Scudo anti-spread: cos’è e a cosa serve la misura annunciata dalla BCE?

Negli ultimi giorni sentiamo spesso parlare di scudo anti-spread, misura annunciata dalla BCE per proteggere i Paesi maggiormente esposti al rischio di uno spread elevato. In cosa consiste questo piano anti-spread?

Perché serve uno scudo anti-spread?

Sappiamo che lo spread è il differenziale tra i titoli di credito italiani a 10 anni quello dei titoli tedeschi. Quando i titoli di Stato di un Paese, in questo caso l’Italia, hanno un elevato rischio di insolvenza a causa della situazione politica ed economica, lo spread tende a salire. Di fatto in questa situazione i Titoli diventano poco appetibili. Gli stessi Titoli sono uno strumento utile agli investimenti e alla crescita economica, diventa quindi una sorta di cane che si morde la coda.

Negli anni passati un elevato spread dovuto alla situazione politica instabile ha richiesto molti sacrifici all’Italia, ecco perché quando gli italiani avvertono che lo spread sta per salire, o potrebbe salire, l’ansia sale. D’altronde non è mai stato del tutto chiaro se il livello dello spread in quegli anni saliva per la situazione politica o se ci sia stato un aumento “speculativo” e gestito da fonti esterne. Resta il fatto che dopo anni di relativa tranquillità, sembra di rivivere un vecchio incubo. Ricordiamo che quando aumenta lo spread, aumentano anche i tassi di interesse che l’Italia paga sul debito pubblico perché deve offrire interessi alti affinché qualcuno ritenga i titoli di Stato italiani “interessanti”.

Perché c’è il rischio di un nuovo aumento dello spread?

Ora si aggira di nuovo lo spettro dello spread che sale. Il motivo ufficiale è l’annuncio dell’aumento del costo del denaro da parte della BCE. A cui si aggiunge il termine del quantitative easing, cioè lo strumento attraverso il quale la BCE comprava il debito dei Paesi in difficoltà.

BCE: arriva l’annunciato aumento del tasso di interesse. Spread vola

C’è chi sostiene, come il Governatore della Banca d’Italia Visco, che uno spread sopra i 200 punti sia ingiustificato. Dovrebbe restare sotto i 150 punti. Di fatto sono in molti a temere che ci possa essere una forte ondata di aumenti. In realtà il rischio di aumento dello spread non coinvolge solo l’Italia, ma anche altri Paesi e in particolare Spagna, Grecia e Portogallo.

Per cercare di evitare questo rischio, la BCE ha annunciato l’intenzione di creare uno scudo antispread. Fin da ora è bene dire che non si conoscono i dettagli di questo strumento. Un piano antispread era stato già annunciato nel 2012 ma di fatto non fu necessario usarlo. Questo prevedeva in favore dei Paesi virtuosi, cioè impegnati con piani di pareggio di bilancio, l’uso di un fondo salva-Stati da usare nel caso in cui quegli stessi Paesi fossero oggetto di attacchi speculativi a causa dell’elevato debito pubblico.

Cosa prevede lo scudo anti-spread della BCE?

Nel comunicato reso noto nei giorni passati, la BCE ha parlato di “flessibilità nel reinvestimento dei rimborsi in scadenza nel portafoglio Pepp”, ma sono in molti ad avere dubbi sull’efficacia di questo strumento. Lo stesso comunicato però annuncia l’esistenza di un mandato ai comitati dell’Eurosistema insieme ai servizi della Bce di accelerare “completamento della progettazione di un nuovo strumento anti-frammentazione da portare all’esame del Consiglio direttivo”.

La maggior parte degli analisti ritiene che nel concreto il piano anti-spread sarà uno strumento che consente di acquistare debito pubblico dei Paesi in maggiori difficoltà. Lagarde ha annunciato che funzionarà in favore dei Paesi che avranno uno spread che cresce molto e in poco tempo. Ciò in deroga al principio generale secondo il quale i Titoli sono acquistati da Francoforte avendo come punto di riferimento le dimensioni di un’economia.

C’è anche chi ritiene che nella situazione attuale, sebbene l’Italia abbia un rating basso, non vi è un reale rischio di aumento del debito pubblico e questo perché l’inflazione porta le entrate dello Stato ad aumentare (tassazione sui consumi) e questo dovrebbe bastare a mantenere un certo equilibrio nei conti italiani. Naturalmente non mancano teorie inverse e che suggeriscono la necessità di avere sotto controllo l’inflazione e indurre una riduzione dei prezzi.

