C’è un gran bisogno di Terraferma

Quando un imprenditore sente la propria azienda e la propria vita sballottate dalle onde della crisi, sul punto di affondare, la cosa che vorrebbe di più al mondo è approdare sulla terra ferma. E proprio Terraferma si chiama l’iniziativa di sostegno psicologico gratuito per gli imprenditori in difficoltà, nata all’interno del network Imprese che Resistono.

Perché, come sostiene Massimo Mazzucchelli, imprenditore del Varesotto e responsabile del progetto Terraferma, la prima mossa che bisogna fare di fronte alla richiesta di aiuto da parte di un imprenditore ormai senza alcuna speranza è riportarlo a confrontarsi con la realtà, riportare il problema alle sue giuste dimensioni senza che si assolutizzi. Tanti drammi possono essere evitati se presi in tempo, bisogna solo evitare che l’imprenditore resti solo: a lui e a chi lo sostiene, poi, il compito di uscire dal tunnel.

Leggi l’intervista a Massimo Mazzucchelli

Imprese alla ricerca di Terraferma

 

Imprese che resistono, imprenditori che devono resistere. Di fronte alla crisi, al timore di doversi trovare nella situazione di licenziare i propri indipendenti o alla paura del fallimento, molti imprenditori decidono di togliersi la vita. Altri invece riescono, con l’aiuto e il supporto di chi sta loro attorno a risalire la china, e guardare al domani.

Infoiva ha intervistato Massimo Mazzucchelli, imprenditore e responsabile del progetto Terraferma, un’iniziativa nata in senso all’associazione Imprese che resistono, per offrire un supporto psicologico immediato (gli psicologi di Terraferma sono reperibili 24 ore su 24) a chi si trova, troppo spesso inconsapevolmente, ad attraversare il momento più buio.

Com’è nata l’idea di Terraferma?
Faccio parte del movimento Imprese che resistono (ICR) dal 2009, ossia da quando è nato, e da allora ci impegniamo a denunciare come la crisi economica sempre più forte aggredisca soprattutto le piccole imprese italiane: aumentano i casi di suicidio fra gli imprenditori che non ce la fanno più. L’idea di Terraferma è nata di conseguenza: mi ricordo che all’inizio del 2012 mi era capitato di ascoltare a qualche telegiornale le parole di un Ministro italiano che ‘giustificava’, mi passi il termine, come in una situazione di grave difficoltà come quella che stiamo attraversando, sia normale che aumentino i casi di gesti estremi, un po’ come è successo in Grecia. Di fronte a queste parole, la mia prima reazione è stata di forte rabbia: non mi sembrava possibile che nessun facesse niente. Era più che mai necessario offrire a tutti gli imprenditori un sostegno immediato, soprattutto del punto di vista psicologico, e specializzato: così ho contattato un’amica psicologa e nel giro di un paio di mesi è nato il progetto Terraferma. Oggi l’iniziativa conta 30 psicologi in tutta Italia, sempre reperibili, 24 ore su 24, 7 giorni su 7.

Perché avete scelto questo nome, Terraferma?
Viviamo in una fase di cambiamento epocale, l’industria manifatturiera, un tempo cavallo di battaglia dell’italianità, viene ricollocata in altri Paesi, perchè la produzione costa meno. Ma come si crea lavoro e ricchezza allora nel nostro Paese? Se le situazioni di crisi hanno da sempre posto gli imprenditori di fronte ad una scelta, questa volta si tratta di trovarsi in un vicolo cieco, dove la piccola e media industria, da sola, non ha gli strumenti per salvarsi. Gli imprenditori vivono oggi in una situazione di tempesta, e volevamo trasmettere l’idea di una Terraferma, di un punto d’appiglio cui ancorarsi.

