Assegno affitto per l’ex coniuge si può scalare dalle tasse?

In caso di separazione o divorzio può essere stabilito un assegno periodico in favore del coniuge economicamente più debole. L’assegno può comprendere o prevedere esclusivamente anche il versamento dell’affitto per l’abitazione in cui vive l’ex coniuge, molti si chiedono qual è il trattamento fiscale riservato a tali importi? Si può ottenere una deduzione o una detrazione, insomma l’assegno affitto per l’ex coniuge si può scalare dalle tasse?

Trattamento fiscale di assegni di mantenimento e assegno affitto per l’ex coniuge

In sede di separazione e divorzio può essere disposto un assegno di mantenimento in favore dei figli e dell’ex coniuge. Generalmente sono indicati nel provvedimento gli importi riferibili all’ex coniuge e quelli di spettanza dei figli. In caso contrario si ritiene che le spettanze siano al 50% tra l’ex coniuge e i figli.

Questa precisazione è doverosa perché l’assegno corrisposto in favore del coniuge deve essere dedotto dal reddito del soggetto che lo versa, lo stesso importo di conseguenza deve essere dichiarato dal soggetto che percepisce il mantenimento e va quindi ad aumentarne la base imponibile. Naturalmente cambiando la base imponibile può anche cambiare lo scaglio Irpef.

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Per i figli questa regola non vige, cioè l’assegno corrisposto ai figli non può essere portato in deduzione. Ricordiamo che il valore della deduzione deve essere scalato dalla base imponibile e di conseguenza la riduce.

Cosa succede però se il giudice dispone che debba essere versato l’affitto all’ex coniuge? Dubbi nei contribuenti insorgono perché generalmente si dispone tale misura quando presso l’ex coniuge sono collocati i figli e abbiamo già visto che per gli assegni versati in favore dei figli non si applicano deduzioni e detrazioni.

Si può fin da ora chiarire che l’assegno per l’affitto versato all’ex coniuge o per conto dell’ex coniuge può essere portato in deduzione, quindi va a ridurre la base imponibile. Deve quindi essere dichiarato nel modello 730/2023 al rigo E22. Come per l’assegno mensile di mantenimento, anche questo deve però essere dichiarato tra le entrate da chi lo riceve, quindi potrà essere tassato a costui. Lo stesso trattamento viene riservato anche alle eventuali spese condominiali pagate per l’abitazione del coniuge che riceve gli importi.

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Separazione e divorzio: dal 1° marzo arriva il rito unico. Sintesi

Con l’entrata in vigore di una parte della legge Cartabia cambia il rito per la separazione e il divorzio che ora viene definito rito unico. Ecco cosa cambia per le coppie che decidono di separare le loro strade.

Dal 1° marzo arriva il rito unico per seprazione e divorzio

Con l’entrata in vigore delle nuove norme, a partire dal 1° marzo 2023 si avrà il rito unico, le nuove regole previste dal decreto legislativo 149 del 2022 si applicano ai giudizi instaurati dopo il 1° marzo mentre per quelli pendenti al 28 febbraio 2023 si continuerà ad applicare il precedente rito. La prima novità riguarda la presentazione della domanda di separazione/divorzio che dovrà essere introdotta con ricorso.

Rito unico per separazione e divorzio: il ricorso

L’introduzione del giudizio cambia in modo radicale al fine di ridurre i tempi del processo. Fin dalla prima introduzione il ricorrente deve indicare i mezzi di prova e i documenti di cui intende avvalersi per dimostrare le proprie tesi (ad esempio nel caso in cui si chieda la separazione per colpa). Nel caso in cui la parte che propone ricorso abbia delle pretese di tipo economico e in ogni caso in presenza di figli è necessario allegare:

  • le dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni;
  • la documentazione attestante la propria condizione patrimoniale (patrimonio mobile e immobile), diritti di godimento su beni immobili, quote societarie;
  • estratti conto di rapporti bancari e finanziari.

Misura necessaria a capire se una parte deve all’altra un contributo economico, assegni in favore dei figli e quantum delle misure da adottare.

In presenza di figli, è necessario allegare anche il piano genitoriale, si tratta di un documento in cui le parti hanno “stabilito” le principali norme per l’esercizio della bigenitorialità, ad esempio visite, collocamento, indicazione degli impegni scolastici ed extra-scolastici dei minori.

Udienza per i provvedimenti urgenti

Se il ricorrente all’interno del ricorso sottolinea la necessità che il giudice adotti provvedimenti urgenti in quanto potrebbe maturare un pregiudizio imminente  e irreparabile, il giudice, dopo aver raccolto sommarie informazioni e quindi aver valutato la fondatezza dei rischi, «adotta con decreto provvisoriamente esecutivo i provvedimenti necessari nell’interesse dei figli». Con lo stesso decreto fissa la prima udienza entro 15 giorni per la modifica, la revoca o la conferma dei provvedimenti adottati.

Rito unico seprazione e divorzio: udienza di comparizione e rimessione

Nel caso in cui non debbano essere adottati provvedimenti urgenti, viene fissata direttamente la prima udienza di comparizione, questa in base al nuovo articolo 473-bis del codice di procedura civile, entro 90 giorni dal deposito del ricorso. Entro 30 giorni dalla data fissata il convenuto può costituirsi in giudizio, le parti possono produrre ulteriori memorie difensive.

Durante l’udienza di comparizione viene effettuato il tentativo di conciliazione, se questo non va a buon fine, il giudice adotta provvedimenti temporanei, ad esempio autorizza le parti a vivere in case separate, dispone il collocamento dei figli, fissa degli assegni, e dispone il rinvio per l’assunzione delle prove, se non è necessario assumere nuove prove si passa alla trattazione orale e alla decisione della causa.

Se invece devono essere assunte nuove prove, fissa l’udienza di rimessione della causa per la decisione.

