Fallimenti, un 2013 nero. Come fare per invertire la tendenza?

di Davide PASSONI

Uno degli aspetti più odiosi che la crisi si porta con sé è quello dei fallimenti per i ritardati pagamenti. In Italia, infatti, sono oltre 3 milioni le imprese che soffrono di problemi di liquidità dovuti al ritardo dei pagamenti. Una cifra pari al 70% del totale. Le perdite per i mancati incassi toccano i 40,5 miliardi di euro all’anno.

Secondo la Cgia di Mestre, le cause di questo orrore tutto italiano vanno ricercate nei tempi medi di pagamento effettivi che intercorrono nelle transazioni commerciali con le altre imprese e con la Pubblica amministrazione. Nel primo caso, i giorni medi necessari per il saldo fattura sono 96; nel secondo caso, scandalo degli scandali, si arriva fino a 180 giorni. In entrambe le situazioni siamo maglia nera quando ci confrontiamo con i nostri principali partner economici dell’Ue. Il dato è stato ricavato dalla Cgia elaborando un’analisi condotta da Intrum Justitia.

I problemi legati ai ritardi nei pagamenti, ricorda la Cgia, sono all’origine di una moltitudine di problemi che le piccole imprese devono affrontare quotidianamente. La contrazione nell’erogazione del credito avvenuta in questi ultimi anni di crisi economica, nonché la dilatazione dei tempi con i quali le imprese (soprattutto quelle di piccola dimensione) vengono pagate dai propri committenti, hanno contribuito a mettere sul lastrico moltissime realtà. Grazie all’introduzione dell’Iva per cassa – che dal 1° dicembre di quest’anno consente alle aziende con un fatturato inferiore ai 2 milioni di euro di versare l’Iva allo Stato solo dopo il pagamento avvenuto – e a una legge che dovrebbe ridurre i tempi medi di pagamento, le piccole imprese hanno qualche strumento in più per difendersi in questa fase economica così difficile. Ma la strada da percorrere è ancora lunga, visto che per educare lo stato ladro l’unica vera soluzione sarebbe quella di adottare forme di resistenza civile come lo sciopero fiscale.

Questo è solo uno dei fattori che, ogni anno, portano al fallimento e alla chiusura di migliaia di imprese. Anche questo 2013 non ha fatto eccezione e il 2014 arriva sotto il segno dell’incertezza. Questa settimana Infoiva cercherà di capirne di più.

Nuove attività in calo nel primo trimestre 2013

Sembra che non ci sia fine al peggio: nei primi tre mesi del 2013 il saldo tra aperture e chiusure di imprese è negativo per ben 31mila unità, con un calo dello 0,51%, e 10mila di queste appartenevano al settore del commercio.
A rivelare questi dati è un’indagine di Unioncamere, che conferma un ulteriore peggioramento rispetto al primo trimestre del 2009, a causa di una diminuzione massiccia di nuove iscrizioni, che sono state 118.618, contro le 120.278 dello stesso periodo del 2012.
Le cessazioni, a contrario, sono aumentate, arrivando a 149.696 contro le 146.368 dell‘anno scorso.

A dimostrare le maggiori difficoltà sono gli artigiani, poiché le 21.185 imprese artigiane che tra gennaio e marzo sono mancate all’appello rappresentano oltre due terzi (il 67,6%) del saldo negativo complessivo del trimestre.
Il peggioramento, rispetto al 2012, quando il bilancio del comparto, con 15mila imprese in meno, aveva eguagliato il 2009, è del 40%.
In termini percentuali, la riduzione della base imprenditoriale artigiana è stata pari all’1,47% con una forte accelerazione rispetto al negativo risultato del 2012 (-1,04%).

