Fallimenti in calo nel secondo trimestre 2017

Le imprese, nonostante ancora si stiano leccando le ferite a causa dei postumi della crisi, forse finalmente stanno rialzando la testa, almeno quando si tratta di fallimenti.

Tra aprile e giugno, infatti, sembra che i fallimenti siano sensibilmente calati, registrando dati inferiori rispetto allo stesso periodo del 2016. I dati ufficiali riportati da Unioncamere-Infocamere rendono noto che in questo trimestre sono fallite 3.008 imprese, contro le 3.537 dell’anno scorso, riferendoci ovviamente al medesimo periodo.

Tradotta in percentuale, si tratta di una diminuzione del 15%, confermando, e migliorando nettamente la performance dello scorso anno, quando il calo era stato del 3% rispetto al 2015.
E’ chiaro che, rispetto al tessuto, spesso, dell’imprenditoria italiana, si tratta di dati relativamente ridotti, ma rimane comunque un passo avanti da cui partire con ottimismo.

Dal punto di vista territoriale, la riduzione del flusso dei nuovi fallimenti è stata più consistente nel Nord Est, con un calo del 16,8% rispetto al secondo trimestre 2016, ma anche nelle regioni del Sud, dove il calo è del 16,5%.
Calo di apertura di procedure fallimentari anche nel Nord Ovest, anche se contenute al 14,7%, e al Centro, stavolta solo del 12,2%.

Vera MORETTI

Segnali positivi dai pagamenti alle imprese

Ci sono diversi fattori che possono essere presi in considerazione per capire se l’aria della crisi si è fatta meno pesante. Uno di questi riguarda i pagamenti verso le imprese e i numeri delle società protestate.

Secondo l’Osservatorio Cerved sui Protesti e Pagamenti delle imprese italiane, lo scorso anno si è registrato un numero di società protestate minore rispetto ai livelli pre-crisi del 2007 e i tempi medi di liquidazione delle fatture si sono abbassati ai livelli del 2012.

Secondo l’Osservatorio, nel 2015 sono state protestate in Italia 28mila società non individuali, un numero inferiore a quello del 2007 e minore del 19% rispetto a quello del 2014. Sul fronte dei pagamenti, i tempi di attesa dei fornitori per il saldo delle fatture sono stati di circa 76 giorni, contro gli 81 del 2012. Calo anche per i termini concordati in fattura e i ritardi.

L’Osservatorio ha anche rilevato che i dati dei protesti e dei pagamenti relativi al 2015 sono risultati in miglioramento un po’ in tutta Italia, anche se il Sud continua a scontare tempi ancora troppo dilatati per i pagamenti. Allo stesso modo, settori come la produzione e la distribuzione di beni di largo consumo non hanno beneficiato di un miglioramento sensibile.

Interessante il commento di Gianandrea De Bernardis, Amministratore Delegato di Cerved: “Dopo i cali registrati nel numero di chiusure aziendali e liquidazioni volontarie, le rilevazioni su protesti e tempi dei pagamenti confermano che il 2015 è stato un anno positivo per le imprese italiane. Per il nostro tessuto economico non si è trattato di un percorso indolore: le aziende più fragili sono uscite dal mercato e i fornitori sono diventati più cauti nel concedere credito commerciale. La conseguenza è un sistema che esce dalla crisi con meno imprese ma più virtuose, che pagano i fornitori con maggiore regolarità”.

Frenano i fallimenti nel 2015

I segnali che arrivano e che parlano di una lenta e progressiva uscita dalla crisi economica sono tanti e uno di essi riguarda le cessazioni di attività e i fallimenti. I dati su questi importanti indicatori economici sono stati diffusi nei giorni scorsi da Cerved, società che valuta la solvibilità e il merito creditizio delle aziende.

Secondo i dati Cerved, negli ultimi 3 mesi del 2015 i fallimenti hanno interessato 15mila imprese, mentre nel terzo trimestre dell’anno i fallimenti hanno interessato altre 15mila aziende.

