Mobbing: cos’è, cosa rischia il datore di lavoro e cosa deve fare per evitarlo

Passa il tempo, ma non passano le brutte abitudini, ammesso che si possa definirle tali.

Gli atti di mobbing ricorrono non in modo infrequente sul posto di lavoro e se gli viene mossa tale accusa, il datore di lavoro rischia di subire una richiesta di risarcimento e in casi gravi specifici, addirittura la reclusione.

Cos’è il mobbing

Per mobbing s’intende una serie di comportamenti vessatori che si ripetono nel tempo ed effettuati nei confronti di un lavoratore, da parte di un datore di lavoro o di un suo superiore, ma talvolta anche da colleghi nel contesto lavorativo.

Il codice civile stabilisce, in relazione al contratto di lavoro, l’obbligo del datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e psicologica del dipendente e la sua corresponsabilità per le condotte tenute dai propri dipendenti.

La Cassazione, pertanto, definisce il mobbing come una violazione dell’obbligo di sicurezza del datore di lavoro. Poiché si tratta di un’ipotesi di responsabilità contrattuale, il Giudice cometenete è quello del lavoro.

Responsabilità del datore di lavoro

Per quanto detto sino ad ora, il datore di lavoro è ritenuto responsabile non solo di un suo comportamento lesivo nei confronti di un lavoratore, ma anche dell’eventuale condotta illecita posta in essere da uno dei suoi dipendenti in quanto non ne ha rimosso il fatto lesivo. Inoltre, non si può escludere la responsabilità del datore di lavoro quando i fatti lesivi siano effettuati da un dipendente che ricopre il ruolo di superiore rispetto alla vittima di mobbing.

Pertanto, il datore di lavoro ha il dovere di vigilare sul comportamento dei dipendenti e adottare azioni necessarie per far cessare tali condotte in modo concreto ed efficace, in quanto un intervento pacificatore non lo esonera dalla responsabilità a risarcire i danni.

La Giurisprudenza attribuisce rilevanza al mobbing quando ravvisa il protrarsi nel tempo del comportamento lesivo. Ossia, quando la natura vessatoria è svelata da una serie di elementi quali frequenza, sistematicità, durata nel tempo, progressiva intensità, coscienza e volontà di aggredire, disturbare, perseguitare, svilire la vittima.

Secondo la Giurisprudenza, è necessario individuare la linea di confine del mobbing e normali conflitti d’ufficio rientranti nella fisiologica prassi quotidiana della generalità dei luoghi di lavoro.

Il datore di lavoro evita il reato di mobbing se…

Le lesioni personali che stabiliscono la sussistenza del mobbing, vengono meno se le azioni ostili sono sporadiche e non riguardano attacchi alla reputazione della persona, violenze o minacce delle stesse, che non abbiano carattere persecutorio e discriminatorio, che non portino all’isolamento, al demansionamento, a minacce di licenziamento, all’abuso nei controlli datoriali e l’imposizione di comportamenti non rilevanti ai fini della prestazione lavorativa.

Il mobbing è rappresentato da una situazione di lavoro di conflittualità sistematica, persistente e in costante progresso in cui una o più persone vengano fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e qualità.

Invece, se lo stato ansioso-depressivo della presunta vittima di mobbing è riconducibile all’apporto di modifiche all’organizzazione del lavoro, dunque, un’azione legittima da parte del datore di lavoro, non sussiste una responsabilità risarcitoria del datore di lavoro.

L’atto di mobbing va dimostrato dal ricorrente

Stabilire se si è subito un atto di mobbing non è affatto semplice. La vittima ricorrente deve dimostrare l’abuso del superiore o del datore di lavoro oltre i limiti del suo ruolo. Messaggi, telefonate e testimonianze, possono costituire prove dell’accaduto. Pertanto, ogni caso singolo è da analizzare e il compito del Giudice del lavoro nel condannare o meno il datore del lavoro è qualcosa di delicato quanto complesso.

Le conseguenze sull’azienda

Un caso conclamato di mobbing è lesivo per l’azienda, non solo perché il datore di lavoro dovrà rispondere del risarcimento del danno in forma economica, ma perché l’accaduto può creare un clima di mancata serenità aziendale con un conseguente rendimento minore da parte dei dipendenti e, quindi, meno produttività e un ulteriore danno economico per l’azienda.

