Querela contro il datore di lavoro giustifica il licenziamento

Importante pronuncia della Corte di Cassazione, una querela contro il datore di lavoro può essere a base del licenziamento. Ecco in quali casi.

Rischia il licenziamento il lavoratore che presenta una denuncia falsa

La querela è un importante strumento dato al cittadino per denunciare comportamenti illeciti nei propri confronti, ad esempio se Tizio mi picchia io posso presentare denuncia in quanto le percosse sono reato. La querela deve però essere utilizzata in modo consono e può portare anche conseguenze importanti. Ad esempio, nell’ambito del diritto del lavoro se il datore di lavoro ha comportamenti illeciti nei confronti di un dipendente, come nel caso di molestie, è possibile presentare querela e nel caso in cui il giudice riconosca le ragioni del lavoratore non si può licenziare il dipendente, sarebbe una ritorsione.

Cosa succede invece se il giudice riconosce che il datore di lavoro non ha commesso il fatto denunciato dal lavoratore?

Questo è un caso interessante ed è stato trattato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 30866/2023.

Il caso, denuncia falsa giustifica il licenziamento per giusta causa

Nel caso in oggetto il lavoratore presenta querela contro il datore di lavoro per appropriazione indebita delle somme Tfr. Le accuse si rivelano infondate, ma soprattutto emerge dal procedimento che il lavoratore era consapevole del fatto che tali accuse fossero infondate. Scatta quindi il reato di calunnia che il datore di lavoro a sua volta denuncia. In questo caso siamo di fronte alla strumentalizzazione della denuncia in violazione dell’obbligo del dovere di fedeltà previsto dall’articolo 2105 del codice civile e i principi di correttezza e buona fede degli articoli 1175 e 1375 Cc.

A ciò si aggiunge che una denuncia penale infondata rappresenta un abuso nell’uso di strumenti del processo che, come sappiamo, determina delle spese a carico delle casse dello Stato.

Da qui arriva la pronuncia della Corte di Cassazione che può essere considerata storica, infatti, generalmente se anche un lavoratore denuncia il datore di lavoro e risulta soccombente, non vi è il diritto a licenziare da parte del datore di lavoro, ma solo se la parte non ha agito in malafede ma per un errore di fatto o di diritto, cioè senza premeditare di danneggiare il datore di lavoro con accuse false e infondate.

Nel caso in oggetto essendovi stata una calunnia, è legittimo il licenziamento in tronco (licenziamento per giusta causa) in quanto è venuto meno il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore.

Ricordiamo che affinché si possa configurare la calunnia è necessario il dolo, cioè l’aver agito con lo scopo di danneggiare il datore di lavoro, nel caso in cui il giudice dovesse rigettare il ricorso del lavoratore per insufficienza di prove, non scatta il reato di calunnia.

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Lavoro e legge 104: quali sanzioni per chi abusa dei permessi?

Lavoro e legge 104/1992, oggi poniamo l’accento sul corretto utilizzo dei relativi permessi che devono assolutamente essere legati all’assistenza del familiare disabile. Un utilizzo improprio si trasformerebbe non solo in un abuso giuridico ma anche una violazione dell’etica del lavoro e della buona fede nei confronti non solo del datore di lavoro ma anche dell’ente assicurativo.

L’abuso dei permessi legge 104 può avere pesanti conseguenze, come il licenziamento e un procedimento penale per indebita percezione dei contributi INPS. La Corte di Cassazione si è nuovamente espressa nel merito, proprio con l’intento di ribadire le conseguenze di un tale scorretto comportamento da parte del fruitore dei permessi legge 104.

Le sanzioni per l’abuso dei permessi legge 104

Purtroppo, capita (e non dovrebbe) che il lavoratore che ottiene il permesso legge 104 retribuito per la durata prevista di tre giorni, sottragga delle ore dedicate all’assistenza del familiare disabile per svolgere mansioni che nulla hanno a che fare con essa.

I permessi retribuiti legge 104 non obbligano il fruitore a compiere azioni strettamente legate all’assistenza del familiare portatore di grave handicap, ma nemmeno vengono concessi per consentire attività estranee all’assistenza di cui sopra. Fare ciò, significa abusare del permesso e frodare. Per tale motivo, sono previste sanzioni che possono portare anche a un licenziamento per giusta causa del lavoratore.

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L’abuso dei permessi legge 104: cosa dice la Cassazione su un caso di licenziamento per giusta causa

Una recente sentenza dei Giudici di Cassazione (n. 17102 del 16 giugno 2021) ha rigettato il ricorso di un lavoratore presentato alla Corte per contestare il subito licenziamento per giusta causa operato dall’azienda per cui lavorava.