Quest’ultimo dato sui fallimenti dimostra un calo del 10% rispetto allo stesso periodo del 2014, soprattutto in virtù della flessione delle liquidazioni volontarie, calate dell’11,1%, a 12.200, nel terzo trimestre e del 9,1% dall’inizio dell’anno (41mila unità).

Sul fronte delle procedure fallimentari l’Osservatorio Cerved segnala un -4,5% nei primi nove mesi del 2015 (per un totale di 10.600 procedure) e nel solo terzo trimestre i fallimenti sono cresciuti dello 0,7% a quota 3mila.

Nel terzo trimestre 2015 le procedure non fallimentari aperte sono state 448, contro le 696 dello stesso periodo del 2014: -35%. In tutto, le insolvenze non fallimentari aperte nei primi nove mesi dell’anno in corso sono state 1.823, con un significativo calo del 16,8%. Se dalla frenata dei fallimenti, anche se contenuta, si può guardare con più fiducia al futuro, siamo sulla strada giusta.

Confcommercio: più iscrizioni nei primi 9 mesi dell’anno

Un’altra piccola goccia di ottimismo nel mare ancora poco mosso della ripresa arriva da un’analisi di Confcommercio, secondo la quale le nuove iscrizioni dell’Area Confcommercio sono aumentate dell’1,6% nei primi nove mesi del 2015 e quelle del commercio al dettaglio dell’1,7%.

Le cifre sono figlie di un andamento che, secondo Confcommercio, ha visto nel confronto tra il saldo aperture-chiusure nei primi 9 mesi del 2015 e quello dello stesso periodo del 2014 un calo generalizzato del fenomeno, con iscrizioni in aumento e le cancellazioni in diminuzione in quasi tutti i settori produttivi.

Purtroppo però, sottolinea Confcommercio, il numero delle chiusure supera ancora quello delle aperture, a testimonianza del fatto che di ripresa, anche se piccola, ancora non si può certo parlare. Gli strascichi pesanti della crisi continuano a farsi sentire, soprattutto nei confronti delle imprese meno strutturate e attrezzate per sopportare i colpi di una prolungata recessione.

L’analisi dell’Ufficio Studi Confcommercio sui dati della nati-mortalità delle imprese nei primi nove mesi del 2015 sottolinea infatti che il saldo complessivo dell’Area Confcommercio (che comprende imprese operanti nei settori di commercio, turismo, servizi alle imprese e alle persone, trasporti e logistica) è stato negativo per 41mila 300 imprese, contro il -49mila imprese dello stesso periodo del 2014.

Dati che vanno comunque presi con le pinze e ponderati bene. “È ancora poco e troppo presto per affermare che la ripresa si stia diffondendo a tutte le unità produttive – commenta infatti Confcommercio -, ma è un segnale che va colto e rafforzato con politiche fiscali distensive anche più coraggiose di quelle che la legge di stabilità 2016 sembra mettere in campo. La cautela è d’obbligo anche in virtù delle ipotesi che circolano in questi giorni di assegnare agli enti locali la facoltà di accrescere le aliquote legali sugli immobili diversi dall’abitazione principale, eventualità che depotenzierebbe la portata dei già modesti tagli fiscali prospettati per il 2016”.

Crisi economica alle spalle? Le Pmi ci credono

I dati su Pil e occupazione diffusi nei giorni scorsi dall’Istat hanno alimentato facili entusiasmi che hanno portato molti a pensare che, oltre ad esserci messi il peggio alle spalle, la crisi economica stia ormai per finire. In realtà, il termometro vero per capire a che punto è questa crisi economica, oltre alla propensione delle famiglie ai consumi, sono le imprese, chi produce, chi con la crisi sta facendo i conti da otto anni, cercando di sopravvivere.

