Imprese familiari resistenti alla concorrenza

In occasione del convegno annuale di Aidaf, l’associazione delle aziende familiari, sono stati resi noti alcuni dati molto importanti che testimoniano come le imprese familiari siano perfettamente in grado di reggere la concorrenza.
In particolare, tra il 2011 e il 2015, in queste aziende gli occupati sono aumentati del 15%, che equivalgono a 291.309 unità. Nello stesso periodo, ad aumentare sono stati solo cooperative e consorzi, cresciuti in organico rispettivamente del 10,5 e dello 0,9%.
Al contrario, le società pubbliche, quelle controllate da fondi e le filiali di imprese estere hanno subito una contrazione del 12,8, 7,6 e -0,2%.

Ad assumere sono soprattutto le aziende con un fatturato compreso tra 100 e 250 milioni, che negli ultimi quattro anni hanno registrato un aumento del 20%.
Tra queste, nelle prime 100 posizioni, ce ne sono 40 a capitale familiare, tra le quali spiccano sicuramente Exor degli Agnelli, Ferrero, Luxottica dei Del Vecchio ed Esselunga di Caprotti.

Aidaf ha predisposto, per le aziende familiari non quotate in borsa, un codice di autodisciplina, che individua, tra gli altri elementi elencati, il ruolo centrale assegnato all’assemblea per una piena informativa di tutti i soci, in particolare quelli non impegnati in azienda; il suggerimento di avere un consiglio di amministrazione al posto dell’amministratore unico e con almeno un consigliere non familiare, meglio se indipendente. Per le maggiori imprese familiari il consiglio di evitare la concentrazione della carica tra presidente e amministratore delegato nella stessa persona, caso parecchio frequente.

Vera MORETTI

Obbligo di tutele anche per le imprese familiari

E’ stato deciso, con la sentenza n. 20406/2017 della Corte di Cassazione, che le disposizioni di sicurezza per l’utilizzo delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale previste dal decreto legislativo n. 81/2008, il Codice Unico della Sicurezza, si applicano anche altre imprese familiari.
Questo significa che il premio INAIL è dovuto anche per i collaboratori dell’impresa familiare e che, in caso di decesso per infortunio sul lavoro, deve essere riconosciuto alla moglie del collaboratore deceduto la costituzione della rendita.

Con la stessa sentenza la Cassazione ha stabilito anche il diritto dell’INAIL alla rivalsa, nel caso in cui il titolare non abbia predisposto adeguate misure di sicurezza, anche se con il collaboratore familiare non c’è rapporto di subordinazione.

In questa particolare sentenza, i giudici hanno riconosciuto alla titolare di un’impresa familiare, coniuge del lavoratore deceduto per infortunio professionale, il diritto alla costituzione della rendita come superstite, confermando la compensazione con quanto richiesto dall’INAIL a titolo di rivalsa per i premi non versati come datrice di lavoro.

La decisione è stata motivata ricordando che:

  • la legge prevede che la titolarità dei poteri di organizzazione e gestione anche in materia di sicurezza sul lavoro rimangono in capo all’imprenditore;
  • alla titolarità dei poteri di organizzazione e gestione posti in capo all’imprenditore corrisponde simmetricamente il dovere di predisporre le necessarie misure di sicurezza a favore dei partecipanti che prestano l’attività soggetta a rischio assicurabile;
  • i partecipanti all’impresa familiare che prestano la loro opera in maniera continuativa nella stessa impresa rientrano comunque tra i soggetti assicurabili INAIL.

Vera MORETTI

Imprese familiari: quali e quando possono essere definite tali?

Esistono ancora oggi dubbi che riguardano le imprese familiari, e precisamente quando possono essere definite tali e quando, invece, no.

Gli ultimi dubbi sono stati eliminati da una sentenza della Corte di Cassazione, e precisamente la numero 2472/2017, che ha analizzato il caso di una verifica fiscale condotta dalla Guardia di Finanza nei confronti un impresa familiare operante nel settore del commercio al dettaglio di prodotti di tabaccheria e di piccola oggettistica.

E’ stato stabilito, quindi, che requisito necessario perché un’azienda possa essere definita impresa familiare è l’esistenza di un atto pubblico o scrittura privata autenticata che attesti la partecipazione dei familiari dell’imprenditore all’attività di impresa.

