Licenziamento: cosa è tenuta a pagare l’azienda?

Oggi ci addentreremo in quell’incauto e nefasto, misterioso e impervio, mondo del lavoro e nella fase di troncamento dello stesso. Andremo a vedere cosa avviene in caso di cessazione del lavoro e cosa è tenuta a pagare l’azienda in caso di licenziamento di un proprio dipendente.

Licenziamento, come funzionano i costi

Innanzitutto, bisogna ben specificare che nella maggior parte dei casi occorre presentare un preavviso per licenziare un proprio dipendente. Un tempo che occorrerà al lavoratore appena licenziato di assestarsi e magari trovare altro impiego. Gli unici casi in cui un datore può licenziare senza preavviso, sono legati al periodo di prova del dipendente, o per un licenziamento legato ad una giusta causa.

In questo caso trattasi di un licenziamento disciplinare, quindi legato ad un comportamento del dipendente non conforme. alle regole dell’azienda. O, comunque non conforme alle regole del vivere civile.

Ma molti si chiedono cosa comporta per l’azienda stessa licenziare un dipendente.

Licenziamento: cosa paga l’azienda

Partiamo col dire che c’è un vero e proprio contributo che deve essere versato all’Inps, da parte delle aziende e che serve a finanziare l’indennità di disoccupazione. Per quanto concerne il suo ammontare, per il 2020, l’Inps ha reso noto che il ticket di licenziamento è stato pari a 503,30 euro per ogni anno di lavoro effettuato fino a un massimo di 3 anni.

Per quanto riguarda le aziende che dovranno procedere con i licenziamenti collettivi, gli importi saranno differenti. Queste ultime dovranno corrispondere, infatti, da 1.509,84 euro per un lavoratore con un solo anno di esperienza a un massimo di 4.529,52 euro.

Quando occorre pagare per un licenziamento?

Il ticket di cui sopra, previsto per i contributi di disoccupazione, si paga anche nel caso in cui il lavoratore non soddisfi i requisiti contributivi per poter beneficiare dell’indennità di disoccupazione. Tale ticket di licenziamento, invece, non è dovuto nel caso di interruzione del rapporto con un dipendente già titolare di pensione.

Riassumendo il fulcro della questione, dunque per capire quanto costa il licenziamento ad un datore di lavoro, possiamo dire che il licenziamento di un dipendente ha i seguenti costi per una azienda:

  • se parliamo di licenziamento individuale, si calcola il 41% del massimale mensile Naspi per ogni 12 mesi di anzianità del dipendente negli ultimi tre anni.
  • in caso, invece, di licenziamenti collettivi da parte delle aziende rientranti nella CIGS il discorso va a mutare. Difatto, l’aliquota raddoppia, facendo quindi raddoppiare anche l’importo massimo del contributo da versare (per rapporti di lavoro di 36 mesi).

Va aggiunto, in caso di Licenziamenti collettivi ritenuti dal giudice illegittimi per la violazione delle procedure e criteri sanciti dalla Legge 223/1991, ai lavoratori spetta un’indennità che varia da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilità. Qualora, insomma non dovesse sussistere la motivazione di giusta causa avallata dalla azienda verso il licenziato.

Dunque, ora che abbiamo visto quali possono essere i costi aziendali e quindi le dovute spese per un datore di lavoro, è tempo di tornare a rimboccarsi le maniche evitando, possibilmente, di farsi licenziare che potremmo ben dire che non conviene a nessuno.

 

Cosa prevede il nostro ordinamento riguardo le assenze dal lavoro

Le assenze dal lavoro sono tutelate da una normativa che, in materia di lavoro e previdenza, prevede una serie di motivazioni che legittimano l’interruzione temporanea, da parte del lavoratore subordinato, dell’impiego.

Si tratta del diritto alla conservazione del posto di lavoro e della previsione della facoltà del lavoratore di goderne senza possibilità di opposizione da parte del datore di lavoro e la nullità del licenziamento disposto in concomitanza dell’evento stesso.