Le parti potranno:

  • entro 60 giorni dall’udienza depositare precisazioni delle conclusioni con note scritte;
  • nell’arco di 30 giorni dalla data fissata per l’udienza depositare le comparse conclusionali;
  • entro 15 giorni per le memorie di replica.

Entro 60 giorni dall’udienza di rimessione il giudice deve depositare la sentenza. I tempi possono dilatarsi nel caso in cui debbano essere esperite consulenze tecniche d’ufficio.

Ricordiamo che la riforma Cartabia prevede che entro il 2025 debba essere istituito il tribunale unico per le famiglie.

Assegno di mantenimento al coniuge: si conta nel reddito di cittadinanza?

Per ottenere il reddito di cittadinanza uno degli elementi fondamentali è avere un ISEE non superiore a 9.360 euro. L’ammontare del reddito di cittadinanza che effettivamente si può percepire dipende dal reddito ISEE, quindi più è alto e minori sono gli importi che si possono ricevere. Naturalmente una separazione/divorzio va ad incidere sulla situazione economica degli ex coniugi. Molti si chiedono: l’assegno di mantenimento al coniuge si conta nel reddito di cittadinanza?

Come cambia il reddito ISEE in seguito alla separazione/divorzio?

La prima distinzione di fatto è tra separazione e divorzio. La separazione è una situazione transitoria destinata a sfociare in un divorzio oppure in una riconciliazione (cosa rara). Con il provvedimento del giudice che autorizza a vivere separati, di fatto un coniuge lascia l’abitazione coniugale ed esce dal nucleo familiare. Questo è importante perché si determina un nuovo reddito ISEE. In questo caso l’assegno di mantenimento disposto da un coniuge verso l’altro è considerato reddito imponibile e di conseguenza deve essere dichiarato ai fini della dichiarazione ISEE.

Per determinare il reddito ISEE occorre però anche considerare l’affidamento dei figli. Di solito viene disposto l’affidamento congiunto con collocamento presso uno dei genitori. In questo caso i figli rientrano nel nucleo familiare, ai fini ISEE, del genitore presso il quale sono collocati. Per espressa previsione normativa, il mantenimento in favore dei figli disposto a carico di un genitore non rientra nel reddito imponibile del genitore collocatario.

Deriva da ciò che ai fini della determinazione del reddito ISEE si tiene in considerazione solo l’assegno di mantenimento in favore del coniuge, mentre non concorrono gli assegni disposti in favore dei figli. Il parametro però per misurare l’ISEE è il nucleo familiare composto anche dai figli. Da ciò si intuisce che un ex coniuge con figli collocati presso di lui avrà un reddito ISEE più basso rispetto al caso in cui i figli non siano presso di lui collocati.

Chi percepisce l’assegno di mantenimento può ricevere il reddito di cittadinanza?

Dalla premessa fatta si evince il diritto a percepire il reddito di cittadinanza per il coniuge che riceve l’assegno di mantenimento. L’importo del reddito di cittadinanza (che ricordiamo non può essere totalmente prelevato in forma liquida e non può essere usato in modo indiscriminato per tutti gli acquisti)  dipende molto dall’ammontare dell’assegno stesso, dalla titolarità di altri beni che concorrono a determinare il patrimonio, dalla disponibilità del diritto di abitazione sulla casa coniugale.

Naturalmente le disposizioni possono variare con il divorzio che rende definitiva la fine degli effetti civili del matrimonio e in un certo senso cristallizza la situazione. Ad esempio, il coniuge potrebbe chiedere la liquidazione una tantum e quindi rinunciare all’assegno di mantenimento mensile. In questo caso si potrebbe percepire una somma più elevata di reddito di cittadinanza. Il giudice potrebbe anche disporre il mantenimento solo per un periodo limitato di tempo, ciò in relazione all’età dell’ex coniuge e dalle reali possibilità di trovare una collocazione lavorativa adeguata alla formazione. In ogni caso anche in seguito al divorzio il reddito ISEE sarà calcolato tenendo in considerazione anche l’eventuale assegno di mantenimento percepito.

Chi versa il mantenimento può chiedere una revisione del provvedimento se l’ex coniuge percepisce il reddito di cittadinanza?

Provando però a fare il ragionamento a contrario emergono dei particolari interessanti. L’ex coniuge versava un determinato assegno di mantenimento, a un certo punto scopre che il beneficiario ha chiesto e ottenuto il RdC e quindi le sue condizioni economiche sono effettivamente cambiate. Può chiedere la revoca o la riduzione dell’assegno di mantenimento? La situazione è dubbia perché sembra un cane che si morde la coda. Infatti, nel determinare l’ammontare del Reddito di Cittadinanza, gli importi dell’assegno di mantenimento già sono stati considerati. Nel frattempo è però vero che il reddito è comunque aumentato. Il coniuge che versa potrebbe chiedere una riduzione. Spetta poi al Giudice decidere, sulla base di vari fattori da valutare, tra cui anche la temporaneità del Reddito di Cittadinanza, se ridurre gli importi a carico dell’ex coniuge o addirittura liberarlo da tale onere.

Divorzio: ritornare a convivere non sempre interrompe la separazione

Cosa succede se due coniugi separati decidono di convivere nuovamente per ragioni pratiche? Si può ritenere interrotta la separazione e quindi vengono meno i presupposti per il divorzio? A queste domande risponde una recente ordinanza della Corte di Cassazione, la n° 14037 22 ottobre 2020 – 21 maggio 2021 della I sezione civile.

La separazione personale dei coniugi

Coma sappiamo, la legge detta una disciplina generale e astratta quindi che si applica a una situazione ipotetica ( che potrebbe verificarsi o meno) e alla generalità delle persone, le sentenze invece si applicano nel caso concreto, ed esclusivamente ad esso, ma quando le pronunce sono della Corte di Cassazione sono ritenute particolarmente importanti e sono considerate una sorta di linea guida per i casi simili.