Spesa pubblica e tasse locali? Impazzite

È un pozzo senza fondo la spesa pubblica italiana. Non passa settimana che qualche studio o ricerca non ci metta sotto al naso qualcuna delle follie. Questa volta ci ha pensato l’Ufficio studi della Cgia, segnalando che dal 1997 ad oggi la spesa pubblica, al netto degli interessi sul debito, è aumentata del 68,7%. In termini assoluti è cresciuta di quasi 296 miliardi: alla fine di quest’anno le uscite, sempre al netto degli interessi, ammonteranno a 726,6 miliardi di euro.

Il rovescio della medaglia è dato dalle entrate fiscali, che sono cresciute del 52,7%. A fronte di una variazione pari a +240,8 miliardi, il gettito complessivo previsto entro il 2013 ammonterà a 698,26 miliardi di euro. Ricordiamo che le entrate fiscali comprendono solo le tasse, le imposte, i tributi e i contributi pagati dagli italiani.

Le entrate tributarie, ossia solo imposte, tasse e tributi che costituiscono il 70% circa delle entrate fiscali totali, sono date dalla somma del gettito in capo alle Amministrazioni centrali e da quelle incassate dalle Amministrazioni locali. Nel periodo considerato l’incremento è stato del 58,8%. Ma se si analizza il trend delle tasse locali ci accorgiamo che sono praticamente “esplose”: +204,3% (pari, in termini assoluti, a +74,4 miliardi di euro), con un gettito che nel 2013 sfiorerà i 111 miliardi. Quelle centrali, invece, sono cresciute “solo” del 38,8% (pari a + 102,6 miliardi in valore assoluto), anche se nel 2013 le entrate di competenza dello Stato ammonteranno a ben 367 miliardi di euro. Tutti gli importi sopra citati, sottolinea la Cgia, sono a prezzi correnti, ossia includono anche l’inflazione).

La spesa pubblica, al netto degli interessi, ha dunque “viaggiato” ad una velocità superiore a quella registrata dalle entrate fiscali, anche se a livello locale la tassazione ha subito una vera e propria impennata. Ciò ha contribuito ad aumentare il carico fiscale generale, portandolo a toccare un livello mai raggiunto in passato; inoltre, alla luce di una spesa pubblica complessiva che in questi anni è sempre stata superiore al totale delle entrate finali, la dimensione del debito pubblico italiano è continuata a crescere in maniera allarmante.

Secondo il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi, “l’aumento delle tasse locali è il risultato del forte decentramento fiscale iniziato negli Anni ’90. L’introduzione dell’imposta sugli immobili, dell’Irap, delle addizionali comunali e regionali Irpef hanno fatto impennare il gettito della tassazione locale che è servito a coprire le nuove funzioni e le nuove competenze che sono state trasferite alle Autonomie locali. Non dobbiamo dimenticare che, negli ultimi 20 anni, le Regioni ed i Comuni sono diventati responsabili della gestione di settori importanti come la sanità, i servizi sociali e il trasporto pubblico locale senza aver ricevuto un corrispondente aumento dei trasferimenti. Anzi. La situazione dei nostri conti pubblici ha costretto lo Stato centrale a ridurli progressivamente, creando non pochi problemi di bilancio a molte amministrazioni locali che si sono difese facendo leva sulle nuove imposte locali introdotte dal legislatore”.

Confartigianato: “Situazione delle aziende italiane sempre più nera”

Sempre meno credito alle imprese italiane: in un anno, vale a dire da maggio 2012 a maggio 2013, i finanziamenti sono drasticamente diminuiti di 41,5 miliardi di euro, una percentuale pari al 4,9%. Un rapporto di Confartigianato traccia un quadro davvero inquietante, la mancanza di liquidità soffoca le aziende nostrane, per le quali i finanziamenti scarseggiano.

A peggiorare ulteriormente la situazione è la crescita del debito della Pa verso le imprese, che oggi ammonta a ben 91 miliaridi. Inoltre, nonostante il calo della quantità di finanziamenti si verifica un aumento dei tassi d’interesse: secondo Confartigianato, a maggio 2013 il tasso medio per i prestiti fino a 1 milione di euro è del 4,36% ma sale al 4,85% per i prestiti fino a 250.000 euro.