Analizzando la situazione del territorio nazionale, la situazione più critica si trova a Nord-Est, con un calo dello 0,7%, pari a 8.350 imprese in meno.
Tra gli artigiani, le perdite più consistenti riguardano le regioni del Centro (-1,62% il tasso di crescita negativo, corrispondente a 4.689 imprese in meno nel trimestre).
Tra i settori (escludendo l’agricoltura), in termini relativi spiccano i bilanci negativi delle costruzioni (-1,4% corrispondente a 12.507 imprese in meno, quasi tutte artigiane), delle attività manifatturiere (-0,88% pari a 5.342 imprese in meno) e del commercio (-0,59% che in valore assoluto corrisponde ad un saldo di -9.151 unità).

Vera MORETTI

C’è un gran bisogno di Terraferma

Quando un imprenditore sente la propria azienda e la propria vita sballottate dalle onde della crisi, sul punto di affondare, la cosa che vorrebbe di più al mondo è approdare sulla terra ferma. E proprio Terraferma si chiama l’iniziativa di sostegno psicologico gratuito per gli imprenditori in difficoltà, nata all’interno del network Imprese che Resistono.

Perché, come sostiene Massimo Mazzucchelli, imprenditore del Varesotto e responsabile del progetto Terraferma, la prima mossa che bisogna fare di fronte alla richiesta di aiuto da parte di un imprenditore ormai senza alcuna speranza è riportarlo a confrontarsi con la realtà, riportare il problema alle sue giuste dimensioni senza che si assolutizzi. Tanti drammi possono essere evitati se presi in tempo, bisogna solo evitare che l’imprenditore resti solo: a lui e a chi lo sostiene, poi, il compito di uscire dal tunnel.

Leggi l’intervista a Massimo Mazzucchelli

Imprese alla ricerca di Terraferma

 

Imprese che resistono, imprenditori che devono resistere. Di fronte alla crisi, al timore di doversi trovare nella situazione di licenziare i propri indipendenti o alla paura del fallimento, molti imprenditori decidono di togliersi la vita. Altri invece riescono, con l’aiuto e il supporto di chi sta loro attorno a risalire la china, e guardare al domani.

Infoiva ha intervistato Massimo Mazzucchelli, imprenditore e responsabile del progetto Terraferma, un’iniziativa nata in senso all’associazione Imprese che resistono, per offrire un supporto psicologico immediato (gli psicologi di Terraferma sono reperibili 24 ore su 24) a chi si trova, troppo spesso inconsapevolmente, ad attraversare il momento più buio.

Com’è nata l’idea di Terraferma?
Faccio parte del movimento Imprese che resistono (ICR) dal 2009, ossia da quando è nato, e da allora ci impegniamo a denunciare come la crisi economica sempre più forte aggredisca soprattutto le piccole imprese italiane: aumentano i casi di suicidio fra gli imprenditori che non ce la fanno più. L’idea di Terraferma è nata di conseguenza: mi ricordo che all’inizio del 2012 mi era capitato di ascoltare a qualche telegiornale le parole di un Ministro italiano che ‘giustificava’, mi passi il termine, come in una situazione di grave difficoltà come quella che stiamo attraversando, sia normale che aumentino i casi di gesti estremi, un po’ come è successo in Grecia. Di fronte a queste parole, la mia prima reazione è stata di forte rabbia: non mi sembrava possibile che nessun facesse niente. Era più che mai necessario offrire a tutti gli imprenditori un sostegno immediato, soprattutto del punto di vista psicologico, e specializzato: così ho contattato un’amica psicologa e nel giro di un paio di mesi è nato il progetto Terraferma. Oggi l’iniziativa conta 30 psicologi in tutta Italia, sempre reperibili, 24 ore su 24, 7 giorni su 7.

Perché avete scelto questo nome, Terraferma?
Viviamo in una fase di cambiamento epocale, l’industria manifatturiera, un tempo cavallo di battaglia dell’italianità, viene ricollocata in altri Paesi, perchè la produzione costa meno. Ma come si crea lavoro e ricchezza allora nel nostro Paese? Se le situazioni di crisi hanno da sempre posto gli imprenditori di fronte ad una scelta, questa volta si tratta di trovarsi in un vicolo cieco, dove la piccola e media industria, da sola, non ha gli strumenti per salvarsi. Gli imprenditori vivono oggi in una situazione di tempesta, e volevamo trasmettere l’idea di una Terraferma, di un punto d’appiglio cui ancorarsi.