Nella generalità dei casi se due coniugi in regime di separazione, anche giudiziale, ricominciano a convivere si intende interrotta la separazione e questa è alla base per il successivo divorzio. Solo con il divorzio vengono meno gli effetti civili dell’unione matrimoniale.

Alla base di questa disciplina c’è l’articolo 157 del codice civile che stabilisce: ”

I coniugi possono di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice, con una espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione.  (c2)   La separazione può essere pronunziata nuovamente soltanto in relazione a fatti e comportamenti intervenuti dopo la riconciliazione.”

Il caso: ritornare a convivere non sempre interrompe i termini della separazione

Nel nostro caso i due coniugi, per ragione di convenienza/opportunità, avevano ripreso la convivenza, ma si trattava esclusivamente di un interesse di tipo materiale, infatti lei era gravemente diabetica e lui aveva manifestato patologie al cuore. Per maggiore comodità di entrambi il marito era tornato nella ex casa familiare in quanto più vicina al luogo di lavoro. Nel frattempo però:

  • aveva continuato a versare alla ex moglie l’assegno mensile stabilito di 500 euro;
  • dormiva sul divano;
  • infine, aveva continuato la frequentazione con la nuova compagna.

La ex moglie invece riteneva che, sebbene non vi fossero rapporti fisici, la loro coppia fosse ricostituita e a base di tale assunto poneva le testimonianze degli amici che avevano partecipato a cene e vacanze della coppia e il fatto che l’assenza di rapporti era dovuta prevalentemente alle condizioni di salute di entrambi. Di conseguenza chiedeva l’improcedibilità della domanda di divorzio (le testimonianze comunque non sono state ammesse).

L’assenza di affectio maritalis ( e di rapporti fisici) rende procedibile la domanda di divorzio

Questi elementi secondo la Corte di Cassazione sono indice di una mancata ricostituzione dell’affectio maritalis, elemento essenziale per interrompere gli effetti della separazione. La Corte rileva che in questo caso non c’è stata la “necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali, caratteristici della vita coniugale” e che tale orientamento è consolidato come si può rinvenire nelle sentenze Cass. 19497/2005; Cass. 19535/2014; Cass. 20323/2019.

In questo caso la convivenza può essere parificata a quella di due amici che si supportano a vicenda in un momento di difficoltà e che non fa quindi sorgere o rivivere diritti.

La sentenza è importante anche perché l’interruzione della separazione, se effettiva, costringe i coniugi che manifestino nuovamente l’intenzione di separarsi a ricominciare nuovamente dall’inizio, come se non fossero mai stati separati e questo potrebbe incidere anche sull’addebito della separazione stessa. Infatti, quando si riprende la procedura è necessario determinare nuovamente quale dei due coniugi ha generato la crisi matrimoniale e potrebbe esservi un ribaltamento totale della situazione (articolo 157 codice civile comma 2). Ciò può avere effetti pratici molto rilevanti perché il coniuge a cui sia addebitata la separazione non ha diritto all’assegno di mantenimento, ma esclusivamente, e in limitati casi, all’assegno alimentare che ha importi molto ridotti.

Divieto di compensazione dell’assegno di mantenimento con altri crediti

Quando due coniugi sono in fase di separazione e poi divorziano è necessario regolare anche i rapporti economici tra marito e moglie e tra ciascun coniuge e i figli. Solitamente al coniuge economicamente più debole, fatte tutte le valutazioni, viene riconosciuto il diritto a percepire un assegno di mantenimento. Viene inoltre fissato un assegno di mantenimento anche in favore dei figli,  da corrispondere, se questi sono minori, al coniuge presso il quale gli stessi sono prevalentemente collocati. In giurisprudenza sul merito si sono formati diversi dubbi interpretativi e tra cui quello inerente il divieto di compensazione dell’assegno di mantenimento con altri crediti. La giurisprudenza costante opta per il divieto di tali operazioni, ma vediamo nel dettaglio le varie ipotesi.

Cosa vuol dire divieto di compensazione dell’assegno di mantenimento con altri crediti?

La prima cosa da chiarire è cosa si intende per compensazione dei crediti. L’articolo 1241 del Codice Civile stabilisce che: Quando due persone sono obbligate l’una verso l’altra, i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti”. Mentre l’articolo 1243 del Codice Civile stabilisce che per applicare la compensazione è necessario che i crediti siano entrambi liquidi ed esigibili. Lo stesso articolo stabilisce che se uno dei due crediti è esigibile, ma non liquido, ma di facile liquidazione si può optare per la compensazione giudiziale.

Quando si parla di divieto di compensazione con altri crediti dell’assegno di mantenimento si è nell’ipotesi in cui il coniuge A (solitamente il marito) è obbligato a versare nei confronti del coniuge B e dei figli l’assegno di mantenimento. A sua volta il coniuge B è debitore nei confronti del coniuge A ( magari perché ha svuotato il conte in comunione e deve restituire la coniuge A la sua quota). A questo punto il coniuge A non versa l’assegno di mantenimento adducendo quale motivazione la compensazione con questi crediti, già riconosciuti dal giudice con sentenza passata in giudicato e quindi esigibili.

In questi casi molti potrebbero propendere con il pensare che tale comportamento sia rispettoso delle normative, in realtà non è così, infatti la giurisprudenza pressoché costante è unanime nell’affermare che sia vigente il divieto di compensazione con altri crediti dell’assegno di mantenimento. Solo per avere un quadro esaustivo ricordiamo che il coniuge a cui è addebitata la separazione/divorzio,  anche se economicamente più debole, non ha diritto all’assegno di mantenimento, ma esclusivamente all’assegno alimentare, inoltre la giurisprudenza recente più volte ha esortato i coniugi ad una maggiore indipendenza economica, invitando quello più debole a cercare un’occupazione rendendo così l’assegno di mantenimento in suo favore temporaneo.