Il fatto:

Il lavoratore aveva utilizzato dei permessi legge 104 concessi dall’azienda per assistere la madre del dipendente, per recarsi al mercato, al supermercato e successivamente al mare con la famiglia, invece di utilizzare le ore di assenza dal lavoro per assistere la madre convivente in casa con il marito. Ad aggravare la situazione, il cambio di residenza del familiare disabile non comunicato al datore di lavoro, se non a seguito delle contestazioni disciplinari, ciò ha impedito a quest’ultimo di svolgere i controlli.

La condotta del lavoratore dipendente ha provocato la rottura del rapporto di fiducia che si era instaurato con l’azienda, offrendo su un piatto d’argento la possibilità da parte del datore di lavoro di procedere con il licenziamento per giusta causa. Affinché ciò accada, non è necessario che vi sia stato un comportamento simile in precedenza, è sufficiente il fatto di per sé.

Tale condotta, ossia non utilizzare il permesso retribuito legge 104 per assistere il familiare disabile, rappresenta anche una truffa nei confronti dell’INPS. La legge 104/1992 a proposito di permessi retribuiti concessi ai lavoratori, non esige una cura continuativa e, quindi, una presenza constante del dipendente nei confronti del familiare per cui è stata chiesta assistenza, tuttavia, obbliga che la gran parte del tempo venga utilizzato per farlo. L’assistenza va concentrata soprattutto nelle ore di assenza da lavoro richieste per metterla in atto.

Sanzioni diverse per abuso dei permessi legge 104

Detto, come nel caso specifico di cui sopra trattato da una recente sentenza della Cassazione, di una delle sanzioni più pesanti che un lavoratore può ricevere per abuso dei permessi legge 104, ossia il licenziamento (in tronco) per giusta causa, esistono anche altri tipi di sanzione che vanno da una pesante sanzione amministrativa fino al carcere, in quanto si è di fronte a un reato.

Ad esempio, la querela esposta ai danni del dipendente da parte dell’INPS per indebita percezione dei contributi e dal datore di lavoro per retribuzione percepita indebita, può portare anche ad una pena detentiva che va dai sei mesi ai tre anni di reclusione. Tuttavia, se il denaro percepito indebitamente non supera i 3.996,96 euro, si applica solo (si fa per dire) una sanzione amministrativa che va da 5.164 euro fino a 25.822 euro.

Ma cosa è concesso dai permessi legge 104?

Come già anticipato poc’anzi, la legge sui permessi retribuiti per assistere un familiare disabile, non è poi così stringente. Il lavoratore che ne fruisce, può anche utilizzare una parte marginale del tempo per fare delle commissioni personale e ritenuti essenziali (una spesa veloce, accompagnare i figli a scuola, comprare medicine, accertarsi saltuariamente e rapidamente di come procedono i lavori, allontanandosi sporadicamente dal domicilio del familiare disabile.

In conclusione, si può affermare che i permessi legge 104 concessi per l’assistenza di un familiare disabile, non costringono a passare ogni minuto delle ore sottratte al lavoro per assisterlo, ma sicuramente per una gran parte del tempo, quando quella restante è impiegata per attività essenziali e di breve durata, che non possono essere certamente costituite da una chiacchierata in un bar con gli amici, dedicarsi al riposo casalingo o andare addirittura in gita, in quanto considerate attività continuative ed estranee a quelle richieste per la fruizione dei permessi retribuiti legge 104.

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Licenziamento giusta causa, quando ricorre e come impugnarlo

Abbiamo ampiamente parlato di recente, dei motivi a cui un datore di lavoro si può appellare per licenziare un proprio dipendente. In questo articolo, andiamo ad approfondire una di questi: il licenziamento per giusta causa. Cos’è esattamente, quali sono le differenze con il giustificato motivo soggettivo, altra causa di licenziamento nei confronti di un lavoratore assunto con un contratto a tempo indeterminato o determinato e, come è possibile impugnarlo.

Cos’è il licenziamento per giusta causa?

Il primo motivo in ordine di gravità, per cui un’azienda può licenziare il lavoratore alle sue dipendenze, è la giusta causa. Essa si configura per via di un grave comportamento o inadempienza da parte del dipendente che non consente la prosecuzione del rapporto di lavoro, in quanto viene meno la fiducia nei suoi confronti da parte del datore di lavoro.

Come previsto dal codice civile, il licenziamento per giusta causa avviene prima della scadenza del termine nel caso di contratto a tempo determinato. Qualora ci si trovi al cospetto di un lavoratore assunto a tempo indeterminato, il datore può licenziarlo senza preavviso, proprio perché non sussistono le condizioni per continuare il rapporto di lavoro, seppur in maniera provvisoria.

Per completezza d’informazione, ricordiamo che la prosecuzione del rapporto lavorativo non è possibile anche in caso di dimissioni per giusta causa, come stabilito dall’art. 2119 del codice civile. Tuttavia, il licenziamento in tronco avvenuto per giusta causa rimane compatibile con un equo intervallo di tempo necessario per accertare i fatti di cui è accusato il lavoratore.