Qual è la sua storia da imprenditore?
Mi sono diplomato in ragioneria e sono un ingegnere mancato, nel senso che ho frequentato per un un paio d’anni il Politecnico, ma poi ho scelto di dedicarmi all’impresa di famiglia. Mio padre è mancato poco dopo, ma è da lui che ho appreso le conoscenze fondamentali per mandare avanti un’impresa: essere presenti 7 giorni su 7 in azienda e occuparsi esclusivamente dell’attività. La nostra azienda produce dispenser per nastri adesivi, si tratta di attrezzi che servono per l’imballaggio e sono quindi destinati alle aziende di produzione: l’Europa resta il nostro primo cliente, l’America secondo, mentre in Italia il nostro giro d’affari si aggira attorno al 5% del fatturato. A partire dal 2009 la nostra produzione ha subito una forte flessione, come conseguenza al calo della produzione nelle imprese di tutto il mondo. E’ proprio in quel periodo che ho capito che per un imprenditore è necessario investire almeno una parte del proprio tempo per conoscere e approfondire ciò che accade intorno alla propria azienda e nel mondo, interessarsi alla vita pubblica, alle scelte del governo, delle associazioni di categoria. la mia reazione immediata è stata quella di rimboccarmi le maniche: investire sulla produzione di nuovi articoli, produrre abbassando i i costi, creare brevetti su nuovi prodotti, affidarsi marketing on line, ma qualunque sforzo facessi di risultati sul fatturato non se ne vedevano. Nel momento più difficile mi sono avvicinato al movimento Imprese che resistono.

Quali sono le ragioni più frequenti per cui gli imprenditori si rivolgono a Terraferma?
Il problema fondamentale in Italia è la mancanza di lavoro: l’assenza di liquidità è un sintomo della mancanza di lavoro, che è la vera causa della crisi. Le ragioni per cui gli imprenditori si rivolgono a noi sono diverse: dalla banca che vuole il rientro dei Fidi, agli artigiani in difficoltà perché, per determinare quanto devono pagare di tasse, il fisco si basa ancora oggi sugli studi di settore, che non tengono conto dei momenti di crisi e del reale fatturato dell’azienda. Gli artigiani che non riescono a pagare si trovano così costretti a fare ricorso, che spesso non viene accolto, e se il pagamento non viene evaso a quel punto subentra Equitalia. Altre ragioni ancora riguardano la difficoltà a rientrare nei pagamenti con i clienti, e molto spesso il primo cliente a non pagare è lo Stato.

Perchè è importante offrire un supporto psicologico agli imprenditori che vivono sulla propria pelle l’esperienza della crisi?
L’imprenditore è abituato a fare da sé, ma in queste situazioni estreme è impensabile agire da soli. Sono spesso i famigliari a contattarci: il rischio è che l’imprenditore si chiuda in sè stesso, vuoi per la difficoltà del sentirsi chiamare tutti i giorni dalla Banca, il rischio che i fidi non vengano rinnovati, e la vergogna di sentirsi definiti evasori anche quando non si tratta di assolutamente di evasori, ma di imprenditori in ritardo con i pagamenti per mancanza di liquidità. Quello cerchiamo di fare in primis è riportare la persona a confrontarsi con la realtà, perché spesso di fronte alla tempesta si perde il contatto con chi ci sta attorno: il problema viene ingigantito e si perdono di vista le cose fondamentali, i rapporti con famiglie e i colleghi. In un secondo momento, superata la fase spiazzamento iniziale, il nostro compito è di fornire un supporto pratico alle imprese, per aiutarle a uscire dalle criticità con cui si trovano a fare i conti, mettendo a disposizione una rete di commercialisti, avvocati e consulenti finanziari.