Il divieto di compensazione dell’assegno di mantenimento nel codice penale

La Corte di Cassazione nella sentenza 9553 del 2020 ha stabilito che il soggetto obbligato a versare gli assegni di mantenimento non può opporre il diritto alla compensazione con i crediti da lui vantati nei confronti del titolare di tale diritto, in quanto il mancato versamento integra il reato previsto dall’articolo 570 bis del codice penale. Questo stabilisce che “Le pene previste dall’articolo 570 applicano al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero viola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli”, inserito all’interno del codice penale con l’articolo 2 del D. Lgs. 01/03/2018, n. 21.

Genitore, padre o madre, che vanta un credito può smettere di versare l’assegno di mantenimento ai figli?

In realtà la Corte di Cassazione sul punto è unanime soprattutto per quanto riguarda l’assegno stabilito in favore dei figli, infatti la sentenza 49543/2014 della Corte di Cassazione sottolinea che in realtà lo stato di bisogno per i figli si presume sempre. Già la sentenza 28987 del 2008 definisce l’assegno in favore dei figli “sostanzialmente alimentare”e quindi non compensabile, questa stessa sentenza è alla base della sentenza della Corte di Cassazione 23569 del 18/11/2016.

Sulla stessa linea anche l’ordinanza della Corte di Cassazione 11689/18,  che sottolinea che l’assegno di mantenimento in favore dei figli per il contributo al mantenimento non è disponibile, rinunciabile e, soprattutto, compensabile. Non solo, non è ripetibile. La Corte di Cassazione in un caso specifico ha accettato la richiesta di riduzione dell’assegno di mantenimento nei confronti del figlio per le mutate condizioni economiche. Allo stesso tempo, essendo le somme destinate a un uso immediato per le esigenze primarie, ha stabilito che non ci fosse diritto alle restituzione delle somme già versate in eccedenza e contemporaneamente per le somme ancora non versate si applicava il nuovo dispositivo. (ordinanza 13609 del 2016).

L’ex coniuge che vanta un credito può non versare il mantenimento all’altro coniuge?

Per quanto invece riguarda l’assegno di mantenimento in favore dell’ex coniuge , ci sono state delle titubanze, infatti in alcuni casi l’assegno di mantenimento in suo favore è stato diviso in due parti: una inerente l’obbligo alimentare e l’altra il mantenimento vero e proprio.

L’assegno alimentare in teoria avrebbe la funzione di far fronte alle esigenze primarie nei confronti di un soggetto che versa in stato di bisogno, cioè mangiare, mentre il mantenimento sarebbe diretto a fare in modo che l’ex coniuge possa mantenere lo stesso tenore di vita che aveva in costanza di matrimonio e proprio per questo lo stesso potrebbe essere portato in compensazione.

In particolare la sentenza 6519 del 1996 della Corte di Cassazione civile Sez.III afferma che “Il credito dell’assegno di mantenimento attribuito dal giudice al coniuge separato senza addebito di responsabilità, ai sensi dell’art. 156 c.c., avendo la sua fonte legale nel diritto all’assistenza materiale inerente al vincolo coniugale e non nella incapacità della persona che versa in stato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento, non rientra tra i crediti alimentari per i quali, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1246 comma primo, n. 5 e 447 c.c., non opera la compensazione legale”.

La natura dell’assegno di divorzio

Nella sentenza citata  la ex moglie aveva diritto all’assegno di mantenimento e allo stesso tempo era debitrice dell’ex marito e dichiarava di voler compensare tale suo debito con le somme che l’ex coniuge avrebbe dovuto versarle. In tale caso però non era possibile determinare quale fosse la quota di mantenimento spettante alla ex moglie e quale ai figli e di conseguenza comunque la compensazione non venne applicata, ma questo è stato ritenuto l’unico motivo ostativo.

Dello stesso tenore è la sentenza 9686 del 2020 pronunciata sempre dalla Corte di Cassazione e che afferma: l’assegno di mantenimento al coniuge separato non è qualificabile quale credito alimentare, posta la sua maggior latitudine, in cui è ricompresa la funzione”.

Nel caso in esame l’ex marito non versava l’assegno di divorzio e opponeva in compensazione il pagamento delle rate del mutuo fondiario stipulato insieme all’ex coniuge e la Corte ha sposato tale tesi portando in compensazione di due crediti.  Questa stessa sentenza distingue bene i due assegni, quello in favore del figlio e quello in favore del coniuge e infatti stabilisce che  nei confronti dei figli sipresuppone uno stato di bisogno strutturale proprio perché riferito a soggetti carenti di autonomia economica e come tali titolari di un diritto al sostentamento”.

In sintesi, non è possibile la compensazione tra assegno di mantenimento e crediti vantati se l’assegno è in favore dei figli, mentre se è in favore dell’ex coniuge, è necessario valutare di volta in volta la singola situazione, ma la compensazione non è esclusa perché l’assegno di mantenimento in suo favore non rientra nel credito alimentare.

TFR e divorzio: quando l’ex coniuge ha diritto a una quota?

Il TFR, o liquidazione, è l’agognato Trattamento di Fine Rapporto molto agognato dai lavoratori e versato al termine del rapporto di lavoro, anche se può ora essere liquidato in busta paga su scelta del lavoratore. Ciò che molti non sanno è che ci sono diversi casi in cui in seguito a divorzio è comunque necessario versare una quota di TFR all’ex coniuge. Ecco i casi.