Ebbene, da questo lato arrivano segnali incoraggianti. Secondo una ricerca dell’Osservatorio Congiunturale di Fondazione Impresa, una buona parte di piccole imprese italiane sostiene che la crisi economica sia finita.

Secondo la ricerca, nel primo semestre 2015, il 35,9% delle piccole imprese italiane – al di sotto dei 20 addetti – sostiene di aver superato la crisi economica. Una quota che aumenta tra le piccole imprese manifatturiere e tra quelle dei servizi: il 46,7% del manifatturiero dichiara infatti di “essere fuori dal tunnel” contro il 39,4% di quelle che operano nei servizi.

Meno ottimiste che operano nel settore del commercio e quelle dell’artigianato: il 22,3% delle prime dichiara di essere uscito dalla crisi economica, contro il 25,8% delle seconde. Segno che questi due settori, che hanno sofferto più di altri i morsi della crisi, faticano a riprendersi in maniera completa.

Le imprese che dichiarano di essersi lasciate alle spalle la crisi economica sono quelle che, probabilmente, potranno pensare di tornare a investire dopo che, negli ultimi anni, hanno di fatto adottato una strategia conservativa per difendere le proprie quote di mercato anziché cercare di ritagliarsene di nuove.

Secondo le rilevazioni dell’Istat, infatti, ben il 70,5% delle imprese ha scelto di mantenere le proprie quote tra il 2011 e il 2012, negli anni più bui della crisi economica. Una percentuale di aziende trasversale a tutti i settori economici e di ogni dimensione.

Del resto, già il fatto che l’indagine dell’Osservatorio Congiunturale di Fondazione Impresa abbia avuto un campione sul quale insistere è importante, perché si tratta di imprese che hanno resistito alla crisi economica a differenza delle oltre 82mila fallite tra il 2008 e il 2014, secondo dati Cerved. Una mattanza che ha lasciato sul campo oltre un milione di posti di lavoro.

Imprese italiane in lenta ripresa

I dati che vengono diffusi dai vari istituti sullo stato di salute delle imprese italiane sono spesso contradditori. Prendiamo, per esempio, i dati Cerved che riguardano i fallimenti e i bilanci delle imprese italiane nel 2014. I primi sono inquietanti, i secondi beneauguranti. Possibile? Sì, vediamo perché.

Secondo l’Osservatorio Cerved, il numero di imprese italiane fallite lo scorso anno è stato di ben: 15mila, ossia il +10,7% rispetto all’anno precedente e il risultato peggiore da oltre dieci anni. I bilanci delle imprese italiane, invece, nel 2014 sono migliorati, arrivando al 6,5% del patrimonio netto, dal 5,7% del 2013, mentre sono calati del 4,5% i debiti finanziari.

Il contesto economico ancora debole ha fatto sì che, nel 2014, l’andamento delle vendite e dei ricavi delle imprese italiane siano cresciuti solo dell’1% sul 2013. Ma da un’analisi dei 133mila bilanci depositati entro giugno 2015, Cerved ha rilevato che le imprese italiane sono riuscite a migliorare la propria redditività, contenendo i costi e aumentando la produttività.

In sostanza, il numero delle aziende italiane che hanno chiuso il bilancio in rosso è sceso nel 2014 del 27,7%: 25 società su 100. Con un incremento generale degli indici di redditività netta.

Rispetto al periodo pre-crisi, le imprese italiane sono comunque meno redditizie ma, secondo Cerved, le società analizzate nel rapporto hanno debiti più sostenibili. Nel 2014 i debiti finanziari si sono contratti (-4,5% dopo il -6% del 2013), con gli imprenditori che hanno fatto maggiormente ricorso a mezzi propri per finanziare le aziende, con il capitale netto su del 4,2% rispetto al 2013 e un incremento complessivo rispetto ai livelli pre-crisi del +51,3%.