Una fra le spinte più forti che conducono gli imprenditori a prendere la decisione più estrema, ovvero togliersi la vita, riguarda il peso di dover licenziare i propri dipendenti. Quali emozioni scatena?
Ogni imprenditore vive un senso di responsabilità nei confronti dei propri dipendenti. Questo vale soprattutto per i piccoli imprenditori, perché c’è contatto diretto, si lavora insieme, mentre nelle grandi aziende queste decisioni vengono gestite dalle risorse umane. Di fronte a una persona che molto spesso è un’amico d’infanzia, oppure un dipendente che lavora nelle tua azienda da 30 anni, i cui figli lavorano lì, risulta impossibile per un impreditore dire ‘non sono più in grado di offrirti un lavoro’. L’imprenditore vive da un lato un forte senso di respinsabilità, perchè molto spesso conosce le storie singole di ciascuna famiglia, e dall’altra parte un senso di impotenza, perchè non riesce a far fronte alla crisi e a non aumentare la produzione.

Avete vissuto in prima persona casi di imprenditori che hanno tentato il suicidio? Perchè si arriva ad una decisione così estrema?
Qualche mese fa mi è capitato di ricevere la telefonata di una persona che ‘non ce la faceva più’, ma che fortunatamente è riuscita a superare il momento più buio. Hanno contattato Terraferma anche parenti e famigliari di persone che purtroppo si sono tolte la vita e avevano bisogno di capire che cosa fare dell’azienda, come agire. Siamo in contatto inoltre con la figlia di Mario Frasacco, l’imprenditore di Roma che si è suicidato lo scorso 4 aprile, che ha voluto denunciare allo Stato la disperazione che vivono sulla loro pelle ogni giorni i titolari di aziende.

Fare impresa oggi in Italia fa paura?
Fa paura a chi la sta facendo, sono sempre di meno i piccoli imprenditori che ‘mettono’ in azienda i propri figli perché non ne vale più la pena; preferiscono indirizzarli verso lo studio, l’università e un percorso formativo fuori dall’azienda di famiglia, che molto spesso coincide con un non-ritorno. Il capitale investito in un’azienda dovrebbe remunerare sia l’imprenditore che il rischio d’impresa, ma oggi non è più così. Non c’è la soddisfazione della crescita, diminuisce la domanda interna, si allarga lo spazio d’azione ma si riducono le quantità. Si lavora sul presente, e non si guarda al futuro, purtroppo.

Alessia CASIRAGHI

Imprenditori suicidi, la parola allo psicologo

Che cosa succede quando un imprenditore si vede crollare il mondo addosso perché la sua impresa fallisce? Quali pensieri, dinamiche, corti circuiti scattano nella mente di un imprenditore che si vede costretto a licenziare i propri addetti, portandosi addosso la responsabilità di inguaiare non solo la propria famiglia ma anche quelle delle persone che con lui e per lui hanno lavorato, magari da sempre?

Da domande come queste partono persone e associazioni che cercano di aiutare chi si trova sull’orlo dell’abisso, gente che interpreta segnali, accoglie richieste d’aiuto, prova a intervenire prima che accada l’irreparabile. Proprio per farci spiegare che cosa accade nell’interiorità degli imprenditori sull’orlo del suicidio, Infoiva ha intervistato il prof. Pier Giovanni Bresciani, Presidente della Società Italiana di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni. Perché, mai come in questo caso, prevenire significa salvare.

Leggi l’intervista al prof. Pier Giovanni Bresciani

Suicidi per crisi, il silenzio dei colpevoli

di Davide PASSONI

Passata l’estate in modo relativamente tranquillo – per quanto possa essere stata tranquilla un’estate nella quale la crisi ha continuato a mordere duramente – ecco che nelle ultime settimane di settembre hanno cominciato a ripetersi i casi di imprenditori suicidi per crisi.

Forse qualcuno si era dimenticato del fenomeno, aveva finto che tutto andasse bene, che ormai quei poveretti che scelgono di buttarsi di sotto o appendersi a una trave perché la loro azienda fallisce sono sempre meno: tanto ormai, come dice il presidente del Consiglio, si vede la luce in fondo al tunnel.

