 anni di Catania, che insieme al fratello Giuseppe gestiva un concessionario di moto Honda e che si è tolto la vita ingoiando un’intera scatola di antidepressivi. Il suo ufficio stampa ha subito precisato che “contrariamente a quanto infondatamente riportato da alcuni media, la propria situazione economica, patrimoniale e finanziaria è ad oggi sana e trasparente e per nulla compromessa dalla pur nota congiuntura economica” e che “era purtroppo affetto da molto tempo da una grave forma di depressione, aggravatasi negli ultimi mesi, che lo ha privato di una lucida considerazione della realtà che lo circondava“.

Ma intanto parlano le cronache… E parlano di Roberto De Tullio, pensionato barese 74enne la cui famiglia gestisce in città diversi negozi, che si è gettato dal quarto piano del suo palazzo, lasciando una lettera firmata dall’Inps nella quale, dopo aver ricalcolato i versamenti, l’istituto chiedeva la restituzione di 5mila euro.

Parlano le cronache di un elettricista 64enne di Robecco sul Naviglio, che si è sparato alla tempia nel suo furgoncino.

Parlano le cronache di un agricoltore 54enne dell’Ascolano che si è impiccanto nel magazzino dove teneva gli attrezzi per i campi. A detta dei familiari, “temeva di non farcela, di non superare le difficoltà del 2012“.

Parlano le cronache di imprenditori forse più fragili di altri, ma che lanciano comunque un segnale forte di disperazione che VOI, istituzioni, politiche ed economiche, non potete più tardare a raccogliere. Perché VOI, prima che i mercati, avete gli strumenti per dare speranza, prima che ossigeno, a chi quotidianamente tiene in piedi questo Paese bello e disperato. Siamo stufi di andare alla conta dei morti.

Morire di debiti. Le imprese dicono no

Non è passata nemmeno una settimana da quando Giovanni Schiavon, imprenditore edile del Padovano, si è ucciso con un colpo di pistola nella sua azienda per l’impossibilità di riscuotere i crediti per lavori già eseguiti (350mila euro) e saldare dipendenti e fornitori. Ora le imprese venete alzano la voce e scrivono al premier Mario Monti chiedendo la rapida applicazione della norma europea contro i ritardi nei pagamenti; una normativa  non ancora recepita dal governo italiano attraverso la legge comunitaria perché troppo onerosa per i bilanci dello Stato.

La lettera porta la firma anche della moglie e della figlia di Schiavon ed è molto chiara: se il governo dice di lavorare a un pacchetto di misure per salvare l’Italia, il recepimento della direttiva europea ne deve assolutamente fare parte. Una direttiva che fissa un tetto di 30 giorni (fino a un massimo di 60, ma solo in casi eccezionali) al saldo dei debiti, pena il pagamento degli interessi di mora progressivi che scattano già dal 30esimo giorno e partono dall’8% per aumentare man mano che aumenta il ritardo.

Un meccanismo che sarebbe ossigeno per le imprese e per chi le dirige, che in questi mesi balla giorno dopo giorno sul filo del baratro, stretto tra la morsa dei creditori e delle banche, e con l’impossibilità di avere ciò che gli spetta di diritto ed è frutto della più sacrosanta delle attività: il lavoro.

Cara P.A., ora paga i tuoi debiti alle PMI. Te lo impone l’Ue, basta ritardi

di Davide PASSONI

Oggi partiamo da una buona notizia. La Commissione Europea ha finalmente trovato un accordo con l’Europarlamento e con il Consiglio dei ministri Ue per varare una direttiva contro i ritardi nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione. Una piaga per l’economia, non solo italiana ma europea, una jattura con la quale si sono trovati a fare i conti molti dei nostri lettori che, quindi, sanno bene di che cosa stiamo parlando.

Nell’Ue i pagamenti in ritardo ammontano a quasi 2 miliardi all’anno, con tempi medi di 65 giorni e casi estremi che arrivano a 180. Ora, secondo la direttiva europea in via di approvazione, il termine ultimo per i pagamenti sarà di 60 giorni; dal 61esimo in poi, per le P.A. scatterà l’interesse dell’8% sul debito. Una mossa che dovrebbe sbloccare circa 180 miliardi, in buona parte a favore delle PMI.

Da noi la pubblica amministrazione ha un debito di circa 70 miliardi verso i propri fornitori, molti dei quali sono, guarda caso, PMI. Lo sa bene la Commissione Europea, visto che da Bruxelles ricordano che questa intollerabile morosità è spesso causa del fallimento di imprese che sarebbero altrimenti sane e produttive, specialmente se di piccole e medie dimensioni. Se aggiungiamo che in Italia, sempre secondo fonti Ue, i ritardi nei pagamenti sono passati da 138 giorni nel 2008 a 170 nel 2010 e che il 50% delle nostre imprese registra ritardi medi di 2-4 mesi e il 25% persino di 6, ecco che questo accordo tra Commissione, Europarlamento e Consiglio dei Ministri Ue appare quanto mai salvifico. Purché…

Purché chi nel Palazzo dovrebbe decidere sul futuro e sulla salvezza della nostra economia non trovi qualche gabola per decidere sulla salvezza della pubblica amministrazione. Di fatto già ora la P.A. fa spesso orecchie da mercante, fingendo di ignorare le disposizioni di legge che impongono il pagamento a 30 giorni dal ricevimento della fattura, oltre alla decorrenza e all’importo degli interessi per il pagamento ritardato. Un comportamento non più sostenibile, già più volte sanzionato dal Consiglio di Stato, che continua a essere tenuto con la scusa della mancanza di fondi, della crisi, dei costi della macchina pubblica.

In quest’ottica, c’è da sperare che i due anni concessi ai Paesi Ue per recepire la direttiva non diventino un alibi per prendere/perdere tempo. Lo sa bene il Taiis, che ha chiesto di definire in tempi rapidi la quantificazione dei debiti, per approvare una soluzione che possa sanare il pregresso senza incidere negativamente sui conti pubblici. Una soluzione fattibile con un piano di rientro decennale del debito che inciderebbe sul Pil fino a un massimo dello 0,4% all’anno. Se si pensa che il totale dei debiti commerciali in Italia equivale a 4 punti di Pil, è chiaro quanto la nostra economia possa trarre beneficio da una recuperata capacità di spesa e di investimento da parte delle imprese. 

Non basta quindi la crisi dei mercati mondiali; non basta la stretta sul credito operata dalle banche, che ha ridotto la circolazione di liquidità mandando in sofferenza le piccole e medie imprese che non hanno una capacità finanziaria adeguata per affrontarla; non bastano il nero e l’evasione, cancri che allignano nel nostro tessuto produttivo di base sottraendo ricchezza al Paese e, di conseguenza, risorse alle imprese stesse che credono di fare le furbe. Dobbiamo anche lottare contro una P.A. morosa e supponente.

Ora l’Ue dice basta, redde quod debes. Peccato che, come al solito, sia dovuta intervenire l’Europa per arrivare là dove non siamo in grado di arrivare noi, per furbizia, per ignavia o solo per pigrizia. Vedremo ora se alla P.A. converrà di più pagare a termine o continuare a voltarsi dall’altra parte, accollandosi quell’8% in più.