TFR e divorzio: la normativa vigente

Il Trattamento di Fine Rapporto, o liquidazione, costituisce una quota differita dello stipendio e il lavoratore la incassa al termine del rapporto stesso, sia in caso di licenziamento, sia in caso di pensionamento. L’articolo 12 bis della legge 898 del 1970, inserito nel 1987, prevede che “il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’articolo 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza.        Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.”

La ratio della disciplina è riconoscere al soggetto economicamente più debole, che storicamente è la donna, una sorta di ricompensa o risarcimento per l’impegno solitamente profuso nell’accudimento della famiglia.

Requisiti per ottenere la quota di TFR

Il diritto del coniuge a percepire una quota del TFR nasce solo se la liquidazione si riscuote dopo il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio. Emerge dall’articolo 12 bis che, affinché maturi il diritto per l’ex coniuge di percepire il TFR, è necessario in primo luogo che non sia passato a nuove nozze e in secondo luogo che percepisca un assegno di mantenimento periodico, solitamente la periodicità è mensile.

A tale proposito capita spesso che il coniuge, che in teoria avrebbe diritto a percepire l’assegno di mantenimento, preferisca una liquidazione una tantum al momento del divorzio stesso, in questo caso non vi è il diritto a percepire una quota di TFR. Un’altra piccola nota da sottolineare è che si fa riferimento solo alle nuove nozze del coniuge che avrebbe diritto a percepire il TFR, mentre non rileva il fatto che sia passato a nuove nozze il lavoratore. Inoltre non maturano il diritto al TFR i figli. Una piccola nota a questo punto è necessaria: sempre più spesso il giudice in sede di divorzio riconosce il diritto all’assegno di mantenimento per il coniuge economicamente più debole solo per brevi periodi, esortandolo quindi ad affrancarsi economicamente dall’ex coniuge, ciò incide sul diritto alla quota di TFR.

A quanto ammonta la quota di TFR per il coniuge divorziato

La quota di liquidazione spettante all’ex coniuge è del 40%, da calcolare però esclusivamente sull’ammontare maturato nel periodo in cui la coppia era ancora unita in matrimonio, comprendendo però anche la fase di separazione. Di conseguenza non basta la separazione di fatto, né giudiziale per far cessare il diritto di maturare la propria quota di TFR. Questo implica che, se anche il TFR viene percepito molti anni dopo la cessazione del matrimonio, l’ex coniuge comunque partecipa, ma solo per la quota maturata nel periodo del matrimonio stesso. Si tratta quindi di un assegno che spesso è di piccolo importo, soprattutto se il matrimonio è stato di breve durata.

Va sottolineato che l’ex coniuge non ha diritto a percepire una quota di TFR se lo stesso è oggetto di liquidazione prima della cessazione degli effetti civili del matrimonio, di conseguenza se il coniuge A riscuote il TFR nel periodo della separazione, il coniuge B non può poi pretendere le somme. Lo stesso principio si applica se si riscuote il TFR ancor prima della separazione giudiziale. Nel caso in cui la liquidazione del TFR avvenga nel periodo della separazione giudiziale, prima del divorzio, il coniuge nella fase di divorzio può chiedere che l’assegno di mantenimento sia adeguato alle nuove somme riscosse o che gli sia liquidata una quota.

Anticipi di TFR e divorzio

Un’altra questione che ha creato dubbi interpretativi riguarda il caso in cui il lavoratore abbia chiesto nel corso del rapporto di lavoro degli anticipi del TFR (ricordiamo che i casi in cui si può ottenere l’anticipo sono limitati, ad esempio per l’acquisto dell’abitazione o per spese sanitarie). La giurisprudenza in questo caso ha stabilito che su tali somme l’ex coniuge non può vantare diritti, quindi il calcolo di quanto gli spetterebbe si effettua esclusivamente sulle somme effettivamente percepite al momento della cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni/pensionamento. Questa interpretazione è univoca nel caso in cui l’anticipio sia chiesto in costanza di matrimonio, se invece l’anticipo si ottiene dopo il divorzio, l’ex coniuge potrebbe vantare diritti anche su tali quote, infatti la giurisprudenza nel tempo non ha mostrato costanza nel dirimere la questione.

TFR e divorzio: cosa succede se il lavoratore muore prima di riscuoterlo

Si ricorda che il TFR non va perduto in caso di morte del lavoratore, bene, anche in questo caso l’ex coniuge ha diritto ad ottenere la sua quota dello stesso, ciò anche in concorrenza con l’attuale coniuge che eredite la rimanente parte. Inoltre per l’ex coniuge titolare dell’assegno di mantenimento, è previsto che vi sia anche il diritto alla pensione di reversibilità anche in concorrenza con il coniuge attuale. E’ bene rammentare che in caso di morte il TFR si divide tra figli e coniuge e in alcuni casi parenti entro il terzo grado, ciò anche se gli stessi non abbiano accettato l’eredità (art 2122 del codice civile).

L’ex coniuge come può ottenere il TFR?

Sia chiaro, nel momento in cui il datore di lavoro liquida il TFR al lavoratore, è estraneo ai rapporti di coniugio ed ex coniugio e di conseguenza semplicemente liquida il Trattamento di Fine Rapporto al lavoratore. E’ altrettanto vero che, nella maggior parte dei casi, nessun lavoratore una volta ottenute le somme, chiama l’ex coniuge per avvertirlo dell’avvenuto incasso e liquidargli le somme che gli spetterebbero. L’ex coniuge per riuscire a intascare la somma deve di conseguenza proporre un’istanza, o meglio un ricorso al tribunale con il quale si richiede di disporre il versamento in suo favore della quota di TFR spettante. Il tribunale con sentenza ordinerà al datore di lavoro e/o all’ente previdenziale di erogare le quote in favore dell’ex coniuge.