Inoltre, nell’atto pubblico o nella scrittura privata autenticata, deve risultare l’indicazione nominativa dei familiari partecipanti all’attività di impresa. L’atto deve essere regolarmente sottoscritto dall’imprenditore dai familiari.

Ovviamente, l’atto dovrà avere data anteriore al periodo di imposta in riferimento al quale l’imprenditore abbia indicato nella dichiarazione dei redditi le quote attribuite a singoli familiari e l’attestazione che le stesse sono proporzionate alla qualità e alla quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa in modo continuativo è prevalente.
Anche familiari partecipanti dovranno attestare nella propria dichiarazione dei redditi di aver lavorato nell’impresa familiare in modo continuativo e prevalente.

Se viene a mancare anche uno solo di questi requisiti, non è possibile parlare di impresa familiare, né può essere applicato il trattamento fiscale dei redditi prodotti dalle imprese familiari previsto dall’articolo 5, comma 4, del Tuir e i compensi percepiti dai parenti collaboratori non possono essere assimilati a reddito di impresa ma devono essere considerati reddito da lavoro.

Vera MORETTI

Imprese familiari e passaggio generazionale

In Italia e nel mondo, le imprese familiari producono circa il 70% del prodotto interno lordo globale, stando ai dati della ricerca “Up close and professional: the family factor”, condotta da PWC nel 2014. Per molte di esse il cosiddetto passaggio generazionale rappresenta spesso non tanto una sfida, quanto un problema. Sempre secondo la ricerca, nei prossimi 5 anni il 40% delle imprese familiari cercherà di rendere più organizzata e professionale la propria attività di impresa, anche in previsione del passaggio generazionale.

Numeri, questi della ricerca, che divergono su alcuni aspetti importanti, specialmente su quello del fatturato. Nel mondo, infatti, il 65% delle imprese familiari lo ha visto crescere, mentre in Italia l’incremento ha interessato solo il 52% di esse a fine 2014, addirittura in calo rispetto al 2012, quando era al 60%.

Del resto, la ricerca sottolinea come, a livello globale, il 53% dei soggetti intervistati ha pianificato la successione dei ruoli senior nelle proprie imprese familiari, percentuale che, in Italia, crolla al 35%.

Eppure certi aspetti, specialmente da noi, dovrebbero essere presi in considerazione dai titolari di imprese familiari, perché un’operazione di passaggio generazionale e di successione ha anche degli impatti fiscali importanti sull’azienda.

Al momento, infatti, l’Italia è uno dei Paesi europei che gode dell’aliquota più bassa per l’imposta di successione e donazione: dal 4% all’8%. Un vantaggio notevole, visto che in Paesi come la Francia vige una aliquota massima del 40% e in Germania del 50%. Da noi, invece, l’imposta di successione in linea retta prevede una franchigia di 1 milione di euro, che scende a 100mila euro per i fratelli e le sorelle. Un’occasione da sfruttare per le imprese familiari che hanno in previsione la gestione del passaggio generazionale.

Purché, però, siano sufficientemente managerializzate. Ancora la ricerca PWC sottolinea infatti come sia proprio il passaggio generazionale il tallone di Achille delle imprese familiari che non hanno intrapreso un corretto percorso di managerializzazione. Nel mondo, solo il 16% delle imprese familiari sostiene di avere già avviato processo di successione, in Italia solo il 9% di loro.

Le aziende familiari battono la crisi

Le aziende familiari hanno risentito della crisi ma sono state in grado di resistere meglio rispetto alle aziende caratterizzate da altre forme proprietarie, soprattutto quando hanno intrapreso processi di internazionalizzazione.

Questa in estrema sintesi le evidenze emerse della sesta edizione dell’Osservatorio AUB sulle aziende familiari italiane, promosso da AIdAF (Associazione Italiana delle Aziende Familiari), UniCredit, Cattedra AIdAF-EY di Strategia delle Aziende Familiari in memoria di Alberto Falck (Università Bocconi) e Camera di Commercio di Milano.