E’ bene ricordare che il nostro ordinamento non contiene un divieto assoluto di svolgere l’ attività lavorativa durante il periodo di malattia, previa richiesta al lavoratore di una specifica certificazione medica dalla quale risulti la piena idoneità psico-fisica allo svolgimento delle mansioni da svolgere.

L’obbligo del lavoratore di comunicare tempestivamente al datore di lavoro lo stato di malattia e l’indirizzo di reperibilità, qualora diverso dalla residenza o domicilio abituale, al fine consentire gli eventuali controlli medico-fiscali, rimane distinto e preventivo rispetto all’invio telematico della certificazione del medico, in quanto la comunicazione serve a giustificare l’assenza dal lavoro, mentre la certificazione è finalizzata a dimostrare l’esistenza della causa giustificativa.

Da questa circostanza emerge la determinazione dei limiti all’esercizio del potere di controllo da parte del datore e degli enti preposti che andrà valutata con il proprio Consulente del lavoro.

Controversa è la possibilità di poter usufruire dei permessi previsti dalla legge soltanto in capo ad uno dei rapporti di lavoro part-time coesistenti, la facoltà di determinare il periodo temporale di godimento del congedo matrimoniale, la eventuale interruzione della fruizione dei periodi di ferie, congedo parentale o permessi retribuiti in caso di malattia.

C’è poi la questione che riguarda la possibile realizzazione di una più flessibile e “sostenibile” articolazione, “a saldi invariati”, dei periodi di riposo connessi alla tutela della maternità.

Vera MORETTI

Chiarimenti sul sussidio di disoccupazione per la madre lavoratrice

A fronte di alcuni dubbi difficili da districare, il Ministero del Lavoro ha deciso di fare chiarezza sul diritto al sussidio di disoccupazione nei confronti della madre lavoratrice.

Tale sussidio spetta anche quando è la madre stessa a dimettersi, anche nel periodo in cui vige il divieto di licenziamento.
Infatti, l’indennità spetta anche in caso di licenziamento volontario, ma solo se la richiesta è inoltrata prima che il figlio compia un anno di vita.

Le perplessità sulle modalità di applicazione della legge derivavano dal fatto che la L. n. 92/2012 (art. 55, comma 4) estende il diritto all’ammortizzatore sociale ai primi tre anni di età del bambino, mentre prima il sussidio era garantito sono per il suo primo anno di vita.

La domanda, legittima, riguardava dunque l’arco di tempo e la sua validità in caso di genitore dimissionario.
La risposta è chiara: l’arco temporale viene equiparato in caso di dimissioni volontarie a quello del licenziamento volontario.

Ciò significa che anche in caso di licenziamento volontario, alla lavoratrice madre o al lavoratore padre spetta di diritto la percezione di tutte le indennità, compresa quella di disoccupazione involontaria, previste in caso di licenziamento: il requisito è che la richiesta di dimissioni o il licenziamento avvenga entro l’anno di vita del bambino.

Occorre inoltre ricordare che il periodo in cui il datore di lavoro non può licenziare la lavoratrice va dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro e fino al compimento di un anno di età del bambino.

In questo arco temporale la lavoratrice non può neanche essere sospesa dal lavoro, a meno che non sia stata sospesa l’attività dell’azienda o di un reparto di essa, o essere collocata in mobilità, a meno che non venga attivata per cessazione dell’attività imprenditoriale.
Sempre nello stesso arco temporale il lavoratore/lavoratrice ha diritto all’indennità erogata a seguito di dimissioni volontarie.

Vera MORETTI

Il licenziamento collettivo nella riforma Fornero

La riforma Fornero ha toccato, tra le altre cose, anche la questione del licenziamento collettivo, che veniva ritenuto possibile, secondo quanto stabilito dalla legge del 23 luglio 1991 n.223, in casi di riduzione o trasformazione dell’attività o del lavoro e nella cessazione dell’attività.

