La crisi dei microchip: difficoltà per le imprese di tutti i settori e prospettive

Siamo pronti all’evoluzione digitale? La risposta sembra essere proprio “no”, infatti la crisi dei microchip, di cui si sta molto parlando, porterà inevitabilmente a nuovi equilibri che per ora sono difficili da immaginare, ma cos’è la crisi dei microchip e da cosa è generata?

Crisi dei microchip: come impatta su aziende e lavoratori

Il mondo sta cambiando, ce ne siamo accorti, forse, ma è altrettanto vero che non eravamo pronti e non siamo preparati all’improvvisa svolta tecnologica determinata anche dalla pandemia. La crisi dei microchip ce lo sta dimostrando e sta impattando sulla vita quotidiana di ognuno di noi, anche se la maggior parte di noi non ha ben chiara l’importanza di questa “crisi”. I primi ad essersene accorti sono i lavoratori del settore automobilistico, infatti molti stabilimenti di Stellantis (FCA, la vecchia FIAT,+ PSA) stanno affrontando l’inverno con molte ore di Cassa Integrazione a causa della difficoltà di approvvigionamento dei microchip. Non va meglio a Toyota che ha tagliato la produzione di auto al 40% a causa della crisi dei microchip.

Il problema reale è che non si trovano e tale scarsità sta anche facendo aumentare i prezzi, aumento che si ripercuoterà sui consumatori finali. A voler essere precisi mancano i semiconduttori, cioè diodi, resistori e transistor che sono alla base dei microchip e che hanno un’elevata conducibilità elettrica. Il mercato dei microchip però non interessa solo le auto, ma le aziende di tutti i settori, partendo da telefonia, computer, elettrodomestici (piccoli e grandi) e tutto ciò che prevede l’applicazione di nuove tecnologie e oggi praticamente tutto è basato su queste.

Il colosso dei chip attualmente è TMSC che si trova a Taiwan e che fornisce microchip a livello globale alle varie aziende. TMSC ha annunciato già l’aumento dei prezzi dei microchip, ma sono molte le aziende che stanno pensando all’autoproduzione, il problema resta la scarsità dei semiconduttori che sono alla base dei funzionamento dei chip e allora come si esce da questa crisi?

Le origini della crisi dei microchip: forte aumento di domanda

Le origini della crisi sono determinate da due fattori principali: la diffusione del 5G che utilizza i microchip nel settore della comunicazione, d’altronde lo sviluppo sempre più massivo del 5G ha avuto un’accelerazione in seguito alla crisi pandemica che ci ha costretto allo smartworking, alla DAD e alla digitalizzazione dei servizi e questa per funzionare bene ha bisogno di una rete efficiente e stabile e le attuali tecnologie non sono in grado di assicurare questo.

Ce ne accorgiamo ogni giorno, quando facendo la fila alle Poste o in qualunque altro ufficio ci sono problemi di connessione che ritardano i pagamenti, ce ne accorgiamo quando tentiamo di guardare un film con il nuovo televisore smart, o quando i figli hanno difficoltà con i collegamenti con la classe in DAD…

Allo stesso tempo il settore automobilistico sta avendo uno sviluppo ragguardevole e usa sempre più tecnologie avanzate, si studiano auto elettriche e a guida autonoma e queste hanno bisogno di chip. Le auto utilizzano i microchip per molte funzioni, dal monitoraggio costante delle funzioni all’airbag, passando per i sistemi di comunicazione presenti in auto, i sistemi di gestione da remoto, i sistemi audio. A ciò deve aggiungersi lo sviluppo della domotica, computer e smartphone che ci accompagnano quotidianamente nella vita e svolgono molteplici funzioni, sono diventati anche un sistema semplice di identificazione per l’accesso ai servizi: basti pensare al Green Pass e alle varie App “pubbliche”. C’è quindi un aumento esponenziale nella domanda a cui non corrisponde un aumento proporzionato della produzione e il sistema va in tilt generando effetti a catena.