E invece no. La gente continua ad ammazzarsi, i debiti continuano a soffocare le imprese, le tasse continuano a mandarle al macello, mettendo per la strada imprenditori, famiglie, operai. Ma se ne parla meno. Sarà che ci siamo abituati al peggio? Che alla fine questa strage è diventata ormai uno scenario talmente ovvio che facciamo spallucce e ci giriamo dall’altra parte? Assuefatti all’abominio?

No, mai e poi mai. Noi di Infoiva non ci stiamo e per questo, durante la settimana, torneremo a dare voce al fenomeno, a far parlare chi lo vive ogni giorno da vicino, a dare un calcio in bocca alle coscienze di tutti. Perché non possiamo rassegnarci alla strage ma dobbiamo dare voce al disagio per offrire a chi lo soffre gli strumenti giusti per combattere e rialzare la testa. Seguiteci in questo viaggio, aiutateci a non far spegnere la luce su questa mattanza. Uscirne si può, si deve.

Leggi l’intervista a Pietro Giordano, consigliere dell’associazione “Speranza al lavoro”

Imprenditori suicidi, non abbassiamo la guardia

di Davide PASSONI

Negli ultimi mesi, complice forse l’estate, sono stati meno i casi di imprenditori che si sono tolti la vita a causa della crisi. Anche se, durante la settimana appena trascorsa, specialmente nel Veneto la cronaca nera in questo senso è tornata a farsi leggere. Eppure la situazione economica non è migliorata, anzi, è andata peggiorando; fallimenti, aziende che chiudono, imprese in bilico ci sono ancora ma forse, ora che si legge sempre meno di gente che si appende a una trave per farla finita, la crisi fa meno notizia.

Noi di Infoiva, però, non molliamo la presa, non vogliamo che si abbassi la guardia su un fenomeno che, seppur scemato, temiamo possa riesplodere in tutta la sua amarezza dall’oggi al domani. Per questo abbiamo bussato alla porta di Adiconsum, che nell’aprile scorso, all’apice del fenomeno degli imprenditori suicidi, ha dato vita all’associazione “Speranza al lavoro” insieme a Filca-Cisl, con diversi obiettivi: creare una rete nel territorio che possa dare sostegno al mondo del lavoro e offrire sostegno psicologico e fiscale a imprenditori e famiglie duramente colpite dalla crisi. Ecco che cosa ci ha detto Pietro Giordano, Segretario Generale Adiconsum Cisl Nazionale e consigliere di “Speranza al lavoro“.

Ci sono meno imprenditori suicidi e l’attenzione dei media sul fenomeno cala. Ma i problemi rimangono aperti, vero?
I mass media classici cavalcano il caso quando scoppia, ma se poi l’interesse scema tendono a dimenticarsene. Speriamo che il fenomeno non si riaccenda in modo clamoroso, ma la situazione resta grave. Lo dico perché, dal momento che gestiamo anche un centro antiusura, abbiamo i dati reali di una crescita dell’indebitamento rispetto al fabbisogno di sostegno economico. E questo non solo tra i lavoratori dipendenti o i pensionati, ma anche tra gli artigiani e i commercianti, che si trovano in condizioni di estrema difficoltà.

Quindi le “grida di aiuto” delle imprese e delle famiglie vi arrivano ancora numerose?
A “Speranza al lavoro” continuano a pervenire decine di richieste di sostegno, sia economico – anche se non è questa la nostra mission – sia di tipo psicologico. Sono spesso famiglie nella più completa solitudine, che quando sono in difficoltà non possono più contare sul supporto di parenti e amici, che scompaiono all’orizzonte. La richiesta è quella di avere un punto di vista stabile a cui aggrapparsi. Sono famiglie e imprenditori con risorse economiche ormai scarse o nulle, che devono sostenere spese, magari schiacciate dal peso delle cartelle esattoriali. Per questo abbiamo a loro disposizione anche dei tributaristi gratuiti.

Come far sì che l’attenzione non cali?
Vorremmo realizzare un grande convegno e una serie di iniziative di sensibilizzazione in tutta Italia, nelle piazze, rispetto a un fenomeno che ora è sotto traccia, ma non è di certo sparito.