Questa procedura si può fare se l’ex coniuge non abbia riscosso le somme, invece è diverso il caso in cui questi abbia riscosso le somme senza che l’ex coniuge ne abbia avuto conoscenza e non abbia quindi avuto la possibilità di proporre ricorso o fare istanza per l’ottenimento della propria quota. In tal caso il proponente deve chiedere il sequestro conservativo delle somme già riscosse dal lavoratore. Una volta accertate dal tribunale le somme dovute, se il lavoratore non provvede a liquidare le somme volontariamente, sarà  messa in atto la procedura esecutiva sulle stesse.

L’addebito della separazione

Con ordinanza n. 4540 del 24 febbraio 2011, i Giudici della Corte Cassazione affermavano che in presenza di “giusta causa” nell’allontanamento dalla casa coniugale di uno dei coniugi, non vi fossero i presupposti per l’addebito della separazione.

Si ritiene che tale comportamento, non costituisse di per sé motivo di addebito, essendo invece necessario verificare se esso fosse l’effetto dell’intollerabilità del rapporto oppure la causa.

Così il giudice, caso per caso, era chiamato ad effettuare una valutazione la quale lasciava un ampio margine di discrezionalità in ordine all’eventuale “scriminante” per il coniuge allontanatosi.

Ad esempio, si è ritenuto ricompreso nel concetto di “giusta causa”, il coniuge che si allontana a seguito di una stabile relazione extraconiugale dell’altro o il coniuge che subisce ripetuti atti di violenza dall’altro.

La questione va pertanto esaminata sotto il profilo dell’ampiezza delle scriminanti in presenza delle quali, un comportamento di per sé illegittimo e motivo di addebito della separazione, viene considerato legittimo.

Ciò premesso, appare evidente che se di scriminanti si tratta, debba farsi riferimento ad un principio generale affermato dalla normativa e ribadito più volte dalla Giurisprudenza; e cioè che l’allontanamento dalla residenza familiare, ove attuato unilateralmente dal coniuge, e cioè senza il consenso dell’altro coniuge, di per sé costituisce violazione di un obbligo matrimoniale e conseguentemente causa di addebito della separazione poiché porta all’impossibilità della coabitazione, obbligo e presupposto stesso di un rapporto matrimoniale.

Si è sostenuto in Giurisprudenza che se la frattura del rapporto coniugale è precedente all’allontanamento dall’abitazione, della quale pertanto non poteva essere stato causa, l’addebitabilità della separazione al coniuge che si allontani deve essere esclusa senza necessità di verificare ulteriormente se il comportamento dell’altro coniuge costituisca violazione dei suoi doveri coniugali.

A parere del sottoscritto il criterio sopracitato è troppo generico e soprattutto rimesso a valutazioni soggettive che prestano il fianco ad un ampissimo margine di discrezionalità da parte dei giudici di merito, con il rischio attuale di valutazioni difformi da tribunale a tribunale in ordine a situazioni pressoché identiche.

Ritengo che sia necessario un quid pluris affinché un comportamento codificato come “illegittimo” e fonte di conseguenze giuridiche rilevanti anche sotto il profilo patrimoniale (addebito della separazione), possa ritenersi ammissibile e giustificato.

Si tratta quindi di valutare con il massimo rigore possibile le situazioni in presenza delle quali l’allontanamento unilateralmente determinato dall’abitazione coniugale possa ritenersi giustificato.

In particolare, incomberà sul coniuge che si è allontanato l’onere della prova circa l’esistenza di quel giustificato motivo che, rendendo oggettivamente intollerabile il protrarsi della convivenza, ha legittimato il comportamento.

La Cassazione Civile con sentenza numero 2059 del 14.02.2012  ha stabilito che l’abbandono del tetto coniugale prima della domanda di separazione e senza una valida ragione fa scattare automaticamente l’addebito. A maggior ragione se il coniuge che ha reciso la coabitazione lo ha fatto per intraprendere una convivenza more uxorio. Infatti, il coniuge, il quale provi che l’altro ha volontariamente e definitivamente abbandonato la residenza familiare senza aver proposto domanda di separazione personale, non deve ulteriormente provare l’incidenza causale di quel comportamento illecito sulla crisi del matrimonio, implicando esso la cessazione della convivenza e degli obblighi ad essa connaturati, e gravando sull’altra parte l’onere di offrire la prova contraria, che quel comportamento fosse giustificato dalla preesistenza di una situazione d’intollerabilità della coabitazione, nonostante l’assenza della giusta causa prevista dall’art. 146 cpv. c.c..

Ovviamente, in presenza di accordo tra le parti o nel caso in cui la parte o le parti abbiano proceduto al deposito di un ricorso per separazione, l’allontanamento dalla casa coniugale non rappresenta motivo di addebito della separazione.

In problema si pone pertanto solo con riferimento alla valutazione del comportamento del coniuge che si allontana adducendo l’esistenza di situazioni talmente gravi da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza e non una generica e non motivata “intollerabilità”.

Avv. Matteo SANTINI | m.santini[at]infoiva.it | www.studiolegalesantini.com | Roma