Qual è la sua storia da imprenditore?
Mi sono diplomato in ragioneria e sono un ingegnere mancato, nel senso che ho frequentato per un un paio d’anni il Politecnico, ma poi ho scelto di dedicarmi all’impresa di famiglia. Mio padre è mancato poco dopo, ma è da lui che ho appreso le conoscenze fondamentali per mandare avanti un’impresa: essere presenti 7 giorni su 7 in azienda e occuparsi esclusivamente dell’attività. La nostra azienda produce dispenser per nastri adesivi, si tratta di attrezzi che servono per l’imballaggio e sono quindi destinati alle aziende di produzione: l’Europa resta il nostro primo cliente, l’America secondo, mentre in Italia il nostro giro d’affari si aggira attorno al 5% del fatturato. A partire dal 2009 la nostra produzione ha subito una forte flessione, come conseguenza al calo della produzione nelle imprese di tutto il mondo. E’ proprio in quel periodo che ho capito che per un imprenditore è necessario investire almeno una parte del proprio tempo per conoscere e approfondire ciò che accade intorno alla propria azienda e nel mondo, interessarsi alla vita pubblica, alle scelte del governo, delle associazioni di categoria. la mia reazione immediata è stata quella di rimboccarmi le maniche: investire sulla produzione di nuovi articoli, produrre abbassando i i costi, creare brevetti su nuovi prodotti, affidarsi marketing on line, ma qualunque sforzo facessi di risultati sul fatturato non se ne vedevano. Nel momento più difficile mi sono avvicinato al movimento Imprese che resistono.

Quali sono le ragioni più frequenti per cui gli imprenditori si rivolgono a Terraferma?
Il problema fondamentale in Italia è la mancanza di lavoro: l’assenza di liquidità è un sintomo della mancanza di lavoro, che è la vera causa della crisi. Le ragioni per cui gli imprenditori si rivolgono a noi sono diverse: dalla banca che vuole il rientro dei Fidi, agli artigiani in difficoltà perché, per determinare quanto devono pagare di tasse, il fisco si basa ancora oggi sugli studi di settore, che non tengono conto dei momenti di crisi e del reale fatturato dell’azienda. Gli artigiani che non riescono a pagare si trovano così costretti a fare ricorso, che spesso non viene accolto, e se il pagamento non viene evaso a quel punto subentra Equitalia. Altre ragioni ancora riguardano la difficoltà a rientrare nei pagamenti con i clienti, e molto spesso il primo cliente a non pagare è lo Stato.

Perchè è importante offrire un supporto psicologico agli imprenditori che vivono sulla propria pelle l’esperienza della crisi?
L’imprenditore è abituato a fare da sé, ma in queste situazioni estreme è impensabile agire da soli. Sono spesso i famigliari a contattarci: il rischio è che l’imprenditore si chiuda in sè stesso, vuoi per la difficoltà del sentirsi chiamare tutti i giorni dalla Banca, il rischio che i fidi non vengano rinnovati, e la vergogna di sentirsi definiti evasori anche quando non si tratta di assolutamente di evasori, ma di imprenditori in ritardo con i pagamenti per mancanza di liquidità. Quello cerchiamo di fare in primis è riportare la persona a confrontarsi con la realtà, perché spesso di fronte alla tempesta si perde il contatto con chi ci sta attorno: il problema viene ingigantito e si perdono di vista le cose fondamentali, i rapporti con famiglie e i colleghi. In un secondo momento, superata la fase spiazzamento iniziale, il nostro compito è di fornire un supporto pratico alle imprese, per aiutarle a uscire dalle criticità con cui si trovano a fare i conti, mettendo a disposizione una rete di commercialisti, avvocati e consulenti finanziari.

Una fra le spinte più forti che conducono gli imprenditori a prendere la decisione più estrema, ovvero togliersi la vita, riguarda il peso di dover licenziare i propri dipendenti. Quali emozioni scatena?
Ogni imprenditore vive un senso di responsabilità nei confronti dei propri dipendenti. Questo vale soprattutto per i piccoli imprenditori, perché c’è contatto diretto, si lavora insieme, mentre nelle grandi aziende queste decisioni vengono gestite dalle risorse umane. Di fronte a una persona che molto spesso è un’amico d’infanzia, oppure un dipendente che lavora nelle tua azienda da 30 anni, i cui figli lavorano lì, risulta impossibile per un impreditore dire ‘non sono più in grado di offrirti un lavoro’. L’imprenditore vive da un lato un forte senso di respinsabilità, perchè molto spesso conosce le storie singole di ciascuna famiglia, e dall’altra parte un senso di impotenza, perchè non riesce a far fronte alla crisi e a non aumentare la produzione.