Questi valori da capogiro fanno dell’Italia il secondo paese, dopo la Spagna, per i tassi più alti d’Europa, la differenza rispetto alla media Ue è di 84 punti, mentre lo spread continua inesorabilmente a salire e la differenza tra i tassi pagati dalle nostre aziende e quelli delle imprese tedesche oggi è di ben 148 punti.

La morsa che soffoca le imprese italiane sembra non allentare la presa, e a farne maggiormente le spese, soprattutto per i tassi d’interesse sono le piccole aziende (con meno di venti addetti). A livello regionale la Calabria si piazza al primo posto con i tassi più alti, 10,58% , seguita dalla Campania(10,55% ) e dalla Puglia, con il 10,22%.

Dando uno sguardo alle province invece è Crotone a risultare la più in difficoltà, con le aziende costrette a pagare tassi d’interesse dell’8,4%.

Sul fronte debiti della Pa, i dati forniti dalla Confartigianato sono agghiaccianti, ben 91 miliardi di euro, una cifra che rispetto al 2009 è aumentata di 0,3 punti di Pil; in Francia, Regno Unito e Spagna invece si è verificata la situazione opposta con un netto calo.

L’Italia ha inoltre il “primato europeo” dei ritardi di pagamento: 170 giorni, ovvero 109 giorni giorni in più rispetto agli altri Paesi del nostro continente.La situazione delle aziende italiane dunque appare sempre più inquietante: chi sostiene che la fine della crisi sia ormai dietro l’angolo, dovrebbe forse ripensarci bene.

Francesca RIGGIO

Rapporto Imd amaro per l’Italia

L’Italia è sempre meno competitiva, a livello economico, e, appesantita dal debito pubblico e dal carico fiscale che pesa su aziende e lavoro, è scivolata al 44esimo posto, su 60, nella classifica dell’ultimo rapporto dell’Istituto svizzero di Losanna Imd.

In un anno, il Belpaese ha perso ben 4 posizioni, a causa di performance economiche molto deboli, ma anche dell’inefficienza del settore pubblico, le difficoltà del sistema bancario e la rigidità del mercato del lavoro.

Ma non è solo l’Italia ad arrancare, perché la Spagna è in caduta libera, dal 39esimo al 45esimo posto, seguita anche dal Portogallo, ora al 46esimo posto, mentre l’anno scorso era al 41esimo.
Fanalino di coda rimane la Grecia, in 54esima posizione.

Gli economisti vedono in estrema difficoltà l’area meridionale dell’Europa, colpevole di non aver “abbastanza diversificato la loro industria o controllato la spesa pubblica e ora devono far fronte a programmi di austerità”.

Ma anche ai “piani alti” c’è poco da sorridere, perché perdono punti, e posizioni, anche Gran Bretagna, ora in 18esima posizione, e la Francia, 28esima, superate da paesi in ascesa come gli Emirati Arabi, che guadagnano 8 posizioni e, dalla 16esima, balzano all’ottava posizione.

Hanno ragione a gloriarsi sugli allori la Svizzera, che recupera un secondo posto a seguito degli Usa, che si sono riappropriati della la prima posizione. Bene anche la Svezia, al quarto posto, e la Germania che resta al nono posto.

Vera MORETTI

Cresce il debito pubblico e cala la nostra fiducia

di Davide PASSONI

Potere dei numeri. Che la matematica non sia un’opinione è un dato di fatto, ma che ciascuno pieghi i numeri per far dire loro ciò che gli torna più comodo lo è ancora di più. Prendiamo i recenti dati sul debito pubblico: a giugno ha toccato quota 1.972,9 miliardi dai 1966,3 di maggio. Demerito, secondo il premier Monti, degli aiuti pagati dall’Italia ai partner europei in difficoltà, dato che “il nostro debito pubblico quest’anno ha raggiunto il 123,4% del Pil. Senza i contributi (per i fondi salva-Stati e i prestiti concessi ai Paesi in crisi) saremmo al 120,3%“.

Sarà anche vero, ma allora quanto sono state utili la stangata dell’Imu e l’aumento delle accise sull’energia che hanno portato nelle casse dello Stato 3,7 miliardi di euro nei primi sei mesi del 2012? Com’è che questo maledetto debito pubblico (il vero, grande problema dei conti italiani) continua a crescere nonostante i proclami e alcune, pavide iniziative della banda Monti? Ripetiamo, sarà anche vero: ma questo dare sempre la colpa agli altri, Germania ed Europa in primis, comincia a stufare.