Come reagiscono i Paesi al dominio dei colossi dei microchip

L’estremo bisogno di chip ha portato anche ulteriori conseguenze, cioè un inasprimento delle tensioni tra Stati Uniti e Cina, qui il colosso Huawei sembra abbia accumulato scorte di microchip. Proprio per questo sono in molti a credere che la crisi dei microchip sia costruita ad arte.

Se questa crisi ha sicuramente un impatto negativo in molti settori, da un altro potrebbe avere un impatto positivo, infatti è molto probabile che saranno generati nuovi posti di lavoro ad elevata specializzazione. La crisi dei microchip dovrebbe durare fino al 2023, questa è la previsione fatta dal colosso Intel, nel frattempo sono in molti a correre al riparo, anche per proteggersi da rilevanti perdite in borsa. Una soluzione potrebbe arrivare dalle multinazionali dell’informatica che sono spesso esortate a trovare soluzioni all’obsolescenza tecnica dei loro dispositivi cercando di renderli più longevi (di fatto dal punto di vista economico questa soluzione è poco interessante per le multinazionali che fanno affidamento proprio sul costante ricambio delle tecnologie).

Non solo, infatti i Paesi stanno adottando strategie volte all’indipendenza dai colossi di Taiwan e della Corea (TMSC e Samsung) attraverso la predisposizione di piani pubblici. Per gli Stati Uniti c’è l’Innovation and Competition Act che prevede un piano infrastrutturale del valore di 50 miliardi di dollari per l’industria americana dei chip e 52 miliardi di dollari da investire nel settore dei semiconduttori. L’Europa dal suo canto reagisce con l“European Chips Act” che ha come obiettivo la produzione di almeno il 20% dei chip mondiali entro il 2030. Il piano è sicuramente attraente, ma la realizzazione entro il 2030 sembra davvero un po’ tarda.

I colossi di Taiwan e Corea del Sud non indietreggiano

Sicuramente questi investimenti sembrano rilevanti, ma se confrontati all’obiettivo della Corea del Sud che ha annunciato 451 miliardi di dollari di investimenti nel settore, ci rendiamo conto che sono briciole. Il principale attore di questa strategia resta Samsung che quindi non vuole cedere il podio di questo importante segmento dell’industria globale. TMSC (Taiwan) risponde con 100 miliardi di dollari di investimenti nei prossimi tre anni per la progettazione e la realizzazione dei microchip. Messa così sembra che la carenza di chip sarà soltanto temporanea e che semplicemente si stia cercando di avere la fetta più grossa di mercato e mantenere i prezzi della tecnologia alti. TMSC vanta le fonderie di semiconduttori più evolute e intende investire anche in Arizona, quindi negli Stati Uniti.

Di sicuro dalla soluzione della crisi dei microchip dipendono le sorti globali in termini di occupazione e concentrazione di ricchezza a livello globale e si spera che ci sia uno sguardo in più ai deboli della società attraverso uno sviluppo equo e il più possibile inclusivo.

Exor sorpassa Eni: è il primo gruppo industriale italiano

Un sorpasso che ha dello storico. Nel 2014 Eni perde lo scettro di primo gruppo industriale italiano, superata da Exor dopo che per undici anni era stata in testa alla classifica. Il dato emerge dall’annuale classifica dell’Area Studi di Mediobanca delle principali società italiane.

Il sorpasso si è completato dopo che Exor-Fca ha chiuso lo scorso esercizio con ricavi pari a 122,2 miliardi (di cui 62,5 in capo a Chrysler), +12,4 miliardi rispetto a Eni, nonostante le vendite domestiche cubino solo il 7,5% del giro d’affari complessivo del gruppo. Il gruppo Exor è primo anche per numero di dipendenti: oltre 318mila unità delle quali poco più del 25% impiegate in Italia.