Lo studio è basato sull’analisi dei bilanci di tutte le 4.100 aziende familiari italiane con ricavi pari o superiori a 50 milioni di euro, le quali rappresentano il 58% del totale delle aziende (di tali dimensioni) operanti nel nostro Paese. L’Osservatorio AUB costituisce uno strumento molto significativo che consente di cogliere le principali caratteristiche e dinamiche del tessuto economico familiare italiano.

Il campione osservato, pur avendo mantenuto dal 2007 ad oggi una numerosità solo in lieve calo, ha visto un forte ricambio al proprio interno (circa il 40% delle aziende è infatti uscito ed è stato sostituito da nuove entranti), a riprova di come il perdurare della crisi rappresenti – da un lato – un meccanismo di selezione naturale e – dall’altro – un’opportunità per porre in essere cambiamenti di assetto e di strategie volti a creare i presupposti per una migliore risposta delle aziende familiari alla crisi stessa e alle sfide di mercati sempre più competitivi e globali.

Dopo essere state tra il 2008 e il 2009 la tipologia di aziende che ha maggiormente accusato l’impatto della crisi, le aziende familiari sono riuscite – più delle altre – a invertire la tendenza e intraprendere percorsi di crescita (lo dimostra il divario positivo di 10 punti di incremento del fatturato realizzato tra il 2009 e il 2013 rispetto alle non familiari). Sul fronte della redditività (ROI, ROE) il quadro è invece meno positivo, in quanto le aziende familiari, pur continuando in assoluto a far registrate performance migliori rispetto alle altre,  hanno fatto registrare un più debole recupero rispetto alla situazione pre-crisi.

Ancora difficile rimane la capacità delle aziende familiari di ripagare il debito, misurata dal rapporto PFN/EBITDA, che si attesta a 6,1 (rispetto al 4,8 delle non familiari). Ciononostante, i dati AUB indicano come circa 1 azienda familiare su 5 abbia liquidità in eccedenza rispetto allo stock di debito finanziario, che l’incidenza delle aziende con EBITDA negativo è inferiore nella categoria delle familiari (6% contro l’11% delle non familiari) e che le aziende familiari nel corso del 2013 hanno ulteriormente ridotto la propria dipendenza dal capitale di terzi (migliorando dunque il proprio livello di patrimonializzazione) senza compromettere la propria propensione a investire.

Un costante punto di attenzione resta quello del ricambio generazionale: da un confronto tra i dati ISTAT e quelli dell’Osservatorio emerge come il trend di ricambi al vertice continui a diminuire – complici forse le difficoltà e incertezze legate alla perdurante crisi economica – con il risultato che un quinto delle aziende familiari osservate ha un leader ultrasettantenne.

Principale elemento di novità che caratterizza la sesta edizione dell’Osservatorio AUB è la realizzazione di un confronto con le prime 300 aziende (per fatturato) localizzate in 5 tra i principali Paesi dell’Unione Europea: Francia, Germania, Regno Unito, Spagna e Svezia.

Dall’analisi emergono conferme importanti e interessanti spunti di riflessione. Sul versante delle conferme si rileva in particolare che l’Italia è il Paese in cui la presenza di aziende familiari è più rilevante (40,7%) – seguita dalla Germania (36,7%) e dalla Francia (36%), che la capacità di crescere delle aziende di maggiori dimensioni non è collegata all’andamento del PIL del Paese di appartenenza – a riprova del fatto che per poter crescere le aziende debbono inevitabilmente internazionalizzare.  In 4 dei 6 Paesi considerati le aziende familiari, tra il 2007 e il 2012, sono cresciute di più rispetto a quelle non familiari; fa eccezione soprattutto la Spagna (dove le aziende familiari sono cresciute meno). Inoltre, in tutti e 6 i Paesi, l’effetto della crisi ha impattato maggiormente sui livelli di redditività (ROE) delle aziende familiari (più che delle non familiari).

Il benchmarking sul fronte dei modelli di leadership e di governo mette poi in evidenza come l’Italia sia il Paese con la maggiore incidenza di leader familiari (51,3% rispetto al 33% di Francia e Germania) e che Italia e Spagna siano i Paesi in cui la presenza di consiglieri familiari è più rilevante (“1 su 3” contro “1 su 7” della media degli altri quattro Paesi).