Avete vissuto in prima persona casi di imprenditori che hanno tentato il suicidio? Perchè si arriva ad una decisione così estrema?
Qualche mese fa mi è capitato di ricevere la telefonata di una persona che ‘non ce la faceva più’, ma che fortunatamente è riuscita a superare il momento più buio. Hanno contattato Terraferma anche parenti e famigliari di persone che purtroppo si sono tolte la vita e avevano bisogno di capire che cosa fare dell’azienda, come agire. Siamo in contatto inoltre con la figlia di Mario Frasacco, l’imprenditore di Roma che si è suicidato lo scorso 4 aprile, che ha voluto denunciare allo Stato la disperazione che vivono sulla loro pelle ogni giorni i titolari di aziende.

Fare impresa oggi in Italia fa paura?
Fa paura a chi la sta facendo, sono sempre di meno i piccoli imprenditori che ‘mettono’ in azienda i propri figli perché non ne vale più la pena; preferiscono indirizzarli verso lo studio, l’università e un percorso formativo fuori dall’azienda di famiglia, che molto spesso coincide con un non-ritorno. Il capitale investito in un’azienda dovrebbe remunerare sia l’imprenditore che il rischio d’impresa, ma oggi non è più così. Non c’è la soddisfazione della crescita, diminuisce la domanda interna, si allarga lo spazio d’azione ma si riducono le quantità. Si lavora sul presente, e non si guarda al futuro, purtroppo.

Alessia CASIRAGHI

“Addio Italia, con le chiacchiere non si porta il pane in tavola”

di Davide PASSONI

Dopo la prima parte dell’intervista a Laura Costato, ecco il prosieguo.

Ce la fate ad andare in Svizzera prima che accada quello che secondo lei sarà l’irreparabile?
No, siamo un’azienda piccola e pensare di fare un salto del genere in poco tempo non è credibile. Per questo parte il progetto di un consorzio etico gestionale, per il quale manderò degli inviti alle aziende che mi hanno scritto per informazioni e illustrarlo loro; un consorzio che non produce utili, serve solo a gestire tutto quello che è il back office ma rimarrà composto da soggetti giuridici separati.

Vantaggi?
Uno per tutti: se io vado a trattare una linea di credito per un pacchetto di aziende che muovono 10-15 milioni di fatturato, otterrò senz’altro delle condizioni più favorevoli che non se andasse la Costato Srl che ne muove 1. Il progetto nasce dall’esigenza di approcciare il sistema economico svizzero con una forza diversa che la piccola azienda non ha; per cui anche tutte quelle figure professionali che il piccolo imprenditore non può avere (marketing, controllo di gestione…) possono, con il consorzio, diventare organiche a esso.

Di quante aziende parliamo?
Quando parlo di consorzio parlo di 8-12 aziende, non di più; un progetto che può essere replicabile N volte ma di fatto abbastanza chiuso. spero di riuscire a farlo con aziende compatibili tra loro, in modo da poter creare una filiera: insomma, non lasciare nulla al caso, perché muoversi da qui va fatto con grande coscienza, quando si fa un salto del genere si rischia di chiudere delle porte, trovarsi di fronte a un cancello sbarrato e restare intrappolati nel mezzo. Quello che è certo è che in Italia non ci voglio restare, non solo per una questione professionale ma anche personale: non mi riconosco più nell’italiano né nella politica che lo governa. Non vedo proposte mirate: vedo una maggioranza che distoglie l’attenzione dai veri problemi creando scandali paralleli e un’opposizione che passa il tempo a criticare questi scandali. Per parte mia non si tratta di essere ottimisti o pessimisti, ma realisti.