Eni scende dunque al secondo posto, soprattutto a causa del crollo delle quotazioni del greggio, con un fatturato di 109,8 miliardi. Non cambiano rispetto al 2013 le posizioni dalla terza alla decima: Enel, Gse, Telecom Italia, Finmeccanica, Edison, Esso Italiana, Edizione e Saras. Oltre a Eni, il calo del prezzo del greggio ha fatto altre vittime illustri: escono infatti dalla Top 20 TotalErg e A2A.

A proposito di Top 20, ecco la classifica nel dettaglio dall’11esima alla 20esima posizione: Poste, Kuwait Petroleum Italia, Ferrovie dello Stato, Luxottica, Ge Italia, Supermarkets Italiani (Esselunga), Prysmian, Pirelli, Isab e Parmalat.

Se si guarda a queste aziende sul lato dei profitti, Eni rimane prima per utili con 6.451 milioni nel biennio 2013-2014, seguita da Enel con 3.752 milioni. A Exor il terzo gradino del podio (primo gruppo privato) con 2.408 milioni.

Mercato auto, l’Europa rifiata

Se il mercato auto europeo cresce, di norma anche quello italiano lo segue e l’intera filiera ne trae dei benefici. C’è quindi da guardare con ottimismo alla crescita che il mercato auto del Vecchio Continente ha messo a segno durante l’estate, nell’Europa a 28 più i Paesi Efta (Norvegia, Svizzera, Islanda e Liechtenstein).

In agosto, infatti, le vendite sono aumentate dell’11,5% (quasi 782mila immatricolazioni, contro le 701mila del 2014). Dopo che a luglio erano salite del 9,5%: 1 milione 184mila vetture rispetto a 1 milione 82mila dello stesso mese di un anno fa. Con questi dati, nei primi otto mesi dell’anno il mercato auto ha fatto segnare 9 milioni 382mila immatricolazioni, +8,6% rispetto al 2014.

La buona notizia per la filiera italiana dell’auto è il forte aumento delle vendite di Fca anche nei mesi estivi: ad agosto, il Gruppo ha registrato l’ottavo mese consecutivo di crescita maggiore rispetto al mercato europeo. Dopo l’aumento di luglio (+16%), anche ad agosto, le immatricolazioni sono aumentate, toccando quota 40mila, +13,9% rispetto al 2014, con un +0,1% nella quota di mercato.

Con questi dati, nei primi otto mesi del 2015 le immatricolazioni di Fca sul mercato auto sono state oltre 588mila, +13,2% rispetto allo scorso anno, con una quota di mercato del 6,3% (+0,3%).

Di fatto, il mercato auto dei diversi Paesi europei ha visto una crescita del Gruppo: nel 2015 è cresciuto nei principali mercati con valori superiori alla media: Italia +17,1%, Germania +9,2%, Francia +13,3%, Spagna +28,8%.

Il marchio Fiat nei primi otto mesi del 2015 ha immatricolato quasi 442.500 vetture +10% rispetto allo stesso periodo del 2014, Lancia 43.600 vetture, Alfa Romeo 38.500. Con questi dati il marchio continua la sua ripresa, mentre per il mercato auto italiano i numeri devono ancora essere irrobustiti negli ultimi mesi del 2015.

Brand italiani nani e giganti mondiali

Come sono messi i brand italiani tra loro e in rapporto ai più importanti brand internazionali? Una domanda alla quale ha provato a rispondere la società inglese Brand Finance, che ha pubblicato la Brand Finance Italy 50, ossia la classifica dei principali brand italiani.

Un rapporto annuale, questo curato da Brand Finance, che confronta con metodologia standard ISO 10668 migliaia di brand mondiali per valutarne la forza (indicata come BSI), data dalla somma dei dati relativi agli investimenti, al marketing, al ritorno in percezione

degli stakeholder e al ROI del brand, e il valore (indicato come BV) in dollari, che scaturisce dalla forza del brand, dalle sue prospettive di fatturato e dal valore delle royalty che si dovrebbero pagare per sfruttarne il marchio.

