Corte Costituzionale boccia la legge Fornero. Sarà più difficile licenziare

Il giorno 19 maggio 2022 la Corte Costituzionale ha posto un’altra censura alla legge Fornero, rendendo di fatto più difficile per le imprese licenziare e andando ad ampliare le tutele dello Statuto dei Lavoratori. La sentenza 125 del 2022 infatti pone una maggiore tutela ai lavoratori.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

La sentenza della Corte Costituzionale va ad incidere sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo, anche conosciuti come licenziamento economico come modificato dalla Legge Fornero ( legge 92 del 2012). Si tratta del caso in cui il datore di lavoro recede unilateralmente dal rapporto di lavoro a causa di una restrizione del personale, ad esempio per esuberi, per crisi aziendale.  Siamo nell’ambito di motivazioni che esulano dal comportamento del lavoratore, quindi non siamo nel caso dei licenziamenti disciplinari, ma è necessaria una riorganizzazione aziendale.

Affinché il licenziamento per giustificati motivi oggettivi sia valido non basta che ci sia una riorganizzazione aziendale, è anche necessario che la figura professionale licenziata non sia più necessaria all’interno dell’azienda, inoltre è previsto l’obbligo di ripescaggio e quindi la possibilità di collocare il lavoratore in mansioni diverse per per le stesse ha capacità e la giusta formazione.

Per conoscere meglio i dettagli dell’obbligo di ripescaggio, leggi l’articolo Obbligo di repechage: i principi a cui deve attenersi il datore di lavoro.

Naturalmente il lavoratore che ritiene non sussistere i giustificati motivi oggettivi per il suo licenziamento e pensa di dover essere collocato in nuova posizione, potrà impugnarlo. La legge Fornero prevedeva che affinché il licenziamento fosse giudicato illegittimo vi dovesse essere la “manifesta insussistenza del fatto” alla base delle motivazioni addotte dal datore di lavoro. Questo per i giudici è un limite perché implica di non poter andare oltre ciò che appare in modo chiaro e lapalissiano, il licenziamento può essere sanzionato solo nel caso anche senza andare oltre l’apparenza emergea immediata la sua illegittimità. Ad esempio, può ritenersi illegittimo il licenziamento se al posto del lavoratore l’azienda assume un altro soggetto impegnato nelle stesse mansioni e con le stesse qualifiche, ma per comportamento dell’azienda più “sofisticati”  è molto più difficile provare la manifesta insussistenza.

La sentenza della Corte Costituzionale: il termine “manifesta” è illegittimo!

Il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato la questione di legittimità dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, così come modificato dalla Legge Fornero. La sentenza della Corte Costituzionale nella sentenza del 19 maggio 2022 è andata a colpire proprio la “manifesta insussistenza del fatto”.

Secondo il giudice costituzionale il requisito della manifesta insussistenza è indeterminato e si presta a incertezze interpretative. Proprio per questo dal testo della norma si censura il termine “manifesta” prima della parola “insussistenza del fatto”, all’interno dell’articolo 18 settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori) così come modificato appunto dalla Legge Fornero. Di conseguenza il giudice nella sua analisi può andare a fondo e valutare la genuinità della scelta del datore di lavoro.

La Corte Costituzionale ribadisce che valutare la sussistenza o insussistenza di un fatto è già un atto gravoso e complesso, andare poi a valutare anche la gradualità di questa insussistenza appare un aggravio irragionevole con una conseguente complicazione sul fronte processuale. Inoltre secondo la Corte Costituzionale vi è un notevole squilibrio tra i fini che si era proposto il legislatore nel riformare la materia – una più equa distribuzione delle tutele con decisioni più rapide e prevedibili –  e i mezzi per ottenere tale risultato.

Le norme violate

La Corte Costituzionale ritiene che richiedere la manifesta insussistenza vada a violare l’articolo 3 della Costituzione (principio di uguaglianza) in quanto tale manifesta insussistenza non è richiesta nel caso di licenziamento disciplinare. Inoltre per il lavoratore l’onere probatorio diventerebbe eccessivamente arduo visto che deve provare un fatto dai contorni non definiti e spesso si trova a dover provare fatti che sono fuori dalla sua sfera di conoscenza. La manifesta insussistenza andrebbe a delineare un sistema “marcatamente ed ingiustificatamente sbilanciato in favore del datore di lavoro e, di contro, ingiustificatamente penalizzante per il lavoratore”. Tutto ciò andrebbe a pregiudicare la sua chance di successo in un eventuale giudizio. Si rileva anche la violazione dell’articolo 35 della Costituzione che prevede la tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni.

Obbligo di repechage: i principi a cui deve attenersi il datore di lavoro

Tra datore di lavoro e lavoratore si instaura un rapporto di buona fede e correttezza, lo stesso si esplica in diversi obblighi per il datore di lavoro e per il lavoratore. Tra questi vi è il c.d obbligo di repechage, o ripescaggio, che prevede che il datore di lavoro prima di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, deve cercare un’altra collocazione al lavoratore, solo nel caso in cui ciò sia impossibile si potrà procedere al licenziamento.

Disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo

L’obbligo di repechage è strettamente connesso all’articolo 3 della legge 604 del 1996 che consente al datore di lavoro di licenziare i dipendenti “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Il datore di lavoro per esigenze economiche oppure di riorganizzazione dell’attività lavorativa può licenziare del personale (tra le esigenze di riorganizzazione viene riconosciuta rilevanza anche alla possibilità di esternalizzare alcune attività che prima erano gestite in modo diretto dall’azienda, ad esempio i servizi di pulizia, ma non solo), ma deve essere tutelato l’interesse del lavoratore a conservare il posto di lavoro.