Le imprese che possono ricorrervi sono quelle costituite almeno da 15 dipendenti che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, abbiano intenzione di effettuare almeno 5 licenziamenti nell’arco temporale di 120 giorni nell’unità produttiva oppure in più unità produttive dislocate nella stessa provincia.

La L. 223/1991 aveva anche previsto, in caso di mobilità, un significativo elemento innovativo rispetto al precedente assetto ordinamentale, consistente dal trasferimento dal controllo “ex post” giurisdizionale al controllo “partecipato” dell’iniziativa imprenditoriale devoluto “ex ante” alle organizzazioni sindacali, destinatane di incisivi diritti di informazione, poteri di consultazione.

La legge diceva che: “La comunicazione da effettuarsi deve fornire compiuta indicazione delle modalità puntuali con cui sono applicati dal datore di lavoro i criteri di scelta, così da consentire a livello sindacale ed individuale la verifica sulla correttezza dei criteri di scelta adottati per l’individuazione dei dipendenti da licenziare. La comunicazione, altresì, deve essere “contestuale” al fine di assicurare la tempestiva verifica sia livello collettivo clic individuale della legittimità della scelta dei lavoratori da licenziare e della regolarità dell’intera procedura seguita“.

Ad essere modificati dalla recente L. 92/2012 sono stati gli artt. 4 e 5 della L. 223/1991, concernenti la procedura per la dichiarazione di mobilità dei lavoratori delle imprese.

In particolare viene specificato che la comunicazione dell’elenco dei lavoratori collocati in mobilità, che l’impresa deve effettuare – comma 44 dell’art. 1 della L. 92/2012 – nei confronti di determinati soggetti pubblici, avvenga non contestualmente, bensì entro sette giorni dalla comunicazione dei licenziamenti a ciascuno dei lavoratori interessati.

Viene, quindi, previsto che gli eventuali vizi della comunicazione preventiva alle rappresentanze sindacali aziendali e alle rispettive associazioni di categoria possono essere sanati nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della medesima procedura.

Vera MORETTI

Imprese alla ricerca di Terraferma

 

Imprese che resistono, imprenditori che devono resistere. Di fronte alla crisi, al timore di doversi trovare nella situazione di licenziare i propri indipendenti o alla paura del fallimento, molti imprenditori decidono di togliersi la vita. Altri invece riescono, con l’aiuto e il supporto di chi sta loro attorno a risalire la china, e guardare al domani.

Infoiva ha intervistato Massimo Mazzucchelli, imprenditore e responsabile del progetto Terraferma, un’iniziativa nata in senso all’associazione Imprese che resistono, per offrire un supporto psicologico immediato (gli psicologi di Terraferma sono reperibili 24 ore su 24) a chi si trova, troppo spesso inconsapevolmente, ad attraversare il momento più buio.

Com’è nata l’idea di Terraferma?
Faccio parte del movimento Imprese che resistono (ICR) dal 2009, ossia da quando è nato, e da allora ci impegniamo a denunciare come la crisi economica sempre più forte aggredisca soprattutto le piccole imprese italiane: aumentano i casi di suicidio fra gli imprenditori che non ce la fanno più. L’idea di Terraferma è nata di conseguenza: mi ricordo che all’inizio del 2012 mi era capitato di ascoltare a qualche telegiornale le parole di un Ministro italiano che ‘giustificava’, mi passi il termine, come in una situazione di grave difficoltà come quella che stiamo attraversando, sia normale che aumentino i casi di gesti estremi, un po’ come è successo in Grecia. Di fronte a queste parole, la mia prima reazione è stata di forte rabbia: non mi sembrava possibile che nessun facesse niente. Era più che mai necessario offrire a tutti gli imprenditori un sostegno immediato, soprattutto del punto di vista psicologico, e specializzato: così ho contattato un’amica psicologa e nel giro di un paio di mesi è nato il progetto Terraferma. Oggi l’iniziativa conta 30 psicologi in tutta Italia, sempre reperibili, 24 ore su 24, 7 giorni su 7.