Quindi le IMPRESECHERESISTONO… non resistono?
Io sono una parte che non resiste, perché non mi posso permettere di resistere. Per me resistere significa sopravvivere e trovare un modo di creare quella continuità aziendale che qui non è più possibile ottenere e garantire un futuro alla mia famiglia che fa questo lavoro da 50 anni, ai miei figli e ai miei dipendenti. Sopravvivere a queste condizioni significa mettere a rischio tutto quello che si è creato in 50 anni di lavoro; io non ho mai avuto paura delle banche, delle istituzioni o delle risposte che non ho avuto: il mio incubo è quello di dire alle mie persone di stare a casa. A queste condizioni, non volendo lasciarle a casa, io posso vivacchiare ancora due anni al massimo, il mio piano industriale è chiaro. Voglio fortemente andar via prima dell’irreparabile, che vedo molto vicino non solo per la mia azienda ma per l’intero sistema.

Quanti siete oggi in IMPRESECHERESISTONO?
Prima dell’uscita di questi servizi eravamo 1300 circa, ora siamo quasi 2000. La cosa triste è che non contiamo nulla; tra tutti muoviamo il doppio dei dipendenti che muove Fiat ma di noi non importa niente a nessuno.

E siete nati?
A maggio 2009.

Triste pensare che non siate riusciti a muovere nulla finora…
Nulla! Siamo partiti con delle richieste che al governo non sarebbero costate nulla se fatte limpidamente: la deducibilità Irap, l’Iva per cassa per aiutarci nella liquidità, la moratoria dei debiti fiscali, garantire la certezza dei pagamenti su media europea… Niente. E poi assistiamo a operazioni come quelle dello scudo fiscale, che fa pagare per capitali che, a mio avviso, non sono nemmeno rientrati: chi ha l’occhio lungo paga ma i capitali li lascia all’estero, non li riporta in Italia. Se io vado il banca a chiedere dei soldi devo pagare il 12% di interessi mentre queste persone che hanno evaso, hanno creato un danno al Paese, si rifinanziano pagando un 5% facendo concorrenza sleale alle aziende oneste. E se io non pago l’Iva, pago il 3% più le sanzioni il mese dopo? E’ un sistema che premia l’illegalità. E io tutti questi aiuti alle Pmi, ribadisco, non li ho visti, gli aiuti sventolati sono stati rivolti alle aziende con fatturato da 10 a 100 milioni di euro, non certo alle micro e piccole aziende che sono il 96% del tessuto economico italiano. Per me è diventato un malessere non tanto il lavorare in se stesso quanto il vivere in questo sistema.

Ha superato la fase del dispiacere di andarsene?
Io non ho dispiacere. Mio fratello e mia madre sì, io no. Facevo fatica ad accettare l’idea di trasferire l’azienda in altre realtà tipo quelle dei Paesi dell’Est, senza nulla togliere a questi ultimi, ma non mi vedo a vivere là con i miei tre bimbi piccoli. In Svizzera ci sono scuole ottime e servizi eccellenti, in svizzera mi hanno fatto sentire benvenuta. Mi hanno detto che gli svizzeri sono spocchiosi, che guardano gli italiani dall’alto in basso… ma a me non importa, io so che con le chiacchiere il pane in tavola non lo porto e qui di chiacchiere se ne sono fatte già fin troppe.

Qualcuno però avrà anche detto che la loro fiscalità da noi ce la sogniamo…
Perché il nostro sistema fiscale è profondamente ingiusto. Se io lavoro 12 ore al giorno per guadagnare 100 e 70 e rotti li devo dare allo Stato, in questo modo mi si toglie la possibilità di crescere. E poi mi si accusa di non fare innovazione. Con che soldi? Qui si vive nel controsenso, nell’aria fritta, nella chiacchiera. Tutte cose che non portano il pane in tavola. E purtroppo mi rendo conto che, sempre più, la politica è lo specchio dell’italiano medio: è anche per questo che me ne vado.