Sicilia: +60% per le imprese familiari

La piccola e media imprenditoria premia la Sicilia. E’ l’azienda a conduzione familiare a registrare i tassi di crescita maggiori nell’ultimo decennio nell’isola, e anche su scala nazionale.

Nel decennio 2000-2010 le aziende siciliane a conduzione familiare hanno registrato un aumento del fatturato pari al 146%,  60 punti in più rispetto alla media nazionale, secondo  quanto rivela un’indagine condotta dall‘Osservatorio AUB, promosso da AIdAF (Associazione Italiana Aziende Familiari) e dal gruppo UniCredit.

La ricerca è stata avviata dalla Cattedra AidAF – Alberto Falck di Strategia delle aziende familiari, dell’Università Bocconi con il supporto della Camera di Commercio di Milano nel 2009. Il focus dell’indagine si è concentrato su strutture, dinamiche e performance di tutte le aziende familiari italiane con ricavi superiori a 50 milioni.

A Valledolmo, in provincia di Palermo sono stati resi noti i risultati riguardanti le aziende made in Sicily. Il dato emerso è sorprendente: nel decennio 2000-2010 le aziende siciliane a conduzione familiare hanno registrato un aumento del fatturato pari al 146%, mostrando un trend di crescita superiore di oltre 60 punti rispetto alla media dell’Osservatorio AUB.

Ma come si spiegano questi numeri in un momento così difficile e precario per l’economia italiana? La crescita esponenziale è riconducibile, secondo AUB, almeno in parte all’incremento in termini di fatturato del settore del commercio e trasporti, a cui appartengono la maggior parte delle aziende familiari siciliane.

AUB ha poi evidenziato alcune caratteristiche strutturali dei settori impiegati nella piccola e media impresa in Sicilia: prima fra tutte, la minore incidenza del peso degli investimenti nel commercio, ovvero dinamiche competitive meno marcate nei trasporti. La quasi totale assenza di operazioni di M&A avvenute nel corso dell’ultimo decennio sembra confermare come il trend di crescita sia dunque imputabile ad un aumento della domanda interna del settore, e non ad una crescita per linee esterne.

”L’Osservatorio AUB rappresenta una fotografia accurata, basata su un’analisi rigorosa del mondo dell’impresa familiare italiana – ha sottolineato Dario Prunotto, responsabile del Private Banking di UniCredit in Italia. – La conoscenza approfondita del tessuto imprenditoriale e, nello specifico, delle aziende familiari ci ha condotti a un progressivo affinamento del modello di servizio specificatamente destinato a questo segmento di clientela”.

A.C.

Food Made in Italy alla conquista del web: Olio Carli e l’e-commerce

di Davide PASSONI

In un momento difficile come questo ci piace raccontare storie di imprese italiane piccole e grandi, giovani e storiche, che da realtà familiari sono partite alla conquista dell’Italia e del mondo. Una di queste è la Fratelli Carli, icona del food e pezzo di storia italiana, con i suoi camioncini dai colori e dalla scritta retrò che da cento anni fanno su e giù per lo Stivale a consegnare il loro olio d’oliva, oro verde dell’economia agroalimentare italiana. Chi meglio di Lucio Carli, consigliere di amministrazione di Fratelli Carli Spa, può raccontare come vincere sul mercato, non solo grazie alla propria storia?

Fratelli Carli è un’icona del food e dell’impresa italiani. Come sposate oggi tradizione e modernità?
Nella continuità della relazione con il cliente; è sempre stata il nostro nucleo centrale, per poter proporre al mercato un prodotto di qualità e per fidelizzare il cliente stesso dall’arrivo dell’ordine fino alla consegna a casa della merce. Oggi questa relazione è ancora più fondamentale in tutte le nostre attività; la centralità del cliente ci ha fatti crescere sia come portafoglio prodotti sia come novità che proponiamo al mercato.

Tipo?
Tipo una novità che sembra andare un po’ in contraddizione con la nostra storia e il nostro marchio: l’apertura dei nostri punti vendita. Abbiamo aperto prima un flagship store a Padova, poi un emporio a Imperia, poi un punto vendita in centro a Torino, un negozio che esplora la multicanalità in cui si declinano ormai i nostri prodotti.