Oltre alle questioni legate ai costi, per le aziende ci sono gravi conseguenze anche sul piano sociale: se i dipendenti si dimostrano scontenti delle condizioni di lavoro a cui sono sottoposti e ne parlano al di fuori delle mura aziendali, l’immagine della stessa ne risente inevitabilmente e la concorrenza può approfittarne.

Mobbing come reato

Oltre al pagamento del risarcimento del danno, il datore di lavoro che viene condannato per lesioni personali da mobbing rischia di subire un procedimento penale ed essere condannato ad una pena. La legge stabilisce che chi procura ad altri, con la propria condotta, delle lesioni personali è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni.

Reagire alla crisi: io faccio così

Reagire alla crisi si può e si deve. C’è chi sceglie di non lasciarsi andare e trasforma il problema in una opportunità. Imprenditori costretti a chiudere che si reinventano una nuova professionalità, lavoratori che si ritrovano nel mezzo di una strada e raccolgono le loro forze per diventare a propria volta imprenditori e aprire un’attività.

La crisi è dura, ma è anche piena di casi e di storie di persone che hanno scelto di non cedere allo sconforto e all’amarezza; persone che hanno deciso che il miglior modo di rispondere alle difficoltà è quello di prenderle di petto e dire “Non ci sto“. Oggi ne raccontiamo una emblematica, quella di Giulia, per dare a tutti il segnale che vogliamo che passi: reagire si può e si deve.

Leggi l’intervista a Giulia Buggea

Ricomincio da me e divento imprenditrice

 

Nella lingua giapponese esiste un termine, Kiki, che letteralmente significa ‘rottura di equilibrio statico‘, ma che volgarmente viene tradotto con ‘crisi’. Una parola che rieccheggia sempre più spesso nei giornali e nelle conversazioni di chi, imprenditori e non, si trova a fare i conti con il lavoro che non c’è più, il rischio del fallimento o del licenziamento. Ma se il primo Ki esprime il concetto di ‘rischio’, il secondo Ki traduce l’idea di rottura in nuova ‘opportunità‘. Si può ricominciare davvero dopo aver attraversato l’esperienza della perdita?

Infoiva ha intervistato Giulia Buggea, ex responsabile amministrativa che oggi vive la sua ‘seconda vita’ da imprenditrice, a capo dell’azienda Studio Blu di Desio. Perchè ricominciare da capo, magari scoprendo un talento inaspettato, è sempre possibile.

Qual era la sua professione prima di diventare imprenditrice?
Sono stata responsabile amministrativa in una Sgr per circa 8 anni, poi nel 2009 ho deciso di approdare in uno studio notarile milanese. Avevo avuto da poco il secondo figlio e la prospettiva di una riduzione di orario mi faceva comodo; quindi quando mi è stato offerto un contratto di 6 ore, pur mantenendo lo stesso stipendio del posto precedente, non ho avuto esitazioni. Sono stata assunta, pur maturando qualche perplessità circa la scelta della mia assunzione perchè la contabilità in uno studio notarile è molto semplice, non richiede competenze particolari come invece una Sgr. Dopo circa un anno, è arrivato il licenziamento, preceduto da un periodo di mobbing.

Come ha reagito alla notizia del licenziamento?
Mi era già capitato di cambiare lavoro, non sono mai stata una professionista particolarmente sedentaria, ho sempre cercato di arricchire il mio curriculum a 360 gradi. Quindi il primo impatto non è stato così preoccupante, certo non mi era mai capitato prima di allora di venire licenziata, però ho incassato il colpo. La fase problematica è arrivata dopo: non avevo ancora ‘toccato con mano’ il momento socio economico di crisi che stavamo e stiamo vivendo, e mi sono sentita come schiaffeggiata. Ho pensato più volte ‘oddio il mio curriculum non interessa più a nessuno’: non capivo per quale ragione, ma, al termine di molti colloqui, seppur il ruolo che mi si richiedeva di ricoprire rispecchiava a pieno la mia professionalità, non venivo scelta perchè ero ‘troppo’. Quindi ho cercato di alleggerire il curriculum, di modificarlo, nella speranza di poter trovare un nuovo impiego.