Perché avete scelto questo nome, Terraferma?
Viviamo in una fase di cambiamento epocale, l’industria manifatturiera, un tempo cavallo di battaglia dell’italianità, viene ricollocata in altri Paesi, perchè la produzione costa meno. Ma come si crea lavoro e ricchezza allora nel nostro Paese? Se le situazioni di crisi hanno da sempre posto gli imprenditori di fronte ad una scelta, questa volta si tratta di trovarsi in un vicolo cieco, dove la piccola e media industria, da sola, non ha gli strumenti per salvarsi. Gli imprenditori vivono oggi in una situazione di tempesta, e volevamo trasmettere l’idea di una Terraferma, di un punto d’appiglio cui ancorarsi.

Qual è la sua storia da imprenditore?
Mi sono diplomato in ragioneria e sono un ingegnere mancato, nel senso che ho frequentato per un un paio d’anni il Politecnico, ma poi ho scelto di dedicarmi all’impresa di famiglia. Mio padre è mancato poco dopo, ma è da lui che ho appreso le conoscenze fondamentali per mandare avanti un’impresa: essere presenti 7 giorni su 7 in azienda e occuparsi esclusivamente dell’attività. La nostra azienda produce dispenser per nastri adesivi, si tratta di attrezzi che servono per l’imballaggio e sono quindi destinati alle aziende di produzione: l’Europa resta il nostro primo cliente, l’America secondo, mentre in Italia il nostro giro d’affari si aggira attorno al 5% del fatturato. A partire dal 2009 la nostra produzione ha subito una forte flessione, come conseguenza al calo della produzione nelle imprese di tutto il mondo. E’ proprio in quel periodo che ho capito che per un imprenditore è necessario investire almeno una parte del proprio tempo per conoscere e approfondire ciò che accade intorno alla propria azienda e nel mondo, interessarsi alla vita pubblica, alle scelte del governo, delle associazioni di categoria. la mia reazione immediata è stata quella di rimboccarmi le maniche: investire sulla produzione di nuovi articoli, produrre abbassando i i costi, creare brevetti su nuovi prodotti, affidarsi marketing on line, ma qualunque sforzo facessi di risultati sul fatturato non se ne vedevano. Nel momento più difficile mi sono avvicinato al movimento Imprese che resistono.

Quali sono le ragioni più frequenti per cui gli imprenditori si rivolgono a Terraferma?
Il problema fondamentale in Italia è la mancanza di lavoro: l’assenza di liquidità è un sintomo della mancanza di lavoro, che è la vera causa della crisi. Le ragioni per cui gli imprenditori si rivolgono a noi sono diverse: dalla banca che vuole il rientro dei Fidi, agli artigiani in difficoltà perché, per determinare quanto devono pagare di tasse, il fisco si basa ancora oggi sugli studi di settore, che non tengono conto dei momenti di crisi e del reale fatturato dell’azienda. Gli artigiani che non riescono a pagare si trovano così costretti a fare ricorso, che spesso non viene accolto, e se il pagamento non viene evaso a quel punto subentra Equitalia. Altre ragioni ancora riguardano la difficoltà a rientrare nei pagamenti con i clienti, e molto spesso il primo cliente a non pagare è lo Stato.

Perchè è importante offrire un supporto psicologico agli imprenditori che vivono sulla propria pelle l’esperienza della crisi?
L’imprenditore è abituato a fare da sé, ma in queste situazioni estreme è impensabile agire da soli. Sono spesso i famigliari a contattarci: il rischio è che l’imprenditore si chiuda in sè stesso, vuoi per la difficoltà del sentirsi chiamare tutti i giorni dalla Banca, il rischio che i fidi non vengano rinnovati, e la vergogna di sentirsi definiti evasori anche quando non si tratta di assolutamente di evasori, ma di imprenditori in ritardo con i pagamenti per mancanza di liquidità. Quello cerchiamo di fare in primis è riportare la persona a confrontarsi con la realtà, perché spesso di fronte alla tempesta si perde il contatto con chi ci sta attorno: il problema viene ingigantito e si perdono di vista le cose fondamentali, i rapporti con famiglie e i colleghi. In un secondo momento, superata la fase spiazzamento iniziale, il nostro compito è di fornire un supporto pratico alle imprese, per aiutarle a uscire dalle criticità con cui si trovano a fare i conti, mettendo a disposizione una rete di commercialisti, avvocati e consulenti finanziari.