In quest’ottica il licenziamento appare possibile nel caso in cui:

  • le ragioni del datore di lavoro siano reali e non pretestuose (ecco perché spesso i giudici esaminano i bilanci per verificare la sussistenza di ragioni eocnomiche);
  • ci sia un nesso causale tra le ragioni addotte dal datore di lavoro e il licenziamento del lavoratore;
  • non sia possibile il repechage, cioè impiegare il lavoratore in mansioni diverse per le quali abbia comunque le giuste competenze al fine di proseguire il rapporto di lavoro.

Obbligo di repechage anche con demansionamento

Occorre ricordare che in questo caso è possibile anche il demansionamento. Noi sappiamo che non è possibile in azienda collocare il lavoratore in mansioni inferiori rispetto all’inquadramento raggiunto. Vi è un unico caso in cui questo è possibile ed è proprio quello che ci interessa, cioè la necessità per l’azienda di sopprimere delle posizioni per una nuova organizzazione o per difficoltà economiche. In questo caso l’azienda può offrire al dipendente un lavoro di inquadramento diverso. Resta però la libertà del lavoratore di accettare o meno il demansionamento, l’alternativa è il licenziamento.

Il datore di lavoro per poter procedere in tal modo è tenuto a dimostrare di non poter offrire una posizione equivalente e di aver ottenuto un rifiuto al demansionamento.

Tra l’altro vi sono ipotesi in cui il demansionamento può essere unilaterale, si tratta del caso in cui dalla riorganizzazione aziendale emergano delle posizioni con mansioni appartenenti a un livello di inquadramento inferiore che però rientrano nella medesima categoria legale di appartenenza. Negli altri casi, occorre invece un accordo tra le parti.

Non vi è obbligo di repechage se per il datore di lavoro questo rappresenta un costo

Il Tribunale di Roma nella sentenza del 24 luglio 2017 ha sottolineato che non vi è obbligo di repechage nel caso in cui il datore di lavoro per poter ottemperare a ciò debba sostenere costi di formazione eccessivi. Tale obbligo non può trasformarsi in un onere economico per il datore di lavoro. Quindi devono essere tenute in considerazione le posizioni presenti in azienda che richiedono le stesse competenze professionali del lavoratore che in teoria sarebbe in esubero. Tale orientamento è confermato dalla sentenza 31521 della Corte di Cassazione del 2019.

C’è obbligo di repechage anche tra aziende appartenenti allo stesso Gruppo?

La risposta è negativa o meglio solo in alcuni limitati casi il datore di lavoro ha l’obbligo di proporre al lavoratore il trasferimento in un’altra azienda del Gruppo. Si tratta delle ipotesi in cui vi sia un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Si verifica ciò nei casi:

  • vi sia un’unica struttura organizzativa e produttiva;
  • si verifichi integrazione tra le attività svolte dalle varie aziende del gruppo e il correlativo interesse comune;
  • sia possibile individuare un unico soggetto direttivo in virtù di un profondo collegamento tecnico e amministrativo-finanziario tra le varie parti del Gruppo;
  • infine, vi sia un’utilizzazione contemporanea delle prestazioni del lavoratore da parte delle aziende del gruppo.

In base alla sentenza 1656 del 2020 della Corte di Cassazione in questi specifici casi il repechage si applica anche tra le aziende del Gruppo. La prova della presenza di questi requisiti deve essere fornita dal lavoratore.

C’è sempre divieto del datore di lavoro di assumere altre persone?

Dalla giurisprudenza emergono note interessanti inerenti il caso in cui il datore di lavoro assuma altri dipendenti. Il primo caso è contenuto nella sentenza della Corte di Appello di Milano n° 909 del 2017, in questo caso il datore di lavoro successivamente aveva assunto con contratto a tempo determinato un altro lavoratore con le stesse mansioni/inquadramento. Tale assunzione non è stata ritenuta in violazione dell’obbligo di ripescaggio perché fatta al fine di sostituire un altro dipendente assente, ma con diritto alla conservazione del posto di lavoro. Si trattava quindi di un posto di lavoro “diverso”.

Un altro caso particolare è invece trattato dall’Ordinanza del Tribunale di Roma del 27 ottobre 2014, in questo caso vi era stata prima un’assunzione a tempo determinato e in un secondo momento il licenziamento del lavoratore con contratto a tempo indeterminato. Nella ordinanza si sottolinea che tale tipologia di contratto esclude l’obbligo per il datore di lavoro di proporre tale posizione come alternativa al licenziamento.

La sentenza 1508 del 2021 della Corte di Cassazione invece sottolinea che in caso di licenziamento del lavoratore per motivi economici, cioè l’azienda era nella necessità di tagliare i costi, l’obbligo di repechage viene meno proprio perché in contrasto con tale necessità.

Sanzioni per il datore di lavoro

Il datore di lavoro che attua un licenziamento per giustificato motivo oggettivo senza impegnarsi nel ripescaccio può essere sanzionato in diversi modi  a seconda della data del contratto di lavoro. Naturalmente la sanzione è prevista laddove il giudice ritenga che vi fossero le condizioni per il repechage del lavoratore. Per i rapporti di lavoro nati prima del 7 marzo 2015 si applica l’articolo 18 dello Statuto del Lavoratori. Se vi è una manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo c’è il diritto al reintegro nel posto di lavoro, dove non vi sia tale manifesta insussistenza invece c’è solo il risarcimento nella misura massima di 12 mensilità.

Per i rapporti di lavoro stipulati dopo il 7 marzo 2015 invece non è previsto il reintegro obbligatorio nel posto di lavoro ma una tutela risarcitoria di importo pari a due mensilità per ogni anno di servizio e comunque non inferiore a 6 mensilità e non superiore a 36 mensilità.