È titolare dello Studio Legale Santini (sede di Roma). Il suo Studio è attualmente membro del Network LEGAL 500. || È iscritto come Curatore Fallimentare presso il Tribunale di Roma; Presidente Nazionale del Centro Studi e Ricerche sul Diritto della Famiglia e dei Minori; Membro dell’AGIT (associazione avvocati Giusconsumeristi); Consigliere Nazionale AGIT (associazione avvocati Giusconsumeristi); Responsabile per la Regione Lazio dell’Associazione Avvocati Cristiani; Membro dell’I.B.A. (International Bar Association); Membro della Commissione Osservatorio Giustizia dell’Ordine degli Avvocati di Roma; Segretario dell’Associazione degli Avvocati Romani; Conciliatore Societario abilitato ai sensi del Decreto Legislativo n. 5/2003; Direttore del “Notiziario Scientifico di Diritto di Famiglia”; Membro del Comitato Scientifico dell’ A.N.A.C. || Autore del Manuale sul trasferimento dell’Azienda edito dalla Giuffré (2006); Co-autore del Manuale sul Private Equity (2009 Edizione Le Fonti). || Docente di diritto e procedura penale al Corso in Scienze Psicologiche e Analisi delle Condotte Criminali (Federazione Polizia di Stato 2005). || Collabora in qualità di autore di pubblicazioni scientifiche con le seguenti riviste giuridiche: Diritto & Giustizia (Giuffré Editore); Corriere La Tribuna (Edizioni RCS); Notiziario Giuridico Telematico; Giustizia Oggi; Associazione Romana Studi Giuridici; Il Sole 24 Ore; Studium Fori; Filo Diritto; Erga Omnes; Iussit; Leggi Web; Diritto.net; Ius on Demand; Overlex; Altalex; Ergaomnes; Civile.it; Diritto in Rete; Diritto sul Web; Iusseek.

La casa coniugale (assegnazione in caso di separazione e divorzio)


di Matteo SANTINI

La casa coniugale o casa familiare è quel luogo fisicamente individuato (di norma corrispondente ad un appartamento) all’interno del quale i coniugi (o i conviventi more uxorio) svolgono la maggior parte della vita di coppia . Il diritto dell’assegnatario di un’abitazione già adibita a casa coniugale, si configura come un atipico diritto personale di godimento, trascrivibile e opponibile a terzi ai sensi dell’articolo 2643 del codice civile.

Con riferimento all’assegnazione della casa coniugale in caso di separazione o divorzio il nuovo testo dell’articolo 155-quater. del codice civile dispone che il godimento della casa familiare sia attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli.

La norma contempla esclusivamente il criterio d’elezione che deve ispirare l’organo giudicante al momento dell’emissione del provvedimento di assegnazione ma non indica quali sono i criteri secondari sulla base dei quali deve essere orientata la scelta in caso di assenza di prole. Tale omissione, forse scientemente voluta dal legislatore, lascia ovviamente alle Corti di merito un vasto margine di discrezionalità relativamente all’assegnazione della casa coniugale.

E’ opportuno rilevare come la lettera dell’articolo 155 quater del codice civile in riferimento all’assegnazione della casa coniugale, consideri come elemento non esclusivo ma solo prioritario per effettuare la scelta, l’interesse dei figli. Questo significa che pur essendovi un criterio di “scelta”, tuttavia, il Giudice non è obbligato a disporre l’assegnazione al coniuge economicamente più debole (che non vanti sulla stessa diritti reali o di godimento), neanche se ad egli siano affidati figli minori o con lui convivano figli maggiorenni non ancora economicamente autosufficienti, qualora l’equilibrio delle condizioni economiche dei coniugi e la tutela di quello più debole possano essere perseguiti altrimenti. (Con sentenza n. 9071 del 21.06.2001 la S.C. ha cassato una sentenza che aveva sostenuto la decisione unicamente sulla necessità di garantire l’esigenza del figlio maggiorenne, incolpevolmente non autosufficiente, a permanere nell’abitazione originaria, insieme con il padre non proprietario della casa).

Ancora la Corte di Cassazione con sentenza n. 376 del 15.01.1999 ha stabilito che non esiste alcun obbligo a carico del Giudice di assegnare la casa coniugale al coniuge economicamente più debole, neanche se a lui siano affidati figli minori o con lui convivano figli maggiorenni non ancora economicamente autosufficienti, qualora l’equilibrio delle condizioni economiche dei coniugi e la tutela di quello più debole possano essere perseguiti altrimenti (Cass. Civ. n. 376 del 15.01.1999).

In quest’ultimo caso la Corte (pur sotto la vigenza della vecchia normativa), si è spinta sino ad escludere qualsiasi riferimento all’interesse dei figli in ordine all’assegnazione della casa coniugale ponendo l’accento esclusivamente sul diritto di proprietà e sulle condizioni economiche delle parti e sulla tutela del coniuge debole.

Il corollario del suddetto principio è rappresentato dall’obbligo da parte del giudice di indicare, valutare e motivare le ragioni che, nell’esclusivo interesse della prole, lo inducano ad assegnare la casa familiare al coniuge con il quale la prole conviva, e tale obbligo assume sempre maggiore rigore, via via che aumenti l’età della prole, riducendosi con il passare degli anni la necessità di conservazione dell’ambiente familiare (Cass. Civ. n. 10797 del 29 ottobre 1998). Tale obbligo di motivazione assume infatti dimensioni di sempre maggiore puntualità ed aderenza alla fattispecie concreta, con l’aumentare l’età della prole, riducendosi con il passare degli anni la necessità di tale conservazione dell’habitat, con attenuazione del disagio psichico e materiale che si accompagna al mutamento dell’abitazione.

Solo qualora vi sia una situazione di cointestazione dell’immobile e non vi siano figli minori o maggiorenni conviventi, la valutazione delle condizioni economiche dei coniugi sarà presupposto prioritario ai fini dell’assegnazione della casa coniugale.