Vero, si parla di settembre come del mese in cui cominceranno a vedersi i primi segni del miracolo: un intervento sul mostruoso stock di debito pubblico da abbattere con un piano mirato di dismissioni immobiliari, per arrivare a toccare un rapporto con il Pil pari al fatidico 100%. Ma intanto si prende ancora tempo e si fa strada persino l’ipotesi di un super-commissario ad hoc, un po’ come accaduto per la spending review. Là fu chiamato Enrico Bondi per aiutare i professori a capire dove e come tagliare la spesa pubblica, qui qualche altro Solone calato dall’alto insegnerà al governo come dismettere immobili pubblici. Le partecipazioni no, quelle no, sia mai… Peccato che lì di ciccia da recuperare ce ne sarebbe ancora e tanta… Ma evidentemente i professori hanno bisogno di un’altra persona che li aiuti a fare i compiti.

Paradosso in una terra di paradossi. E vedremo nei prossimi mesi, quando pian piano si esaurirà l’onda lunga della prima Imu, come andranno le entrate fiscali. Se ci sarà una flessione come accaduto nei mesi scorsi, allora il segnale sarà preoccupante: se le gente non ne ha più nemmeno per pagare le tasse, figuriamoci per mangiare. Ma intanto aspettiamo a dismettere e il debito pubblico sale. Tanto paga Pantalone… ops! Paga il cittadino e paga l’impresa.

Il debito pubblico? Sulle nostre spalle

di Davide PASSONI

Non vi sentite le spalle pesanti? Dai, fateci caso… Eccolo lì il peso, il macigno del debito pubblico: stando alle stime di Adusbef e Federconsumatori, il masso pesa 32mila e 300 euro per ciascun cittadino e 88mila euro per ciascuna famiglia. Da febbraio 2011 a gennaio 2012, il debito pubblico è infatti passato da 1.875,917 a 1.935,829 euro, con un aumento di 59,912 miliardi. Secondo la rilevazione, quindi, solo nell’ultimo anno l’aumento del peso per ciascuno dei 60 milioni di italiani è stato pari a 998 euro, mentre per ciascuna famiglia l’onere è salito di 2.723 euro.

E di chi è la responsabilità di questa impennata? Sorpresa delle sorprese, il sobrio Monti e il suo governo di tecnici. L’esecutivo dei professori ha il record del governo che negli ultimi 15 anni ha registrato la maggior crescita al mese del debito pubblico, pari a 15,5 miliardi.

Nel trend di crescita del debito pubblico dal 1996 ad oggi, Adusbef e Federconsumatori rilevano che il primo governo di centro sinistra (1996-2001) lo faceva crescere di 2,7 miliardi al mese. Col successivo governo Berlusconi (2001-2006) si è arrivati a oltre 3,8 miliardi/mese. Tocca poi a Prodi (2006-2008), che ha ritoccato le emissioni portandole a 3,9 miliardi/mese.

Con l’ultimo governo Berlusconi (2008-2011) l’incremento ha superato i 6 miliardi/mese. Ecco dunque che il governo Monti non lascia, anzi, raddoppia e va oltre: quasi 15,5 miliardi di euro/mese. Con un record a gennaio 2012 circa 38 miliardi di euro. A fine dicembre 2011, continuano Adusbef e Federconsumatori, il debito si attestava, infatti, a 1.897,646 miliardi di euro, in calo rispetto a novembre anche per via degli anticipi sulle dichiarazioni dei redditi 2012.

Checchè se ne dica, quindi, il governo Monti più che tagli ha messo sul piatto tasse. Va bene la crisi, va bene l’emergenza, ma fino a quando la ristrutturazione del debito si farà per via fiscale anziché tagliando la spesa e dismettendo asset importanti del patrimonio pubblico, immobiliare e non, la strada sarà sempre in salita.

Giovani Confindustria: nel 2012 Pil a quota zero

Debito pubblico al 120%, disoccupazione giovanile al 27% e una previsione negativa (0%) per quanto riguarda la crescita del Prodotto Interno Lordo per il prossimo anno. E’ quanto emerge dall’assemblea dei giovani di Confindustria in corso in questi giorni a Capri.