Ebbene, parlando dei brand italiani, nel 2014 il valore dei 50 principali e il relativo valore d’impresa (indicato come EV, Enterprise Value) sono cresciuti molto meno che nel 2013. Una frenata che ha ridotto la presenza dei brand italiani tra i 500 con maggiore valore al mondo, passati da 9 a 8.

Nello specifico, Fiat e Ferrari sono i due brand italiani che hanno aumentato di più il valore del proprio brand, toccando rispettivamente i 6.060 e i 4.747 milioni di dollari. Sempre restando nella galassia Fca, anche i valori dei marchi Maserati (942 milioni di dollari) e Alfa Romeo (533 milioni) fanno parte del gruppo dei 15 brand che hanno incrementato maggiormente il proprio valore.

Ferrari, pur avendo ridotto il proprio punteggio, resta il brand italiano più forte e gli fanno compagnia nella Top 10 della forza Maserati e Alfa Romeo sono nella Top 10 della classifica della forza. Fiat è uno pochi brand italiani che aumentato la propria forza. Nel 2013, Ferrari era il marchio più forte (BSI) del mondo, nonostante fosse solo al 350esimo posto tra i 500 marchi globali di maggior valore.

Uscendo dall’automotive, il re dei brand italiani è Ferrero, che con i marchi Kinder (+59%), Ferrero (+47%) e Nutella (+37%), ha maggiormente aumentato il proprio valore in termini percentuali insieme a Mediaset (+40%). Sia Kinder sia Nutella sono tra i pochi brand italiani ad aver incrementato la forza.

Tra i brand italiani, fanno segnare un’ottima crescita in valore Gucci (6.712 milioni di dollari), Edison (1.074), Eni (8.037 mln) e Armani (2.889).

Dando uno sguardo al mondo, nella Brand Finance Global 500 i marchi con maggior valore (BV) sono Apple, Samsung, Google, mentre i più forti (BSI) sono Lego, PricewaterhouseCoopers e RedBull.

Fiat Chrysler Automobiles, cresce l’utile netto

A un anno dalla fusione tra Fiat e Chrysler, che ha dato vita a Fca, Fiat Chrysler Automobiles, si comincia a vedere qualche risultato. Sono infatti arrivati i primi dati finanziari del gruppo, relativi all’anno 2014.

Il dato più rilevante riguarda gli utili netti, che sono saliti a 632 milioni di euro. I vertici Fiat si aspettavano comunque una performance su questi livelli, che sono in linea con quanto era stato previsto dopo i risultati conseguiti nel corso dell’ultimo anno. I ricavi sono saliti a 96,1 miliardi di euro (+11% sul 2013), con un risultato operativo pari a 3,7 miliardi di euro. Il debito netto industriale si è invece attestato nel 2014 a 7,7 miliardi di euro, in calo rispetto al 2013.

Il gruppo ha fatto registrare buone performance di vendita soprattutto nei mercati del Medio Oriente, del Nord America e, finalmente dell’Europa, che dopo tanti anni consecutivi di crisi ha dato finalmente qualche segnale di risveglio soprattutto per Fiat.

Il risultato dell’utile netto ha indotto il Cda di Fiat Chrsysler a raccomandare di non distribuire alcun dividendo per il 2014, per rafforzare ulteriormente i mezzi finanziari del gruppo in previsione del 2015 mettendo a disposizione di Fca maggiori risorse per il raggiungimento degli obiettivi ambiziosi fissati per il quinquennio 2015-2020.

Ambizioni soprattutto in termini di modelli che, come annunciato tempo addietro dall’ad di Fiat Chrysler Marchionne, saranno almeno 20 e trasversali a tutti i marchi del gruppo. Sotto i riflettori soprattutto Alfa Romeo e Maserati, che dovranno essere rilanciati per conquistare nuove quote di mercato nei segmenti che sono nel loro dna, quelli premium.