Cosi la Corte di Cassazione in sentenza n. 2070 del 23.02.2000: “Nell’ipotesi in cui la casa familiare appartenga ad entrambi i coniugi, manchino figli minorenni o figli maggiorenni non autosufficienti conviventi con uno dei genitori, ed entrambi i coniugi rivendichino il godimento esclusivo della casa coniugale, l’esercizio del potere discrezionale del giudice non può trovare altra giustificazione se non quella di, in presenza di una sostanziale parità di diritti, favorire quello dei coniugi che non abbia adeguati redditi propri, al fine di consentirgli la conservazione di un tenore di vita corrispondente a quello di cui godeva in costanza di matrimonio: da ciò consegue che, laddove entrambi i coniugi comproprietari della casa familiare abbiano adeguati redditi propri, il giudice dovrà respingere le domande contrapposte di assegnazione del godimento esclusivo, lasciandone la disciplina agli accordi tra i comproprietari, i quali, ove non riescano a raggiungere un ragionevole assetto dei propri interessi, restano liberi di chiedere la divisione dell’immobile e lo scioglimento della comunione. Ne consegue anche che, venuta meno la situazione che giustificava la temporanea compressione del diritto di comproprietà dell’ex coniuge non assegnatario, questi non può per ciò solo vantare alcun diritto al godimento esclusivo dell’abitazione della quale è mero comproprietario ma deve, in mancanza di accordo con l’ex coniuge assegnatario, proporre una domanda di divisione per lo scioglimento della comunione“.

Ciò sta a significare che l’assegnazione della casa coniugale cointestata, in presenza di un disequilibrio economico tra le parti, avrà come fine quello di riequilibrare le rispettive posizioni economiche, ma nel caso in cui non vi sia un coniuge economicamente più debole, e non vi siano figli minorenni o maggiorenni conviventi, non esisterà alcun criterio per poter disporre l’assegnazione ad un coniuge piuttosto che ad un altro e questo perché non vi è alcuna prevalenza di un diritto dell’uno su quello dell’altro bensì una condizione di esatta equivalenza tra i diritti in questione; entrambi i coniugi infatti risultano titolari di un diritto costituzionalmente garantito quale il diritto di proprietà e nessuno dei due si trova in una situazione di svantaggio economico tale da determinare in capo al soggetto più debole il sorgere di un diritto al mantenimento.

In modo difforme si è invece espressa la Suprema Corte con sentenza n. 11696/2001 affermando che in materia di divorzio, l’assegnazione della casa coniugale è finalizzata esclusivamente alla protezione della prole, e non è prevista in funzione della debolezza economica di uno dei coniugi, alle cui esigenze è destinato l’assegno divorzile. Ne consegue che il giudice non potrebbe, in assenza di figli conviventi, assegnare la casa coniugale, della quale i coniugi siano comproprietari, a quello fra i due che ritenga economicamente più debole, onde sopperire a tale squilibrio.

A parere di chi scrive, questo criterio deve ad oggi essere considerato come completamento superato in virtù del nuovo testo dell’articolo 155 del codice civile il quale ribadisce espressamente che il criterio prioritario per disporre l’assegnazione è quello della tutela della prole; il che significa che accanto ad un criterio “prioritario” ben possono coesistere altri criteri da adottare in via subordinata specie quando non vi sono figli minori o maggiorenni conviventi.

Questo sta a significare che ai fini dell’assegnazione della casa sulla quale entrambi i coniugi vantino diritti di proprietà, il giudice potrà anche tenere conto delle condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione a favorire il coniuge più debole, ed in caso di assenza di figli minori o conviventi potrà valutare anche le ulteriori finalità volte a consentire un certo equilibrio tra le condizioni economiche dei coniugi ed al tempo stesso ad assicurare una soluzione sostanzialmente equa, in quanto correlata alle ragioni della decisione, nonché a favorire il coniuge più debole.
Tuttavia, come opportunamente osservato dalla Corte di Cassazione (12428/1991) il giudice non può disporre l’assegnazione a favore del soggetto non titolare del diritto di proprietà o godimento, ove questi non abbia la qualità di assegnatario di figli minori o di convivente con i figli maggiori (non autonomi), atteso che la norma citata, di natura eccezionale, si fonda essenzialmente sulla necessità di conservare l’habitat domestico (inteso come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita della famiglia). Come testé affermato qualora il Giudice nulla disponga in ordine all’assegnazione, l’utilizzo della casa coniugale spetterà automaticamente ed esclusivamente al coniuge esclusivo proprietario.

Avv. Matteo SANTINI | m.santini[at]infoiva.it | www.studiolegalesantini.com | Roma

È titolare dello Studio Legale Santini (sede di Roma). Il suo Studio è attualmente membro del Network LEGAL 500. || È iscritto come Curatore Fallimentare presso il Tribunale di Roma; Presidente Nazionale del Centro Studi e Ricerche sul Diritto della Famiglia e dei Minori; Membro dell’AGIT (associazione avvocati Giusconsumeristi); Consigliere Nazionale AGIT (associazione avvocati Giusconsumeristi); Responsabile per la Regione Lazio dell’Associazione Avvocati Cristiani; Membro dell’I.B.A. (International Bar Association); Membro della Commissione Osservatorio Giustizia dell’Ordine degli Avvocati di Roma; Segretario dell’Associazione degli Avvocati Romani; Conciliatore Societario abilitato ai sensi del Decreto Legislativo n. 5/2003; Direttore del “Notiziario Scientifico di Diritto di Famiglia”; Membro del Comitato Scientifico dell’ A.N.A.C. || Autore del Manuale sul trasferimento dell’Azienda edito dalla Giuffré (2006); Co-autore del Manuale sul Private Equity (2009 Edizione Le Fonti). || Docente di diritto e procedura penale al Corso in Scienze Psicologiche e Analisi delle Condotte Criminali (Federazione Polizia di Stato 2005). || Collabora in qualità di autore di pubblicazioni scientifiche con le seguenti riviste giuridiche: Diritto & Giustizia (Giuffré Editore); Corriere La Tribuna (Edizioni RCS); Notiziario Giuridico Telematico; Giustizia Oggi; Associazione Romana Studi Giuridici; Il Sole 24 Ore; Studium Fori; Filo Diritto; Erga Omnes; Iussit; Leggi Web; Diritto.net; Ius on Demand; Overlex; Altalex; Ergaomnes; Civile.it; Diritto in Rete; Diritto sul Web; Iusseek.