Una fra le spinte più forti che conducono gli imprenditori a prendere la decisione più estrema, ovvero togliersi la vita, riguarda il peso di dover licenziare i propri dipendenti. Quali emozioni scatena?
Ogni imprenditore vive un senso di responsabilità nei confronti dei propri dipendenti. Questo vale soprattutto per i piccoli imprenditori, perché c’è contatto diretto, si lavora insieme, mentre nelle grandi aziende queste decisioni vengono gestite dalle risorse umane. Di fronte a una persona che molto spesso è un’amico d’infanzia, oppure un dipendente che lavora nelle tua azienda da 30 anni, i cui figli lavorano lì, risulta impossibile per un impreditore dire ‘non sono più in grado di offrirti un lavoro’. L’imprenditore vive da un lato un forte senso di respinsabilità, perchè molto spesso conosce le storie singole di ciascuna famiglia, e dall’altra parte un senso di impotenza, perchè non riesce a far fronte alla crisi e a non aumentare la produzione.

Avete vissuto in prima persona casi di imprenditori che hanno tentato il suicidio? Perchè si arriva ad una decisione così estrema?
Qualche mese fa mi è capitato di ricevere la telefonata di una persona che ‘non ce la faceva più’, ma che fortunatamente è riuscita a superare il momento più buio. Hanno contattato Terraferma anche parenti e famigliari di persone che purtroppo si sono tolte la vita e avevano bisogno di capire che cosa fare dell’azienda, come agire. Siamo in contatto inoltre con la figlia di Mario Frasacco, l’imprenditore di Roma che si è suicidato lo scorso 4 aprile, che ha voluto denunciare allo Stato la disperazione che vivono sulla loro pelle ogni giorni i titolari di aziende.

Fare impresa oggi in Italia fa paura?
Fa paura a chi la sta facendo, sono sempre di meno i piccoli imprenditori che ‘mettono’ in azienda i propri figli perché non ne vale più la pena; preferiscono indirizzarli verso lo studio, l’università e un percorso formativo fuori dall’azienda di famiglia, che molto spesso coincide con un non-ritorno. Il capitale investito in un’azienda dovrebbe remunerare sia l’imprenditore che il rischio d’impresa, ma oggi non è più così. Non c’è la soddisfazione della crescita, diminuisce la domanda interna, si allarga lo spazio d’azione ma si riducono le quantità. Si lavora sul presente, e non si guarda al futuro, purtroppo.

Alessia CASIRAGHI

Reagire alla crisi: io faccio così

Reagire alla crisi si può e si deve. C’è chi sceglie di non lasciarsi andare e trasforma il problema in una opportunità. Imprenditori costretti a chiudere che si reinventano una nuova professionalità, lavoratori che si ritrovano nel mezzo di una strada e raccolgono le loro forze per diventare a propria volta imprenditori e aprire un’attività.

La crisi è dura, ma è anche piena di casi e di storie di persone che hanno scelto di non cedere allo sconforto e all’amarezza; persone che hanno deciso che il miglior modo di rispondere alle difficoltà è quello di prenderle di petto e dire “Non ci sto“. Oggi ne raccontiamo una emblematica, quella di Giulia, per dare a tutti il segnale che vogliamo che passi: reagire si può e si deve.