Reazioni alla sua scelta?
Da quando sono comparsa sulla stampa o in tv, nelle mail o sul nostro blog nessuno, e dico nessuno, mi ha mai rimproverato di andarmene. Mi aspettavo qualcuno che dicesse cose del tipo “hai guadagnato qui e ora te ne vai a goderti i soldi in Svizzera“, oppure “io non scappo perché sono italiano e amo l’Italia“… niente. E questo è sintomatico. Ma quando qualcuno mi scrive “ammiro il suo coraggio“, non ci siamo. Se ancora oggi il fatto di mettere la propria faccia per denunciare quello che non va è definito coraggio, vuol dire che alla base non c’è speranza.

Suo padre, che ha fondato l’azienda, sarebbe andato in Svizzera?
Per come lo conoscevo, no. Forse avrebbe delocalizzato all’Est, ma non avrebbe lasciato l’Italia.

“In Italia nessun futuro per me né per la mia impresa”

di Davide PASSONI

Laura Costato è una bella signora di 45 anni. Una imprenditrice fiera del proprio lavoro e determinata a svolgerlo nel miglior modo possibile. Per questo ha deciso che l’Italia non è più il Paese per lei; dopo essere stata tra le fondatrici del network IMPRESECHERESISTONO e aver lottato per quasi 2 anni contro i muri di gomma della burocrazia, della mala politica e del Fisco, Laura ha deciso di dire basta e di attrezzarsi per trasferire produzione, fabbrica e famiglia in Svizzera. Una storia dura, pesante, che lei stessa racconta a Infoiva in questa lunga intervista, senza peli sulla lingua. Leggetela d’un fiato e riflettete: questa è solo la prima parte, ecco la seconda.

Perché siamo arrivati a questo punto, al punto di dire “basta, chiudo, trasferisco l’attività in Svizzera”?
Alla base c’è la stanchezza di dover lottare quotidianamente per poter fare il mio lavoro e dover lottare in un Paese in cui non c’è nulla che fino ad oggi sia stato programmato per dare sostegno alle difficoltà che incontriamo come Pmi. Tutto quello che è stato pubblicizzato finora, dalla moratoria dei debiti ai fondi messi a disposizione per le Pmi e le microaziende non ci hanno in realtà portato nulla. La stanchezza nasce da qui e dal fatto che, come IMPRESECHERESISTONO, chiediamo da 20 mesi le stesse cose e non abbiamo avuto una risposta in senso positivo né negativo: un silenzio che, a mio parere, è ancora più grave che aver ricevuto una risposta negativa. Si fa passare tutto coperto da una sorta di invisibilità: noi siamo quelli che pagano, che devono stare zitti e andare avanti da soli, in un modo o nell’altro. Io non vedo futuro. Dubito che ci sia un progetto per le Pmi ma che ci siano solo la volontà di non fare nulla o l’incapacità di fare qualcosa; ci dicessero almeno che come target non interessiamo, invece di aspettare e continuare a pagare nel silenzio fino al fallimento totale: chiuderemmo e ciascuno farebbe le proprie scelte.

Chi non risponde?
Non rispondono le banche, le istituzioni, la politica, non risponde nessuno. Da tutte le porte a cui bussiamo come IMPRESECHERESISTONO non arriva risposta. Come network siamo apartitico, dialoghiamo con tutti quelli che si mettono a disposizione, ma purtroppo in Italia c’è una politica a breve termine che è quella del sondaggio: si fanno le cose perché si vuole avere il sondaggio favorevole, ma di politiche a medio e lungo termine non se ne vedono, in nessun campo. Il rovescio della medaglia è che, denunciando queste cose e parlando di Svizzera, ogni volta che esce un articolo, una notizia, un servizio alla tv io sono subissata di mail di aziende che vogliono scappare ma soprattutto di dipendenti senza lavoro o a rischio che mi scrivono “portami con te in Svizzera“. Da tutta Italia. E’ un disagio che non sentiamo solo noi imprenditori, perché oggi la gente ha fame e da questo immobilismo nasce la sfiducia, oltre che da questa politica che si gioca il tutto per tutto per avere un punto in più di sondaggio.