Da che zone proviene chi si rivolge a “Speranza al lavoro”?
Provengono per la maggior parte dal Centro-Nord, dove ci sono aree a maggiore produttività: Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia… Le segnalazioni però stanno diventando man mano sempre più uniformi sul territorio nazionale, segno che la crisi è dura e moltissimi sono i default. La maggior parte delle piccole aziende coincide infatti con la famiglia, per cui il default non è solo dell’impresa ma di un intero sistema familiare: un fallimento non solo imprenditoriale ma anche personale. O meglio, lo si vive come un fallimento personale, ma a tutto c’è rimedio. Il messaggio che parte dagli operatori di “Speranza al lavoro” è che c’è sempre una possibilità di risalire, bisogna reagire. Che poi è quello che vuol sentirsi dire chi si rivolge a noi.

Spesso molte imprese falliscono perché lo Stato insolvente è il loro primo creditore? Come giudicate questi episodi?
Li giudichiamo molto male. Lo Stato è lontano dal cittadino e dalle imprese e un aspetto del dramma è proprio quello del ritardo nei pagamenti della PA, che mettono in difficoltà tante piccole imprese. Sulle quali poi, magari, interviene Equitalia e le manda in default per poche migliaia di euro, senza pensare che sta dando il colpo di grazia a una famiglia ormai moribonda. L’ennesima dimostrazione che lo Stato non è vicino alle imprese.

Che cosa serve per cambiare la rotta?
Uscire dalla spirale. Abbiamo avuto grande speranza nel governo Monti nella sua prima fase, ma con il passare dei mesi ci siamo resi conto che le caste che bloccano lo sviluppo del Paese sono troppo potenti. Tutti si dicono liberali, ma con gli altri, non con se stessi. Da noi vengono imprenditori che magari per 2000 euro di scoperto con lo Stato si vedono tagliato il fido e buttati letteralmente in mezzo alla strada. Ci dovrebbero essere delle normative che equiparano lo Stato al cittadino: tra i due attori non ci deve essere uno più forte e uno più debole, altrimenti si continuerà a viaggiare a due velocità, come nel caso degli interessi pagati dal cittadino rispetto a quelli da lui vantati nei confronti dello Stato.

Perché è così forte la tendenza a sovrapporre il fallimento professionale a quello personale?
Perché, soprattutto negli Anni ’80, è stato equiparato il successo personale a quello aziendale o professionale, una equazione che è diventata una maledizione per tante persone. Da quegli anni in poi il successo personale non è più coinciso con la ricchezza interiore o la vita familaire serena, ma si è sovrapposto a quello economico. Un tempo la famiglia era il porto sicuro che salvava le persone, ora spesso, come già detto, il default economico coincide con il default familiare: non è una parte della tua vita che finisce, ma tutta la vita, ecco perché la gente si uccide. Un dramma figlio di una cultura che porta a credere che l’opulenza economica sia sinonimo di felicità.

Un appello agli imprenditori in difficoltà.
Mai abbandonare la speranza, non aspettare mai l’ultimo momento per chiedere aiuto a qualcuno. Spesso situazioni tragiche sono tracollate perché sono arrivate a noi all’ultimo minuto, se prese prima sarebbero state sanate o si sarebbero evolute diversamente. Il fallimento di un’azienda non è mai un fallimento personale, la ricchezza dei rapporti è quella che sostiene l’uomo, lì bisogna puntare.

Imprese? I ritardi nei pagamenti ne ammazzano 1 su 3

di Davide SCHIOPPA

Da queste pagine non siamo soliti lanciare allarmi o fosche previsioni sullo stato della piccola impresa in Italia. Cerchiamo di limitarci a leggere i dati, anche quando questi non sono incoraggianti (cosa che accade spesso in un periodo come questo…), proponendoli ai lettori per invitarli a riflettere. Una delle nostre missioni è quella della positività, non forzata e non a tutti i costi; per cui, se oggi vi parliamo delle imprese che muoiono, non lo facciamo per venire meno a questa missione, ma per cercare di andare al di là della notizia e capire perché le nostre imprese stentano a sopravvivere.