Ad Exor il 46,6% dei diritti di voto di Fiat

Borsa Italiana ha appena annunciato importanti cambiamenti relativi al capitale sociale di Fiat Chrysler Automobiles.

E’ stato deciso, infatti, che esso sarà composto da oltre 1,2 miliardi di azioni ordinarie e da 408,95 milioni di azioni a voto speciale.

Questi titoli incorporano un diritto di voto addizionale e sono state assegnate a chi ne ha fatto richiesta dopo l’approvazione della fusione di Fiat in Fiat Chrysler.

Ma non è tutto, poiché Exor, azionista di riferimento, pare abbia fatto richiesta per i titoli a disposizione e potrà contare, per quanto riguarda i diritti di voto, su una percentuale del 46,6%, rispetto a una quota del 30% del capitale.

Vera MORETTI

Automotive, vendite giù ad agosto

Nonostante il trend su base annua resti positivo, ad agosto si ferma la crescita del mercato dell’auto con le immatricolazioni in calo del -0,2% rispetto all’anno scorso. Solo la neonata Fiat Chrysler Automobiles ha immatricolato nel mese appena conclusosi quasi 15 mila vetture (il 6,9 per cento in meno rispetto all’anno scorso), per una quota del 27,6 per cento, -2 per cento in confronto allo stesso mese del 2013, ma in crescita di 0,3 punti percentuali rispetto a luglio 2014.

«Il calo delle immatricolazioni in agosto è stato con ogni probabilità influenzato anche dall’annuncio dato dal ministro Lupi a fine luglio sull’intenzione del Governo di adottare incentivi sotto forma di agevolazioni fiscali a favore degli acquirenti di auto nuove secondo una formula ispirata a quella adottata per le ristrutturazioni edilizie – ha spiegato Gian Primo Quagliano, presidente del Centro Studi Promotor (Csp) – ed è noto che l’annuncio di incentivi non seguito immediatamente dalla loro adozione ha un effetto depressivo sulla domanda in quanto molti potenziali acquirenti rinviano decisioni di acquisto già maturate per poter beneficiare degli incentivi».

JM

 

A febbraio, aumento per le immatricolazioni auto

Il mese di febbraio ha segnato un incremento delle auto immatricolate nei 28 Paesi Ue dell’8% rispetto allo stesso mese del 2013.
In tutto, le immatricolazioni nei primi due mesi dell’anno sono state 1.796.787 (+6,6%).

I dati sono stati resi noti dall’Acea, l’associazione dei costruttori europei e, in termini di volumi, si tratta del secondo risultato più basso per il mese di febbraio da quando l’Acea nel 2003 ha iniziato le rilevazioni nell’Europa allargata.

L’unico mercato a subire un calo è stato quello francese, con 141,290 immatricolazioni, pari a -1,4% rispetto allo stesso mese 2013.
Tutti gli altri Paesi contribuiscono alla crescita del mercato europeo, con incrementi che vanno dal +3% della Gran Bretagna (68.736) al +4,3% della Germania (209.349) al +8,6% dell’Italia (118.328) al +17,8% della Spagna (68,763).
Nei due mesi la crescita maggiore è in Spagna (+13,1% rispetto all’analogo periodo 2013), seguita da Gran Bretagna (+6,1), Italia (+6%) e Germania (+5,7%).
Unico segno rosso un Francia (-0,5%).

Buone notizie arrivano anche da Fiat Chrysler Automobiles, che ha immatricolato a febbraio in Europa oltre 59 mila vetture, il 5,8% in più rispetto allo stesso mese 2013.
Nel primi due mesi 2014, Fca ha immatricolato oltre 119mila vetture (+1,7% sui 2 mesi 2013), la quota è stata del 6,4% (era 6,7%).

Vera MORETTI