Ma siete anche molto forti sull’e-commerce…
Cetto. Siamo sì molto legati al passato – pensi che il mio bisnonno era tipografo e abbiamo ancora una tipografia all’interno dell’azienda – ma nonostante questo legame, la nostra volontà è quella di cercare l’innovazione. A ottobre 1996 abbiamo ricevuto il primo ordine online e possiamo considerarci tra i primi in Italia a vantare questo canale di acquisizione di ordini. Ci abbiamo creduto 100 anni fa, ci crediamo oggi, non abbiamo mai tradito la nostra vocazione.

Il commercio elettronico vi dà anche soddisfazioni “numeriche”?
Il transato online dell’azienda è intorno al 14% del fatturato, una cifra molto importante specialmente in Italia. Dall’estero, invece, facciamo circa il 30% di ordini tramite l’online, in Paesi come Germania, Francia, Svizzera, Inghilterra. Lo vediamo anche nella cosmetica, dove abbiamo realizzato una “brand extension” con il marchio Mediterranea.

E in generale, come va il fatturato della Fratelli Carli?
In crescita, particolarmente sull’online. L’esperienza nei negozi, poi, non vuole essere un sostitutivo dell’acquisto a distanza ma un modo per dare al cliente di provare un’esperienza in più.

E all’estero?
Sull’alimentare siamo forti in Francia, Germania, Svizzera, Austria, Inghilterra e abbiamo creato una Fratelli Carli Usa per avere un presidio laggiù: un mercato che va molto bene, con tassi di redemption incredibili. Di fatto, negli Usa – e non solo – vendiamo ciò che siamo: 100 anni di esperienza su un prodotto molto importante come l’olio d’oliva, che negli Stati Uniti ha un ottimo mercato.

Cina?
La guardiamo, ma vogliamo capire prima quel mercato e poi trovare il modo giusto per presidiarlo.

Quanto è vincente abbinare Carli, olio d’oliva e made in Italy?
Di sicuro la nostra penisola sull’olio ha una forza importante e il nostro brand ha una grande tradizione. Oggi il sistema Paese dovrebbe fare di più per salvaguardare il made in Italy, perché non c’è una politica commerciale così forte che possa guidare la crescita e la penetrazione all’estero. Ci vorrebbe una visione comune più forte.

E anche fare squadra tra imprese…
Il dialogo tra imprenditori c’è, ma è più difficile concretizzare una visione unica. Per il futuro è l’unico modo per fare fronte comune nell’area food in Italia. Si tratta di una sfida importante; se andiamo all’estero e guardiamo gli scaffali dell’olio d’oliva nei supermercati, c’è maggiore scelta che da noi e il consumatore è ancora più confuso tra prodotti greci, turchi, spagnoli… C’è tanto bisogno di fare cultura e l’online potrebbe aiutare anche in questo.

Imprese familiari più brillanti con le holding

Un’attività di famiglia, se controllata da una holding, rende di più. Lo ha rilevato la ricerca “La holding dei gruppi italiani a controllo familiare” redatta da Guido Corbetta, Alessandro Zattoni e Fabio Quarato, Università Bocconi, in collaborazione con Ernst&Young. La ricerca analizza tutte le aziende familiari italiane con fatturato superiore ai 50 milioni di euro, utilizzando il database dell’Osservatorio AUB. Negli ultimi dieci anni la quota di questo tipo di aziende controllate da una holding è aumentata dal 32% al 38%, sulla spinta dei vantaggi in termini di redditività (il return on equity delle aziende controllate è infatti del 5,4%, contro il 4,5% delle altre) e di capacità di rimborso del debito (il rapporto tra l’indebitamento finanziario netto e il margine operativo lordo infatti è di 6,6 nelle aziende controllate da holding, contro il 5,6 delle non controllate). Tale soluzione tuttavia si traduce in una crescita più lenta: fatto 100 il fatturato del 2006, nel 2009 le aziende controllate da una holding si attestavano a 103, contro il 106 delle altre. Ad avere i risultati migliori sono le strutture più semplici, ovvero quelle che registrano la catena di controllo più breve (un solo livello: la holding controlla direttamente la capogruppo industriale) e, tra queste, quelle in cui la holding svolge attività più limitata, senza aggravi di costi e duplicazioni di strutture spesso già presenti nelle società controllate. Non è un caso, allora, che la catena di controllo a un solo livello interessi il 74,3% delle società, quella a due livelli il 22,5% e solo il 3,2% faccia parte di gruppi con tre o più livelli.