Quale è stato invece l’impatto psicologico?
Per natura non sono una persona che si abbatte, ho un carattere piuttosto reattivo. Quello che più mi lasciava perplessa erano le cause del licenziamento, la loro futilità. Benchè mi fosse stata offerta una liquidazione di un’annualità lavorativa, ho deciso di non accettare: perchè se non sussiste una ragione valida per venire licenziata, non vedo perchè io debba accettare.

Quanto tempo è trascorso dal licenziamento all’avvio della nuova impresa?
Circa un anno di inattività.

E dopo, come si ricomincia e si decide di ‘diventare imprenditori’?
Non avrei mai e poi mai pensato di mettermi in proprio: ho sempre vissuto l’attività lavorativa, da dipendente, in modo oserei dire ‘assillante’. Pensi che la mia secondo figlia è nata il 3 gennaio, e dopo aver preso congedo per la maternità il 23 dicembre (ma solo perchè c’erano di mezzo le Vacanze di Natale!), a una settimana dal parto sono tornata al lavoro. Il mio senso del dovere nei confronti del lavoro era ossessivo. Quindi mi sono detta: se l’azienda è mia rischio di non vivere più!

Come ha mosso i primi passi da imprenditrice?
Ho deciso di prendere parte allo Start, un’iniziativa della Camera di Commercio di Monza e Brianza, che ha lo scopo di formare i nuovi imprenditori, fornendo loro attraverso corsi ad hoc le conoscenze amministrative, di marketing, di comunicazione, che sono la base per chi vuole lanciare una nuova attività. Inoltre a chi presentava il business plan più completo e convincente veniva erogato un finanziamento a fondo perduto per l’apertura della nuova attività. E sono stata fortunata, perchè l’ho vinto.

Di che cosa si occupa la sua azienda?
La mia azienda si chiama Studio Blu e si occupa della gestione del risarcimento dei sinistri assicurativi. Il mio è un ruolo da mediatore, di filtro, tra la vittima del sinistro e la compagnia assicurativa, per quanto concerne qualunque evento che genera un danno e che può essere risarcito da un’assicurazione; quindi si va dagli incidenti stradali, alle responsabilità professionali, responsabilità civile, infortuni, malattie. Tecnicamente il mediatore viene definito ‘patrocinatore stragiudiziale’, perchè se l’avvocato opera in giudizio, il patrocinatore opera in via stragiudiziale, quindi avendo un contatto diretto con il liquidatore, con il vantaggio di poter dimostrare immediatamente e direttamente gli elementi in suo possesso. Diversamente, quando ci si reca davanti ad un giudice per mezzo di un avvocato, si consegnano delle pratiche su cui il giudice delibererà in seguito. Viene da sè che la prassi in via stragiudiziale risulta molto più snella, vanta tempi più rapidi e soprattutto dal punto di vista economico è molto meno dispendiosa che affidare il sinistro ad un avvocato.

Come ha scelto di cimentarsi in questo settore?
L’ho scoperto navigando in rete, e poi è un lavoro che mi si veste addosso. E’ una professione che mi piace definire ‘utile’ e che a mio avviso non conosce crisi. Si tratta di un’attività in franchising, non è una novità assoluta per l’Italia, però sono poche le persone che ad ora si sono cimentate.

Ora che fa l’imprenditrice, teme che in futuro possa trovarsi nella situazione di dover licenziare un dipendente?
Assolutamente si. Al momento non ho dipendenti, siamo in 3 soci, ma mi piacerebbe in futuro poter offrire lavoro a qualcuno e allargare la mia attività, ma so anche che lo farò solo quando avrò la certezza di poter assumere un nuovo dipendente. Forse perché sono passata attraverso l’esperienza della perdita del lavoro, ma sono sempre più convinta che un dipendente sia la risorsa più importante di qualsiasi azienda. Un dipendente felice rende la tua azienda più florida. Dall’altra parte, le cronache dei giornali ci riportano situazioni gravi in cui gli imprenditori si trovano costretti a licenziare, e credo che in quei casi si tratti di una sofferenza da entrambe le parti, sia per chi perde il lavoro, sia per chi è obbligato a licenziare. Sono situazioni di disperazione.