Ma “in 20 anni, nel tempo di una sola generazione, possiamo raddoppiare la ricchezza, raddoppiare il Pil” ci tiene ad affermare Jacopo Morelli, Presidente dei giovani industriali ”è questa la nostra scommessa di imprenditori”. Anche se il giovane Presidente di Confindustria junior non nasconde l’amarezza e la delusione per la classe politica italiana attuale “non abbiamo invitato politici nazionali sul palco, perchè la politica deve passare, a questo punto, dal dire al fare, dagli annunci all’azione”.

Secondo Morelli c’è bisogno di manovre forti e convincenti, di leader politici “che sappiano spiegare, convincere e agire: l’unica prova concreta della leadership è la capacità di guidare”.

Lo scorso giugno era stato proprio il Presidente dei giovani di Confindustria ad avanzare quattro proposte al Governo: ridurre le aliquote fiscali per i giovani e le donne, abbassare il cuneo contributivo per chi entra nel mercato del lavoro, detassare le nuove imprese e abolire il valore legale dei titoli di studio. Dove sono finite queste proposte di riforma? “Le aspettano i Giovani Imprenditori e, ancora di più, il Paese, per ricominciare a crescere” conclude Morelli. Niente retorica o dibattiti politichesi però: “è un obiettivo che si raggiunge con l’azione, non con la retorica e continui dibattiti. E’ questa la scelta. Tra interesse generale o piccoli particolari, tra sviluppo o declino”.

Alessia Casiraghi

Condono: un costo per lo Stato o per i cittadini?

Il condono costa di più al cittadino o allo Stato? Secondo un studio pubblicato da Il Sole 24 Ore il condono, edilizio o fiscale che sia, “costa all’Erario e ai Comuni assai più che al contribuente. Non tanto e non solo per le spese amministrative, che comunque pesano, ma soprattutto per la rinuncia al gettito ‘regolare’ che deriva dall’applicazione della sanatoria”. Negli ultimi 5 anni con le varie sanatorie applicate a fini fiscali o edilizi lo Stato ha perso 860 miliardi di euro.  E, facendo un ulteriore salto indietro nel tempo, tra il 1980 e il 1997 la rinuncia al gettito regolare sarebbe costata allo Stato ben 883 miliardi, contro un guadagno di 22,3 miliardi derivanti dalle sanatorie per il condono previdenziale.

Il condono in Italia, un’operazione che non ha eguali in nessun altro Stato Europeo, rappresenta inoltre un costo per lo Stato in termini amministrativi: le energie investite dall’Agenzia delle Entrate per l’analisi e la gestione delle domande di condono hanno impedito infatti di focalizzarsi sulle attività di accertamento fiscale. Condono e illegalità fiscale, che molto spesso si trovano a camminare a braccetto. Con la ripetuta incitazione all’illegalità infatti, che è implicita ad ogni nuovo condono, il fenomeno dell’evasione fiscale non può in alcun modo essere limitato. A soffrirne per i primi i conti pubblici, impossibilitati a far fronte al debito pubblico.

Altra piaga inalienabile, l’evasione: molto spesso c’è chi versa solo la prima rata dell’oblazione, in modo da avviare la pratica, salvo poi sparire. Come a Roma, dove sono circa 6 000 le pratiche pronte e mai ritirate.

Risultato? Continui e sempre più pressanti tagli ai bilanci dello Stato, aumento delle tasse, eliminazione delle agevolazioni fiscali. A rimetterci come sempre le fasce più deboli della popolazione, che necessitano maggiormente dell’assistenza pubblica e sociale da parte del Comune di appartenenza.

A.C.

Confesercenti: crisi, la ripresa non arriva nemmeno nel 2012

Un Pil che fatica a raggiungere il +0,4%, i consumi delle famiglie italiane in caduta libera e l’export che dimezza per il prossimo anno l’attuale +4%. Una radiografia impietosa dell’attuale stato dell’economia italiana quella che emerge dal rapporto Ref-Confesercenti, che non lascia spazio a false speranze nemmeno per il 2012.

Un’economia ferma o quasi, che impone scelte rapide e decise soprattutto sul versante della spesa‘, così si legge nel rapporto stilato da Confesercenti.

La situazione si fa meno allarmante sul piano della disoccupazione, in calo dal 8,2% del 2011 al 7,9% per il 2012, mentre le previsioni sul debito pubblico segnano una diminuzione dal 120,5% del 2011 al 119,8% per il 2012.