Tanto per cambiare, i dati di cui parliamo oggi arrivano dall’ufficio studi della Cgia di Mestre e vale la pena arrivare subito al sodo: dal 2008, in Italia, sono fallite oltre 46mila imprese, una su tre per i ritardi dei pagamenti. Dall’inizio della crisi alla fine di giugno 2012, i fallimenti in Italia hanno sfiorato le 46.400 unità, dei quali poco meno di 14.400 a causa dell’impossibilità, da parte degli imprenditori, di incassare in tempi ragionevoli le proprie spettanze. La Cgia di Mestre ricorda anche che, secondo i dati di Intrum Justitia, la percentuale di aziende che in Europa falliscono a causa dei ritardi dei pagamenti è pari al 25% del totale. Siamo sopra la media, anche in questo caso un record poco invidiabile.

Se la crisi è l’accelerante di questo incendio che brucia il tessuto produttivo nazionale, non bisogna però dimenticare che, tra i principali Paesi dell’Unione europea, l’Italia è l’unico ad aver registrato, tra il 2008 e i primi mesi del 2012, un aumento dei tempi di pagamento: +8 giorni nelle transazioni commerciali tra le imprese private, +45 giorni nei rapporti tra Pubblica amministrazione ed imprese. E proprio in questo ultimo rapporto si annida lo scandalo, il cancro, il verme che rode l’impresa sana del nostro Paese. Le attività che lavorano per lo Stato centrale o per le autonomie locali si vedono pagare in media a 180 giorni, mentre in Francia le aziende vengono saldate dopo 65 giorni, in Gran Bretagna dopo 43, in Germania dopo 36 giorni. Tempo che le imprese non hanno: ogni giorno in più di ritardo è un centimetro di corda che si stringe intorno al collo delle aziende.

Nonostante il Governo Monti abbia messo in campo alcune misure che entro la fine di quest’anno dovrebbero sbloccare una parte dei pagamenti che i privati avanzano dalla Pubblica amministrazione – commenta Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestreè necessario che venga recepita quanto prima la Direttiva europea contro il ritardo nei pagamenti. La mancanza di liquidità sta facendo crescere il numero degli ‘sfiduciati’, ovvero di quegli imprenditori che hanno deciso di non ricorrere all’aiuto di una banca. Un segnale preoccupante che rischia di indurre molte aziende a rivolgersi a forme illegali di accesso al credito, con il pericolo che ciò dia luogo ad un incremento dell’usura e del numero di infiltrazioni malavitose nel nostro sistema economico“.

Che l’economia illegale non senta la crisi, è un dato che molti sottolineano. Facciamo in modo che non siano le imprese sane ad alimentare quelle malate. Ci verrebbe da dire “piuttosto meglio morire”, ma ci pare una conclusione di pessimo gusto.

Unioncamere: piccole imprese a rischio

Unioncamere suona la sveglia. O lancia l’allarme, decidete voi. Nell’appuntamento con il suo Rapporto, Unioncamere rileva infatti – non che non lo sapessimo… – che questo 2012 sarà molto difficile per le piccole imprese. Nel Rapporto si prevede infatti che saranno soprattutto le piccole imprese, quelle con meno di 10 dipendenti, a essere penalizzate dal difficile contesto economico, in quanto più strettamente legate ai consumi interni. Tanto che per fine anno Unioncamere prevede quasi 62mila posti in meno per la classe di aziende 1-9 dipendenti, oltre 33mila unità in meno per le aziende da 10 a 49 dipendenti e alle -35mila per le imprese di 50 dipendenti e oltre. Insomma, la spina dorsale della nostra economia sarà colpita duro.

E non andrà meglio alle famiglie. I loro consumi sono infatti previsti in calo del 2,1% e la spesa per gli investimenti del 3,8%; a fronte di un calo medio del Pil dell’1,5%, saranno le regioni del Sud a pagare il prezzo più alto della crisi, con un decremento medio dell’1,8%. Sempre secondo il Rapporto, il segno più tornerà solo nel 2013 con un incremento del Pil dello 0,8%, sempre con una crescita più contenuta al Sud dove si prevede un +0,2%.