In quanti siete oggi nella sua azienda, la Costato Srl?
Siamo 4 dipendenti e 4 amministratori-lavoratori. Non siamo mai stati un’azienda con enormi possibilità di crescita, in quanto operiamo in un settore di nicchia: vogliamo lavorare e vivere del nostro lavoro in maniera un po’ più dignitosa.

Che mercati avete, o meglio, avevate?
Principalmente l’Italia; avevamo clienti come Piaggio, Candy, Zerowatt, De Longhi, Bosch: tutti spariti o hanno le sedi fuori Italia, qui tendono a tenere quel poco di logistica che serve il mercato locale.

La globalizzazione è dunque davvero un grande dito dietro cui nascondersi per non vedere la vera origine di certi problemi?
Per conto mio sì, perché è un fenomeno che tocca ogni Paese e ciascuno la affronta alla propria maniera. Tanti Paesi almeno ci provano, l’Italia no. Anche in Svizzera c’è crisi, ma la qualità di un Paese si vede dalle misure che mette in campo per fronteggiarla: da noi semplicemente si scantona, si finge di credere che domani le cose cambieranno.

Perché proprio la Svizzera?
Vede, quello che a me attrae della Svizzera è sì la disoccupazione bassa, al 3%, ma anche il fatto che hanno ridotto il debito pubblico con delle politiche mirate e ora cercano di portarsi in casa quelle che loro chiamano produzioni di eccellenza, ma che sostanzialmente sono quelle che fanno stare sul mercato; noi di eccellenza non abbiamo nulla, a parte la capacità di realizzare qualsiasi prodotto nella viteria, che è un know-how che in Italia pochi hanno. Non siamo certo noi che portando quattro dipendenti in Svizzera ne possiamo cambiare le sorti economiche, e come noi tante altre aziende. Loro però si stanno muovendo prima per evitare che, da qui a 10 anni, i giovani svizzeri non abbiano lavoro. Qui invece si fa il contrario: si mandano via o si fanno chiudere le aziende che sono la vera ricchezza del Paese, anche perché sono quelle che pagano.

Le Pmi…
Per quanto possa sembrare antipatico quello che dico, le grandi aziende bene o male chiudono sempre in perdita, pagano un quarto delle tasse che paga la piccola azienda, cadono sempre in piedi e nessuno si chiede mai perché. Non voglio entrare troppo in questo ambito, ma di fatto il portafoglio dell’Italia siamo noi e chi sta nel Palazzo sta chiudendo questo portafoglio, per rappezzare sistematicamente dei buchi di bilancio. Stanno facendo morire il nostro tessuto economico per mettere una pezza a danni creati da loro, ma la coperta è corta. Da qui nasce l’idea di dire, sinceramente, non ci sto, non ci sto. Non credo alle fandonie che si raccontano da due anni a questa parte, che la crisi non è una crisi eccetera. Questa non è una crisi ma un cambiamento di mercato, non è una cosa che si risolve nel medio periodo, per cui si parla di almeno 10-15 anni. se pensano che aziende come la mia possano sopravvivere 10-15 anni con la prospettiva comunque di alzare la tassazione si sbagliano.

Perché?
Faccio un esempio. La moratoria dei debiti delle Pmi è stata sventolata come la panacea di tutti i mali e si è risolta in un anno di interessi non dovuti alle banche che, d’altra parte, hanno già guadagnato; la moratoria è scaduta e ora ci ritroviamo a dover pagare le rate intere in una situazione economica invariata se non peggiorata e in più scopriamo che dobbiamo pagare le imposte di registro anticipate al 31 marzo. Che significa? Che di fronte alla prospettiva di un fallimento di massa lo Stato vuole fare cassa fin che può. Non c’è più logica in quello che si sta facendo. Se uno ha memoria, questi sono gli stessi passi che sono stati fatti in Argentina: salviamo le assicurazioni, salviamo le banche, le aziende morivano e c’è stato il crac. Bisogna capire quando questo crac arriverà: secondo me il Paese non ce la fa a reggere fino alla fine del 2011.