I dati restano comunque preoccupanti, mentre i consumi delle famiglie registrano una netta diminuzione dal +0,6% del 2011 al +0,3% previsto per il 2012. La ripresa economica ha infatti tardato a manifestare i suoi effetti sui consumi a seguito dell’aumento dell’inflazione determinato dai rincari nei prezzi delle materie prime. Tale aumento ha ridimensionato il potere d’acquisto del reddito delle famiglie proprio quando il ciclo economico stava invertendo la rotta.

Le famiglie italiane subiscono i contraccolpi della politica fiscale, incrementati dalla manovra Iva da 4 miliardi, che penalizzerà ancor più la spesa dei cittadini. ‘Molte famiglie hanno esaurito l’ammortizzatore rappresentato dal flusso di risparmio, e la crisi ha anche ridimensionato la platea dei soggetti che possono contare sull’aumento del grado di indebitamento per sostenere il tenore di vita. Man mano che le famiglie interiorizzano che le prospettive di medio termine sono poco promettenti, potrebbe anzi verificarsi anche un nuovo aumento della quota di risparmio di natura precauzionale, finalizzata a fronteggiare eventuali shock inattesi sul reddito.’

Un andamento relativamente debole delle esportazioni e la crescente tendenza della domanda interna ad essere soddisfatta attraverso incrementi delle quantità importate hanno poi determinato una diminuzione della competitività dell’economia italiana sul mercato estero.

Alessia Casiraghi

Vade retro, patrimoniale! Ecco perché è una proposta che non ha capo né coda

di Gianni GAMBAROTTA

Non è piaciuta questa storia della patrimoniale praticamente a nessuno. L’idea, come si sa, è stata lanciata una prima volta da Giuliano Amato, lo stesso che quando era al governo fece il prelievo blitz sui conti correnti di tutti gli italiani; poi, la settimana scorsa, è stata ripresa da Walter Veltroni che ne farà (si immagina) uno dei punti di forza della sua prossima campagna elettorale; infine, nei giorni scorsi, ne ha parlato in un’intervista al Corriere della Sera, Pellegrino Capaldo.

La sua proposta è articolata, studiata, approfondita: non per niente il professor Capaldo è una delle più (giustamente) stimate menti giuridiche italiane. Lui parla di tassare gli immobili, visto che circa l’80 per cento degli italiani abita in casa di proprietà. Questi beni, questi mattoni – è il punto di vista di Capaldo – hanno avuto nel corso degli anni una rivalutazione impressionante; talvolta il loro valore è decuplicato. Andiamo allora a colpire questa ricchezza, per certi versi immeritata, caduta dal cielo, così lo stato potrà incassare una cifra vicina agli 800-900 miliardi di euro. Il debito pubblico, ora al 120 per cento del pil, scenderà a quota 80 per cento, permettendo così di reimpostare una politica economica espansiva.

Sono molte le obiezioni che si possono muovere (e sono state mosse) a questo progetto. A parte quelle già dette nella rubrica della settimana scorsa, ce ne sono due che mi pare interessante riprendere e sottolineare. Anzitutto l’impianto che ha in mente Capaldo appare molto complesso per la macchina burocratica italiana. Abbiamo un catasto che non è un modello internazionale di efficienza e veridicità; i valori degli immobili sono spesso casuali, irrealistici. Questa imposta straordinaria rischia di colpire alla cieca, tassando chi già paga e risparmiando (o colpendo marginalmente) furbi e/o fortunati. Non possono essere questi i criteri cui si ricorre per una misura che dovrebbe reimpostare la vita economica di una nazione.

L’altra osservazione è contenuta in un commento di Francesco Giavazzi, editorialista del Corriere della Sera, interpellato sull’argomento dal Foglio di venerdì scorso. Una patrimoniale – non importa se mirata a colpire la ricchezza immobiliare o quella finanziaria – avrebbe comunque un effetto recessivo. “Se la famiglie hanno un certo target di ricchezza e si toglie una parte di questa ricchezza, che cosa faranno? – si chiede GiavazziRicominceranno a risparmiare per raggiungere di nuovo quell’obiettivo di ricchezza che si erano poste. E non bisogna essere keynesiani per sapere che un aumento del tasso di risparmio, determinando un’ulteriore caduta dei consumi, spingerebbe l’economia a scendere a picco“. Risultato: il rapporto debito pubblico rispetto al pil non cambierebbe perché diminuirebbe sì il numeratore (debito) ma anche il denominatore (pil). Dunque tutta l’operazione si rivelerebbe inutile.