Leggi l’intervista a Giulia Buggea

Ricomincio da me e divento imprenditrice

 

Nella lingua giapponese esiste un termine, Kiki, che letteralmente significa ‘rottura di equilibrio statico‘, ma che volgarmente viene tradotto con ‘crisi’. Una parola che rieccheggia sempre più spesso nei giornali e nelle conversazioni di chi, imprenditori e non, si trova a fare i conti con il lavoro che non c’è più, il rischio del fallimento o del licenziamento. Ma se il primo Ki esprime il concetto di ‘rischio’, il secondo Ki traduce l’idea di rottura in nuova ‘opportunità‘. Si può ricominciare davvero dopo aver attraversato l’esperienza della perdita?

Infoiva ha intervistato Giulia Buggea, ex responsabile amministrativa che oggi vive la sua ‘seconda vita’ da imprenditrice, a capo dell’azienda Studio Blu di Desio. Perchè ricominciare da capo, magari scoprendo un talento inaspettato, è sempre possibile.

Qual era la sua professione prima di diventare imprenditrice?
Sono stata responsabile amministrativa in una Sgr per circa 8 anni, poi nel 2009 ho deciso di approdare in uno studio notarile milanese. Avevo avuto da poco il secondo figlio e la prospettiva di una riduzione di orario mi faceva comodo; quindi quando mi è stato offerto un contratto di 6 ore, pur mantenendo lo stesso stipendio del posto precedente, non ho avuto esitazioni. Sono stata assunta, pur maturando qualche perplessità circa la scelta della mia assunzione perchè la contabilità in uno studio notarile è molto semplice, non richiede competenze particolari come invece una Sgr. Dopo circa un anno, è arrivato il licenziamento, preceduto da un periodo di mobbing.

Come ha reagito alla notizia del licenziamento?
Mi era già capitato di cambiare lavoro, non sono mai stata una professionista particolarmente sedentaria, ho sempre cercato di arricchire il mio curriculum a 360 gradi. Quindi il primo impatto non è stato così preoccupante, certo non mi era mai capitato prima di allora di venire licenziata, però ho incassato il colpo. La fase problematica è arrivata dopo: non avevo ancora ‘toccato con mano’ il momento socio economico di crisi che stavamo e stiamo vivendo, e mi sono sentita come schiaffeggiata. Ho pensato più volte ‘oddio il mio curriculum non interessa più a nessuno’: non capivo per quale ragione, ma, al termine di molti colloqui, seppur il ruolo che mi si richiedeva di ricoprire rispecchiava a pieno la mia professionalità, non venivo scelta perchè ero ‘troppo’. Quindi ho cercato di alleggerire il curriculum, di modificarlo, nella speranza di poter trovare un nuovo impiego.

Quale è stato invece l’impatto psicologico?
Per natura non sono una persona che si abbatte, ho un carattere piuttosto reattivo. Quello che più mi lasciava perplessa erano le cause del licenziamento, la loro futilità. Benchè mi fosse stata offerta una liquidazione di un’annualità lavorativa, ho deciso di non accettare: perchè se non sussiste una ragione valida per venire licenziata, non vedo perchè io debba accettare.

Quanto tempo è trascorso dal licenziamento all’avvio della nuova impresa?
Circa un anno di inattività.

E dopo, come si ricomincia e si decide di ‘diventare imprenditori’?
Non avrei mai e poi mai pensato di mettermi in proprio: ho sempre vissuto l’attività lavorativa, da dipendente, in modo oserei dire ‘assillante’. Pensi che la mia secondo figlia è nata il 3 gennaio, e dopo aver preso congedo per la maternità il 23 dicembre (ma solo perchè c’erano di mezzo le Vacanze di Natale!), a una settimana dal parto sono tornata al lavoro. Il mio senso del dovere nei confronti del lavoro era ossessivo. Quindi mi sono detta: se l’azienda è mia rischio di non vivere più!