Secondo lei, è corretto dire che in un momento di crisi ‘il miglior welfare è il lavoro’?
Sicuramente si. Il Governo dovrebbe incentivare le assunzioni. Da parte mia in questo momento, trattandosi di una start up, non mi trovo nella condizione di poter assumere; dall’altra parte esistono invece aziende più grandi che potrebbe assumere ma non lo fanno a causa della profonda incertezza del mercato. Se lo Stato intervenisse con sgravi sui contributi o agevolazioni sulle assunzioni, questo potrebbe essere senza dubbio un buon mordente.

Alessia CASIRAGHI

Sempre più neo-mamme vittime di mobbing

Che siano preparate, puntuali ed affidabili, poco importa, ed è questo il fatto grave dal momento che, quando si tratta di lavoro, dovrebbero essere questi i requisiti che più interessano.
E invece, tutto ciò passa in secondo piano, in confronto al fatto di essere mamme.

Non si tratta di “leggende metropolitane” ma dell’amara e triste verità, raccontata da tante donne che, diventate madri, si sono viste togliere lavoro e scrivania da sotto gli occhi.

A volte, sono costrette a dare le dimissioni, dopo mesi di mobbing da parte del capufficio e dei colleghi, spesso ansiosi di impossessarsi di mansioni, e stipendio, della malcapitata. Altre, invece, non appena annunciano che avranno un figlio, vengono lasciate a casa senza troppi complimenti. E nulla si può fare per farsi giustizia, dal momento che, nella maggior parte dei casi, il misero contratto che univa azienda e collaboratrice era a progetto o, se più fortunata, a tempo determinato.

I dati sono allarmanti perché, secondo il Centro Donna della Cgil, le segnalazioni, da ottobre dell’anno scorso, sono state circa mille, e quasi tutte riguardavano, appunto, mobbing, demansionamenti e minacce di licenziamento dopo la fine del congedo. Congedo richiesto, in un anno, da 20mila mamme nella città di Milano e, tra queste, l’8% ha poi dato le dimissioni. Sono 1.670 donne, contro le poco più di 1.400 del 2009. Un aumento del 14 per cento.

Maria Costa, del Centro Donna della Cgil, spiega: “Fra il 2008 e il 2009 la quota di mamme dimissionarie, dopo la maternità, era diminuita. Nel 2010, invece, i numeri si sono alzati di nuovo. Soprattutto a causa della crisi

Le madri, prima lavoratrici, e magari anche soddisfatte e stimate da superiori e colleghi, si vedono costrette a rimanere a casa, risparmiando su asilo nido e baby-sitter, certo, ma frustrate da una condizione che non hanno scelto loro.

Luigia Cassina, del Coordinamento femminile della Cisl, rincara la dose affermando: “Con la crisi è cresciuta soprattutto la richiesta di personale full time. È come se per le aziende ci fosse un’equivalenza tra presenza del personale e produttività. Con il risultato che soluzioni moderne come flessibilità degli orari, part time e telelavoro scompaiono: siamo tornati indietro di dieci anni”.

Le agevolazioni, dunque, che per qualche tempo avevano agevolato le neo mamme, e metterle in condizione di godere del proprio figlio senza però rinunciare ad un’occupazione, ora non ci sono più.

A Milano la quota di donne occupate si attesta al 58,8 per cento, contro il 73,7 per cento degli uomini. Sono 772mila le milanesi che lavorano: di queste, però, ancora poche riescono a raggiungere posizioni di rilievo in azienda. Secondo l’ultimo Rapporto biennale sull’occupazione femminile e maschile in Lombardia, presentato in primavera da Regione e Provincia, solo il 18 per cento delle dirigenti d’azienda è “rosa”. E nel caso dei lavori a termine, sono sempre le donne a rischiare di più la perdita del posto: nel 43,8 per cento dei casi i contratti non vengono rinnovati. Nel 2007 la stessa percentuale era al 35,8.

Luigia Cassina continua: “Il problema è culturale. È come se alla donne venisse detto: vuoi diventare madre? Bene, hai fatto la tua scelta di vita. E il lavoro non può più farne parte”.

E se quel lavoro era necessario per andare avanti, soprattutto con l’arrivo di un bimbo, poco importa. Sicuramente non a quei datori di lavoro che non si fanno scrupoli a lasciare a casa donne che, oltre ad aver bisogno di un’occupazione, sono qualificate per svolgerla.

Vera Moretti