Come fare per assorbire meglio i colpi da parte delle imprese? Il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello, ha avanzato alcune proposte presentando i dati del Rapporto 2012. Possibilità di ammortizzare gli investimenti aggiuntivi in tre anni; un patto tra governo e Camere di commercio per portare sui mercati internazionali altre 10mila imprese nei prossimi 3 anni; una disciplina speciale che impedisca il fallimento delle imprese causato dai ritardi nei pagamenti della PA e un rinvio dei pagamenti Iva e Irap per i primi due anni di attività delle nuove imprese. Basteranno? Di sicuro, se applicati saranno più utili della spending review del governo…

Poveri partiti, diamo loro un po’ di soldi!

di Davide PASSONI

Abolire il finanziamento pubblico ai partiti sarebbe “un errore drammatico“. Di fronte a un’affermazione del genere, fatta dai leader delle tre principali forze politiche italiane, le reazioni possono essere due: una fragorosa risata oppure una altrettanto rumorosa pernacchia.

Drammatico? Drammatico per noi è continuare a mantenere con i nostri quattrini degli apparati che hanno sacrificato la loro missione politica a una missione aziendalista. Quanti impiegati servono per portare avanti le macchine di Pd, Pdl e Terzo Polo? Che cosa c’entrano gli investimenti in fondi, beni, persino gioielli e metalli preziosi che sono stati effettuati dai partiti per finanziare non tanto le campagne elettorali, quanto i propri organici e la propria grandeur, con la missione di rappresentanza popolare che dovrebbero avere? Noi pensiamo poco o nulla.

Cancellare del tutto i finanziamenti pubblici ai partiti – già drasticamente tagliati dalle manovre 2010-2011 – sarebbe un errore drammatico, che punirebbe tutti allo stesso modo (compreso chi ha rispettato le regole) e metterebbe la politica nelle mani delle lobby“, scrivono Alfano, Bersani e Casini. E allora? Chissenefrega. Non è vero che gli sbagli dei singoli li paga la collettività? Non è una delle prime cose che impariamo fin dalle scuole elementari che, per la bravata di uno o due scapestrati, ci va di mezzo l’intera classe? E poi, chi ha rispettato le regole? La Lega è stata l’ultima in ordine di tempo a perdere definitivamente la verginità; l’Idv, che con Di Pietro tuona contro il sistema partitico, ne è parte integrante, coi suoi vizi e le sue virtù; il Movimento 5 stelle, che si fa propugnatore della più spinta antipolitica, è ancora atteso alla prova dei fatti dopo fiumi di proclami; i cari, vecchi radicali non ci risulta abbiano mai rifiutato la fettina di torta che deriva loro dall’avere corso con il Pd alle ultime elezioni politiche.

La verità è un’altra. Non c’entrano i discorsi alati sul ruolo di garanzia democratica e di pluralità che svolgono i partiti e bla bla bla. La verità è che, oltre alla presa per i fondelli di chiamare “rimborso elettorale” il finanziamento pubblico, tradendo la volontà popolare espressa nel referendum del 1994, i partiti sono ormai delle aziende mal gestite e per essere salvate dal fallimento hanno bisogno dei nostri soldi. I soldi di noialtri, mentre a noi il governo dei tecnici, che ormai fa esattamente quello che facevano i governi politici a lui precedenti – e però dice di non avere il mandato politico per tagliare la spesa pubblica. Mah… – sfila ogni giorno, sempre di più soldi dalle tasche, risorse per le imprese, speranza per il futuro. L’ultima fregatura: la sparizione, nella delega fiscale, del fondo strutturale da utilizzare per il taglio delle tasse.

Ai cittadini e alle imprese chi dà i soldi per salvarsi dal fallimento, invece? La risposta è fin troppo scontata: nessuno. Questo sì è drammatico, caro Alfano, caro Bersani, caro Casini.