Come ha mosso i primi passi da imprenditrice?
Ho deciso di prendere parte allo Start, un’iniziativa della Camera di Commercio di Monza e Brianza, che ha lo scopo di formare i nuovi imprenditori, fornendo loro attraverso corsi ad hoc le conoscenze amministrative, di marketing, di comunicazione, che sono la base per chi vuole lanciare una nuova attività. Inoltre a chi presentava il business plan più completo e convincente veniva erogato un finanziamento a fondo perduto per l’apertura della nuova attività. E sono stata fortunata, perchè l’ho vinto.

Di che cosa si occupa la sua azienda?
La mia azienda si chiama Studio Blu e si occupa della gestione del risarcimento dei sinistri assicurativi. Il mio è un ruolo da mediatore, di filtro, tra la vittima del sinistro e la compagnia assicurativa, per quanto concerne qualunque evento che genera un danno e che può essere risarcito da un’assicurazione; quindi si va dagli incidenti stradali, alle responsabilità professionali, responsabilità civile, infortuni, malattie. Tecnicamente il mediatore viene definito ‘patrocinatore stragiudiziale’, perchè se l’avvocato opera in giudizio, il patrocinatore opera in via stragiudiziale, quindi avendo un contatto diretto con il liquidatore, con il vantaggio di poter dimostrare immediatamente e direttamente gli elementi in suo possesso. Diversamente, quando ci si reca davanti ad un giudice per mezzo di un avvocato, si consegnano delle pratiche su cui il giudice delibererà in seguito. Viene da sè che la prassi in via stragiudiziale risulta molto più snella, vanta tempi più rapidi e soprattutto dal punto di vista economico è molto meno dispendiosa che affidare il sinistro ad un avvocato.

Come ha scelto di cimentarsi in questo settore?
L’ho scoperto navigando in rete, e poi è un lavoro che mi si veste addosso. E’ una professione che mi piace definire ‘utile’ e che a mio avviso non conosce crisi. Si tratta di un’attività in franchising, non è una novità assoluta per l’Italia, però sono poche le persone che ad ora si sono cimentate.

Ora che fa l’imprenditrice, teme che in futuro possa trovarsi nella situazione di dover licenziare un dipendente?
Assolutamente si. Al momento non ho dipendenti, siamo in 3 soci, ma mi piacerebbe in futuro poter offrire lavoro a qualcuno e allargare la mia attività, ma so anche che lo farò solo quando avrò la certezza di poter assumere un nuovo dipendente. Forse perché sono passata attraverso l’esperienza della perdita del lavoro, ma sono sempre più convinta che un dipendente sia la risorsa più importante di qualsiasi azienda. Un dipendente felice rende la tua azienda più florida. Dall’altra parte, le cronache dei giornali ci riportano situazioni gravi in cui gli imprenditori si trovano costretti a licenziare, e credo che in quei casi si tratti di una sofferenza da entrambe le parti, sia per chi perde il lavoro, sia per chi è obbligato a licenziare. Sono situazioni di disperazione.

Secondo lei, è corretto dire che in un momento di crisi ‘il miglior welfare è il lavoro’?
Sicuramente si. Il Governo dovrebbe incentivare le assunzioni. Da parte mia in questo momento, trattandosi di una start up, non mi trovo nella condizione di poter assumere; dall’altra parte esistono invece aziende più grandi che potrebbe assumere ma non lo fanno a causa della profonda incertezza del mercato. Se lo Stato intervenisse con sgravi sui contributi o agevolazioni sulle assunzioni, questo potrebbe essere senza dubbio un buon mordente.

Alessia CASIRAGHI

Art.18 da luna di miele: sentenza contro licenziamento senza giusta causa

 

Chi l’ha detto che dopo le nozze si deve partire subito per la luna di miele? E perché mai questo dovrebbe comportare un licenziamento per giunta “per giusta causa”? A stabilirlo è la Suprema Corte che ha respinto il ricorso della società aeronautica Aerosoft, in causa con un suo ingegnere partenopeo.

La vicenda è andata così, e siamo sempre alle prese con il tormentato Articolo 18.