Fonte: Ansa.it

Imprese familiari, scudo dell’occupazione

La cosa più importante? La famiglia. No, non è un refrain in stile “Il Padrino“, ma è un dato di fatto che si riscontra nel mondo dell’impresa italiana, piccola e media. Anche nelle difficoltà economiche dell’ultimo triennio, infatti, le imprese familiari hanno dato il contributo più significativo all’occupazione, come rileva la terza edizione dell’Osservatorio AUB su tutte le aziende familiari italiane di medie e grandi dimensioni. L’Osservatorio è stato realizzato da Guido Corbetta, Alessandro Minichilli e Fabio Quarato della Cattedra AIdAF-Alberto Falck di Strategia delle aziende familiari della Bocconi in collaborazione con AIdAF (Associazione italiana delle aziende familiari), gruppo UniCredit e Camera di Commercio di Milano.

L’Osservatorio analizza le aziende italiane con un fatturato superiore ai 50 milioni di euro (che sono 6.816) e si sofferma sulle caratteristiche e le performance di quelle a controllo familiare (3.893, il 57,1% delle medio-grandi imprese italiane, ridotte 2.423 dopo l’eliminazione delle sovrapposizioni dovute agli intrecci proprietari).

Nel periodo 2007-2009 le imprese familiari hanno accresciuto il numero di dipendenti del 12,1%, rispetto ai risultati più modesti di cooperative e consorzi (+3%) e coalizioni (+2%) e a quelli negativi di filiali di multinazionali (-4,2%), aziende statali (-10%) e controllate dal private equity (-14,3%).

Anche se il numero di imprese familiari di medio-grandi dimensioni si è ridotto, nell’ultimo anno, di 328 unità, le aziende familiari si sono dimostrate più resistenti di altre a operazioni straordinarie (solo 200 aziende ne sono state coinvolte) e solo nel 58,5% dei casi si trattava di operazioni di M&A (81% per le multinazionali, 75% per quelle a controllo statale; 68% sia per le coalizioni che per cooperative e consorzi).

Lazio, Puglia, Sicilia e Trentino Alto Adige, in controtendenza rispetto al dato complessivo, hanno visto aumentare il numero delle aziende familiari; le flessioni maggiori si sono riscontrate in Toscana, Friuli Venezia Giulia, Umbria e Abruzzo. Le regioni con le performance reddituali migliori sono Lombardia, Veneto, Liguria, Toscana, Lazio, Abruzzo, Campania.

Le aziende familiari sono tra quelle che hanno accusato di più la crisi, ma che sembrano aver risposto meglio ai primi segnali di ripresa. Nel 2010 hanno registrato una crescita del 7%. Anche la redditività è tornata a crescere nel 2010, attestandosi però ancora a livelli inferiori a quelli pre-crisi: il ROI è cresciuto dal 6% al 7,2%, ma nel 2007 era al 9,8%, mentre il ROE è cresciuto dal 4,3% al 6,7%, ma nel 2007 era al 10,7%.

Resta critico l’indebitamento, con oltre la metà delle imprese che denuncia un rapporto tra posizione finanziaria netta ed Ebitda superiore alla soglia d’allarme di 4, e una media che si attesta ben al di sopra (6,4). Il dato è però controbilanciato da due novità positive: l’incremento delle aziende con disponibilità liquide in eccedenza rispetto ai debiti finanziari (dal 16,3% del 2008 al 19,4% del 2010) e la riduzione delle aziende con Ebitda negativo (solo il 4,1%).

La sfida che le imprese familiari dovranno affrontare nei prossimi anni – sottolinea Guido Corbetta, titolare della Cattedra AIdAF-Alberto Falck di Strategia delle aziende familiari – è quella della complessità. Le imprese familiari tendono a mantenere strutture proprietarie e gestionali piuttosto semplici, forti dei buoni risultati che queste conseguono. Quando la strategia si fa più complessa, anche la struttura deve diventare più complessa rendendo necessari innesti manageriali dall’esterno, che tuttavia occorre imparare a saper gestire con equilibrio“.