E’ importante sottolineare che spetta sempre al giudice, stabilire se la condotta del dipendente è da considerare talmente grave da rientrare nel licenziamento per giusta causa, quindi, se il fatto compromette irrimediabilmente il rapporto di fiducia tra il datore di lavoro e il lavoratore.

Quando si verifica la giusta causa

Il licenziamento per giusta causa, si configura nei casi di insubordinazione del dipendente nei confronti del datore di lavoro o comunque di un superiore, considerati grave o reiterati. Il furto di uno o più beni aziendali, diffamazione nei confronti dell’azienda o dei suoi prodotti, minacce ai superiori ma anche a colleghi, danni arrecati ai beni dell’azienda, falsa malattia o infortunio, violazione del patto di non concorrenza, abuso dei permessi.

Nella sua valutazione dei motivi che hanno spinto il datore di lavoro a licenziare il dipendente, il giudice deve comunque attenersi ai casi rappresentanti la giusta causa, previsti dai contratti collettivi o dai contratti individuali certificati.

Il licenziamento per giusta causa si differenzia da quello per giustificato motivo soggettivo, in quanto quest’ultimo è previsto nel caso in cui il dipendente tenga un comportamento disciplinare rilevante ma meno grave della giusta causa. Lo scarso rendimento, la violazione di alcuni obblighi previsti dal contratto, una condotta negligente o il danno provocato a un interesse del datore di lavoro, sono tra i casi che rientrano nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

In linea di massima, nel licenziamento per giusta causa ricorre più il dolo che la negligenza rispetto a quanto accade nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Tuttavia, il grado di gravità del comportamento tenuto dal lavoratore fa la differenza.

Un’altra fondamentale differenza è costituita dal fattore fiduciario e di conseguenza nel preavviso. Ossia, il licenziamento in tronco sussiste solo per giusta causa in quanto non ci sono più le condizioni necessarie per continuare, anche se temporaneamente, il rapporto di lavoro. Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, invece, prevede un preavviso.

Impugnazione del licenziamento per giusta causa

Il lavoratore licenziato ha la possibilità di impugnare il licenziamento per giusta causa ma anche quello per giustificato motivo soggettivo entro 60 giorni dal ricevimento della lettera di licenziamento. Il suddetto dipendente è obbligato a comunicare, tramite una lettera indirizzata al datore di lavoro, l’intenzione esplicita di impugnare il recesso del contratto di lavoro. Il ricorso dovrà essere depositato alla cancelleria del tribunale ordinario, sezione lavoro, entro 180 giorni dall’invio della comunicazione.

Diversamente, il lavoratore può anche richiedere all’azienda un tentativo di riconciliazione da parte dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro. In tal caso, si possono aprire tre scenari: l’azienda non si presenta; l’azienda si presenta ma l’accordo con il lavoratore non arriva; l’azienda raggiunge l’accordo con il dipendente.

Nel primo caso, il dipendente dovrà ricorrere al Giudice del Lavoro entro 60 giorni dalla mancata conciliazione; nel secondo caso, i 180 giorni entro cui può depositare il ricorso in tribunale ricominciano a decorrere.

Reintegro o indennità

Se il giudice ritiene illegittimo il licenziamento in quanto non rileva la giusta causa o il giustificato motivo (soggettivo od oggettivo), le tutele del dipendente licenziato variano a seconda che l’assunzione sia avvenuta prima o dopo il 7 marzo 2015, data di abolizione dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori con il Jobs Act.

Nel primo caso, si fa riferimento all’art. 18 della legge 300/1970 poi modificata nel 2012 con la legge n. 92. In sintesi, il regime di tutela piena è previsto per tutti i casi in cui il licenziamento è ritenuto nullo a prescindere dal numero dei dipendenti dell’azienda. Ossia, il giudice obbliga il datore di lavoro a reintegrare il lavoratore licenziato nello stesso posto occupato prima del licenziamento. Inoltre, al versamento dei contributi per tutto il periodo intercorrente fra il licenziamento e la reintegrazione, e anche al pagamento del risarcimento del danno che consiste in un’indennità pari alla somma dell’ultima retribuzione globale di fatto, maturata dal giorno del licenziamento al giorno dell’effettiva reintegrazione: essa non può essere inferiore alle cinque mensilità , mentre non è previsto un limite massimo. Dall’importo, così come ottenuto, deve essere tolto quanto eventualmente percepito dal lavoratore, nel periodo interessato.

Nel secondo caso, si applicano le norme previste dal decreto legislativo n.23 del 2015. In linea generale, spetta al datore di lavoro decidere se reintegrare il dipendente licenziato ingiustamente o pagare un’indennità compresa tra 12 e 24 mensilità, su cui indice l’anzianità di servizio.

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