Sul versante dei fallimenti, la situazione delle imprese italiane è in miglioramento. I dati raccolti da Cribis D&B, a giugno 2015 risultano 808 casi in meno rispetto a giugno 2014. Nei primi sei mesi del 2015 sono fallite mediamente 53 imprese al giorno, un dato da non sottovalutare ma che è comunque in calo rispetto alla crescita costante e continua che si registrava dal 2009.

Fallimenti in calo. La volta buona?

Un altro segnale per quanti sono certi che il vento, in economia, se proprio non è cambiato ce la sta comunque mettendo tutta per farlo. Questa volta a invertire la tendenza sono i fallimenti che, stando ai dati dell’Osservatorio trimestrale su Fallimenti, Procedure e Chiusure di imprese di Cerved, nei primi tre mesi del 2015 si è registrato il 2,8% in meno di fallimenti rispetto al primo trimestre 2014. È il primo calo dopo 10 trimestri consecutivi di segni più.

Dopo quasi tre anni, i dati relativi alle chiusure sono finalmente positivi – ha commentato l’a.d. di Cerved Gianandrea De Bernardis parlando dei fallimenti -, con un miglioramento diffuso a tutte le procedure che monitoriamo. Chiudono meno imprese e quelle rimaste sul mercato pagano prima i fornitori: con la ripresa già in atto ci aspettiamo nei prossimi mesi un rafforzamento di questo trend positivo“.

Entrando nel dettaglio dei numeri, le imprese che hanno aperto procedure di fallimenti sono state 3.800 e, nello stesso periodo sono anche calate del 3,5% anno su anno (21mila), le imprese che hanno chiuso tra fallimenti, procedure concorsuali non fallimentari e liquidazioni volontarie.

Secondo i dati Cerved sui fallimenti, nel trimestre in esame sono calate anche le procedure concorsuali non fallimentari di circa il 20% rispetto al corrispondente trimestre 2014. Sono state solo 600, un dato influenzato dalla marcata diminuzione dei concordati preventivi (-25,3%) e dal calo dei concordati in bianco: 650 -27% rispetto al 2014 e oltre il 50% in meno rispetto al 2013.

Il dietro front nei fallimenti ha favorito soprattutto il settore dell’industria e delle costruzioni, quest’ultimo massacrato negli anni più bui della crisi.

Una situazione a macchia di leopardo si registra per i fallimenti nelle varie macro aree italiane. Il Nord Ovest (-9%) e il Sud (-4,2%) hanno fatto registrare i cali più importanti sul versante dei fallimenti; lo stesso Sud (-12,2%) e il Centro (-10,1%) hanno visto calare sensibilmente le liquidazioni volontarie; un po’ tutte le regioni hanno fatto registrare forti cali delle procedure concorsuali non fallimentari.

Bertola: “Riscoprire il lato nobile del fare impresa”

«Il fallimento di una impresa è il fallimento di un micro-sistema della società». Ne è convinto Livio Bertola, presidente dell’Aipec – un’associazione di imprenditori, professionisti, aziende che intendono porre come valore aggiunto del proprio modo di lavorare nel mercato nazionale e internazionale, la «cultura del dare» – che oggi abbiamo incontrato per una breve chiacchierata in merito agli ultimi allarmanti dati del Cerved sui fallimenti aziendali.

Dott. Bertola, nel secondo trimestre 2014, i fallimenti aziendali sono stati 4.241, in aumento del 14,3% rispetto allo stesso periodo del 2013. È quanto emerge dai dati del Cerved, società quotata specializzata nell’analisi del rischio di credito, analizzati dall’Ansa. Come leggere questi dati?
Significa che si sta facendo ancora troppo poco per le imprese italiane. Occorrerebbe conoscere naturalmente nel dettaglio le cause dei fallimenti, ma certamente i dati sono allarmanti. Il fallimento di una impresa è il fallimento di un micro-sistema della società. I 4.241 micro-sistemi in fallimento segnalano il fallimento dell’intera sistema. Occorrono riforme strutturali.

