Imprenditori stranieri in Italia, exploit dei cinesi

Non è una novità il fatto che il tessuto delle imprese italiane deve ringraziare anche il grande numero di imprenditori stranieri se è riuscito a passare senza la bufera della crisi senza morire del tutto. In Italia, infatti, le imprese guidate da imprenditori stranieri (ossia le persone nate all’estero titolari di cariche imprenditoriali all’interno delle imprese registrate nelle Camere di Commercio) continuano a crescere.

Secondo una rilevazione della Cgia, tra il 2013 e il 2014 sono aumentate del 4,1% e hanno superato, in valore assoluto, le 733.500 unità. Quelle condotte da imprenditori stranieri cinesi hanno fatto segnare un boom: +5,1% nell’ultimo anno, poco meno di 70mila (69.500).

Analizzando la provenienza geografica degli imprenditori stranieri, il Marocco è il Paese che ne dà all’Italia di più, 74.520, seguito da Romania (70.104) e Cina (69.401). Rispetto al 2009, anno in cui la crisi economica ha iniziato a mordere davvero, le attività cinesi sono aumentate del 39,2%, contro un incremento medio degli imprenditori stranieri in Italia del 22,5%.

Se l’incidenza degli imprenditori stranieri sui residenti stranieri in Italia è del 14,6%, quelli cinesi sono il 26,1%, presenti maggiormente nei settori del commercio, con quasi 24.571 attività, del manifatturiero, con poco più di 18.450 e della ristorazione-alberghi e bar, con quasi 14.800 attività. In crescita la presenza di imprenditori stranieri cinesi nel settore dei servizi alla persona: sono poco più di 4.100 unità, ma tra il 2013 ed il 2014 l’aumento è stato del 22,4%.

Significativa l’analisi che la Cgia fa sulle rimesse inviate in patria dagli imprenditori stranieri cinesi, ossia quanto denaro inviano al loro Paese d’origine. A causa della crisi economica, negli ultimi tre anni il calo è stato del 69,4%. Se nel 2012 i cinesi inviavano in patria circa 2,67 miliardi di euro, questo valore è sceso a 1,10 miliardi nel 2013 e a 820 milioni nel 2014. Inoltre, mentre nel 2012 le rimesse dei cinesi erano il 39,1% di quelle totali, nel 2013 sono scese al 19,8% e nel 2014 al 15,4%.

L’impresa italiana? La salveranno gli extracomunitari

 

di Davide PASSONI

Qual è la strada maestra da seguire per non far morire l’impresa italiana? Forse ce l’ha indicata Confesercenti con la sua indagine sulle nuove imprese in Italia: affidarsi agli stranieri. Paradossale? No, comprensibile, specialmente alla luce di una tendenza emersa dallo studio; il 44% delle imprese individuali straniere in Italia svolge attività di commercio, il 26% opera nel settore delle costruzioni e il 10% nella manifattura: ebbene, tra questi settori domina il commercio, comparto nel quale gli extracomunitari si sono concentrati su forme di impresa più semplici, nelle quali oneri amministrativi e burocratici in capo all’imprenditore sono minori. Ossia: minore burocrazia, fiscalità meno stringente per produrre maggior reddito e maggiori margini.

Analizzando le fredde cifre di Confesercenti, l’80% delle ditte si concentra nei 3 comparti di cui sopra, dove anche la crescita malgrado la crisi è stata sostenuta: +7,3% per le imprese del commercio, + 3% per le imprese edili, +3,6% per la manifattura (le imprese individuali negli stessi comparti registrano variazioni negative: -0.5%, -1.3%, -2.2%). Nei primi nove mesi del 2012, a un saldo positivo (tra iscrizioni e cessazioni) di 13mila imprese individuali con titolare immigrato, ne corrisponde uno negativo di oltre 24mila unità per le restanti. Nel terzo trimestre di quest’anno, le imprese individuali registrano un saldo positivo di 5mila unità di cui l’85% è dato da imprese di immigrati.

In dieci anni, poi, il peso delle imprese con titolare straniero, sul totale delle imprese italiane, è passato dal 2% a quasi il 9%: nel 2012 gli imprenditori immigrati sono circa 300mila, più 120mila soci stranieri. Dato da sottolineare e su cui riflettere: le imprese gestite da stranieri producono circa il 5,7% della ricchezza del Paese.

Da dove vengono i “salvatori” della piccola impresa italiana? Principalmente dall’Africa, per motivi storici e geografici: Marocco (57mila imprese), Senegal (circa 16mila), Egitto (circa 13mila), Tunisia (12mila). Poi la Cina (quasi 42mila imprese) e l’Albania (oltre 30mila). Nel Nord Italia si concentrano le attività dell’artigianato e i lavoratori dipendenti dalle imprese; al Centro vincono il settore domestico, quello dell’edilizia e il comparto tessile e abbigliamento; al Sud, commercio e lavoro agricolo.

Insomma, analizzando le cifre e trasformandole in tendenze, traspare chiarissimo un fatto: gli imprenditori extracomunitari si stanno dimostrando più furbi dei nostri, provando a combattere la crisi senza cercare performance esaltanti ma puntando alla sopravvivenza in attesa della ripartenza. Questa crisi sta facendo numerosi morti e feriti gravi (in senso figurato): chi sopravviverà, nel momento in cui l’economia tornerà a girare avrà molto più spazio per crescere e aggredire il mercato. Loro sembra che lo abbiano capito, perché come sostiene Confesercenti, la scelta del commercio assicura la stabilità dell’occupazione anche in periodi di crisi offrendo garanzia alla regolarità del soggiorno e si fa espressione della volontà di riscatto da ruoli subalterni.

Venuti nel nostro Paese per salvare se stessi dalla miseria, gli extracomunitari che si fanno imprenditori di trovano nella situazione di essere loro a salvare l’economia italiana. Viva la globalizzazione.