Nel 2008, la Corte d’appello di Napoli aveva sentenziato che l’ingegner Mario G. aveva diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro.

Il dipendente era partito per la luna di miele 10 giorni dopo la celebrazione delle sue nozze. All’Aerosoft la cosa non era andata giù, e aveva detto bye bye al lavoratore neo sposino.

Come l’ha presa lui? Si sono ritrovati tutti sotto il martelletto del giudice, che lo aveva giustificato.

Oggi, con sentenza 9150 la Corte di Cassazione è tornata a dargli ragione, imponendo ad Aerosoft il pagamento delle spese processuali più 3,000 euro per l’avvocato difensore dello sposo.

Con questa decisione si stabilisce che i lavoratori in vista dei fiori d’arancio sono liberi di scegliere la data del loro viaggio di nozze che non necessariamente deve coincidere con quella della celebrazione del matrimonio. Allo stesso modo, gli imprenditori non possono dare il benservito ai quei dipendenti che scelgono di cominciare la loro luna di miele qualche tempo dopo il giorno più bello.

In sostanza, “la luna di miele può essere procrastinata ad un periodo ragionevolmente connesso, in senso temporale, con la data delle nozze, ciò essendo sufficiente a mantenere il necessario rapporto causale con l’evento”. Inoltre, la giornata del matrimonio non deve essere necessariamente ricompresa nei 15 giorni di congedo anche se il viaggio di nozze non può avvenire in maniera “del tutto svincolata dall’evento giustificativo”.

Detto tra noi: uno, il lavoro che fa, mica se lo sposa; ma quel che è giusto è giusto. Chissà se gli sposini avranno mandato una cartolina dalla loro vacanza!?
Paola PERFETTI

Articolo 8: è scontro in Parlamento

C’è aria di tempesta in Parlamento dopo l’approvazione dell’articolo 8 della manovra finanziaria che prevede la possibilità di derogare con i contratti aziendali e territoriali ai contratti nazionali e alla legge.

In materia di licenziamento, eccezion fatta per quello discriminatorio, per gravidanza o matrimonio, le modifiche apportate dalla maggioranza in commissione Bilancio al Senato all’articolo 8 del decreto, prevedono la possibilità di licenziare anche tramite un accordo a livello aziendale o territoriale, raggiunto a maggioranza dai sindacati più rappresentativi.
In contrapposizione con quanto previsto dall‘articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, e in particolare la legge 300 del 1970 che impone, per le aziende sopra i 15 dipendenti, il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo.

Dura la replica di parlamentari e sindacati: per la Cgil si tratta di una manovra che viola la Costituzione, e la sua leader, Susanna Camusso passa all’attacco: ”il governo autoritario annulla il contratto collettivo nazionale di lavoro e cancella lo Statuto dei lavoratori, e non solo l’articolo 18, in violazione dell’articolo 39 della Costituzione e di tutti i principi di uguaglianza sul lavoro che la Costituzione stessa richiama”.

Il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, tiene a sottolineare, in risposta alle parole della Camusso, che ‘‘è inequivoco che tali interventi non possono modificare le norme di rango superiore come i fondamentali principi costituzionale o di carattere comunitario e internazionale’ e che quindi ”non ha senso parlare di libertà di licenziare o usare altre semplificazioni che non corrispondono, neppure lontanamente, alla oggettività della norma”.

Il confronto sull’articolo 8 del decreto in discussione in Parlamento non può trasformarsi in uno scontro continuo tra diverse concezioni sul sistema di relazioni sindacali necessario al nostro Paese“, è la nota di intervento del direttore generale di Confcommercio, Francesco Rivolta.

Cisl e Uil evidenziano infine l’importanza di una precisazione, ossia che solo i sindacati comparativamente più rappresentativi possono siglare intese a livello aziendale, come stabilito nell’accordo interconfederale, unitario, del 28 giugno scorso, evitando la costituzione di sindacati di ”comodo”.

Alessia Casiraghi