Nel Mezzogiorno e nelle Isole i fallimenti salgono del 15% rispetto ai primi sei mesi 2013, nel Nord Ovest del 10,7% e nel Centro Italia del 10,4%. Le imprese sono le vittime privilegiate di una crisi che non sembra avere fine…
Le difficoltà maggiori si avvertono al Sud e nelle isole proprio perché è lì che si avvertono maggiormente la carenza di servizi sociali, di infrastrutture. Non è possibile generare benessere economico senza un contestuale benessere sociale. E’ quello che l’Aipec sta provando a testimoniare in tutta Italia.

Quale può essere la soluzione?
La crisi attuale è il frutto di una lunga serie di inefficienze, errori e falsi proclami, pertanto è difficile ipotizzare una soluzione in grado di risollevare il sistema in tempi rapidi. Sicuramente occorre riscrivere le logiche economiche della massimizzazione del profitto. Il massimo profitto per un’impresa non dovrebbe derivare esclusivamente dal successo economico, ma dall’aver generato benessere sociale, dentro e fuori la fabbrica, presso i propri dipendenti, fornitori, clienti. Bisogna riscoprire il lato nobile del “fare impresa”.

Quali dovrebbero essere i provvedimenti più urgenti del Governo Renzi per fermare l’emorragia?
Immettere fiducia nel sistema, alleggerendo la pressione fiscale a ogni latitudine. Investire nell’istruzione, nella ricerca e nella legalità. In una sola parola ripartire dall’uomo. Sono gli uomini a fare il sistema e non il contrario.

Jacopo MARCHESANO

Debiti della Pa, facciamo il punto

 

Quella sui cosiddetti debiti della Pa, ossia i soldi che gli enti che fanno parte della Pubblica amministrazione devono alle imprese per lavori fatti e mai pagati, è una partita sulla quale si gioca buona parte della credibilità del nostro Paese e dei governi che, negli ultimi anni, si sono trovati a guidarlo.

Complice la peggiore crisi economica dal Dopoguerra a oggi, quello che per decenni è stato uno scandalo sottaciuto e tollerato, è esploso in tutta la sua forza, anche grazie – purtroppo – ai numerosi suicidi di imprenditori che con lo Stato si sono trovati esposti per milioni, hanno visto la propria azienda chiudere e non hanno retto al peso del fallimento.

Dopo una sostanziale indifferenza dell’ultimo governo Berlusconi, il tema è stato affrontato dai governi Monti, Letta e, attualmente, Renzi, sempre con un atteggiamento che privilegia il proclama anziché la sostanza, tanto che ancora non c’è chiarezza sul totale dei debiti effettivamente rimborsati a oggi né, cosa più grave, su quanto debba la Pubblica amministrazione alle imprese. Un valzer di cifre che va da 70 a 120 miliardi, come se fossero bruscolini. Un monstrum che, a buon diritto, pone l’Italia nel terzo mondo d’Europa.

È notizia di questi giorni che lo Stato metterà a disposizione 1,8 miliardi per “il pagamento di debiti certi, liquidi ed esigibili maturati al 31/12/2012” e che ad oggi sono state già assegnate a comuni, province e comunità montane risorse finanziarie per 3,2 miliardi. Una goccia nel mare. Le aziende interessate devono presentare le domande di anticipazione alla Cdp, complete in ogni elemento e redatte secondo lo schema allegato all’Atto aggiuntivo all’Addendum, entro il 3 giugno 2014.

Tutto molto bello, ma ci pensa la Cgia di Mestre a far tornare le cose alla loro dimensione normale, specialmente per quanto riguarda i tempi dei pagamenti. Secondo l’associazione, nonostante gli sforzi e l’impegno di pagare una buona parte dei sui debiti, nel 2013 la Pubblica amministrazione ha pagato i suoi fornitori mediamente dopo 170 giorni10 giorni in meno rispetto al 2012.

Sebbene quella italiana sia una delle Pa che ha realizzato lo sforzo maggiore, in questa graduatoria continuiamo a essere i peggiori pagatori d’Europa, peggio persino della Grecia, che salda i suoi debiti in tempi più brevi dei nostri (159 giorni). La media Ue, invece, si attesta sui 61 giorni, contro i 60 della Francia, i 41 del Regno Unito e i 36 della Germania. Un altro pianeta.

La Cgia ha stilato questa graduatoria su dati Intrum Justitia, dopo aver appreso dal Vicepresidente della Commissione europea, Antonio Tajani, che all’indomani delle elezioni europee scatterà la procedura di infrazione contro il nostro Paese a seguito dei forti ritardi nei pagamenti.

A questo la Cgia aggiunge il preoccupante numero di fallimenti registrati negli ultimi 5 anni di crisi: dal 2009 al 2013 sono stati 59.570, di cui 14.269 solo nel 2013, Tra il 2009 e il 2013, l’incremento ha superato il 52%.

Secondo il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi,oltre agli effetti della crisi economica a dare un contributo all’impennata dei fallimenti hanno sicuramente contribuito il ritardo dei pagamenti da parte della Pa, l’incremento del livello di tassazione avvenuto in questi anni e la contrazione nell’erogazione del credito praticata dalle banche. Si pensi che nel 2013 la pressione fiscale si è stabilizzata al 43,8%, mentre le banche hanno tagliato ben 53 miliardi di prestiti alle imprese”.

Vado, fallisco, non torno

Niente da fare. Sembra proprio che l’emorragia di imprese non voglia cessare mai. Alla faccia di chi parla di ripresa e di luce in fondo al tunnel. Secondo i dati Cerved, società specializzata nell’analisi delle imprese e nella valutazione del rischio di credito, visionati dall’Ansa in Italia assistiamo a un nuovo record di fallimenti: quasi 10mila nei primi 9 mesi dell’anno. Bum. Il settore più colpito è quello dei servizi, con un aumento dei fallimenti del 14% rispetto all’anno precedente, seguito dal manifatturiero (+11%) e da quello edile (+ 9,7%).

Un aumento secco del 12% rispetto allo stesso periodo del 2012, mentre la crescita nel terzo trimestre è del 9%. A rincarare la dose, Cerved sottolinea che il numero di imprese è a livello “massimo osservato da più di un decennio nel periodo gennaio-settembre”.

La regione più colpita è la Lombardia, con 2.250 fallimenti nei primi nove mesi (+13%), male anche l’Emilia Romagna e il Veneto (+19%) e il Lazio (+15%), mentre fanno registrare dati in controtendenza la Liguria (-11%) e l’Umbria (-18%).

Le statistiche di Cerved rilevano che a portare i libri dal giudice sono soprattutto le società di capitale (+12%), le società di persone (+10%) e le altre forme giuridiche si attestano al +11%.

Un altro triste record è quello delle liquidazioni volontarie. Nel terzo trimestre del 2013 hanno avviato procedure di liquidazione volontaria 14mila aziende che non avevano precedenti procedure, il 5,3% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Da gennaio a settembre sono state oltre 50mila le liquidazioni. Ad aumentare sono state le liquidazioni delle società che non hanno depositato alcun bilancio negli ultimi 3 anni, mentre sono calate dello 0,9% le liquidazioni tra le società di persone. Aumenti a ritmi inferiori rispetto al 2012 per le liquidazioni tra le società di capitale che avevano almeno un bilancio valido nelle ultime tre annualità: sono state quasi 25mila le liquidazioni nei primi nove mesi dell’anno.

Al di là delle rilevazioni Cerved, secondo alcuni osservatori la causa di questo aumento non sarebbe dovuta solo alla crisi economica, ma anche alla legislazione che favorisce chi chiude per non pagare i debiti allo Stato.