Canone Rai, la rivolta delle partite Iva

Ecco ci mancava solo il canone Rai speciale! 
In questi giorni migliaia di bollettini sono stati inviati alle aziende iscritte alle Camere di Commercio che abbiamo apparecchi che ricevono trasmissioni televisive e usino per motivi lavorativi televisori come i ristoranti e alberghi. Sul piede di guerra, e come dargli torto, artigiani, commercianti e partite Iva che si sono visti recapitare il bollettino come se passassero le loro intere giornate lavorative a poltrire davanti alle trasmissioni (soporifere) del pomeriggio della televisione pubblica.

Il canone speciale, così si chiama l’ennesima tassa di cui non sentivamo la mancanza, va pagato, spiega da mamma Rai, da chi detiene «uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radio televisive fuori dall’ambito familiare nell’esercizio di un’attività commerciale e a scopo di lucro diretto o indiretto: per esempio alberghi, bar, ristoranti, uffici».

Bollettini sono arrivati anche ad attività manifatturiere, di noleggio, artigianali, informatiche, alimentari, aziende di servizi, agenti di commercio ai quali proprio non va giù questa richiesta. «Le imprese – secondo Nadia Beani Presidente di Confartigianato di Ascoli Piceno e Fermo – non hanno bisogno di balzelli ulteriori e di incertezze normative né possono ancora una volta rappresentare il salvadanaio per finanziare inefficienze e novità che tardano a venire».

Jacopo MARCHESANO

Canone Rai alle aziende. Ma vogliamo dire basta?

di Davide PASSONI

Ah! Lo aspettavamo, lo aspettavamo! Ci mancava solo questo! Uno dei tributi più odiosi di questo Paese, il canone Rai (secondo, forse, solo al bollo auto), oltre a essere inviso a milioni di privati cittadini ora diventa uno spauracchio anche per i professionisti e i lavoratori autonomi, che in questi giorni si sono visti recapitare da mamma Rai la richiesta di pagamento del canone per il possesso di apparecchi come pc e simili, persino smartphone, normalmente non finalizzati alla ricezione di programmi tv. Perché? Perché in base a un Regio Decreto del 1938 sono sottoposti a canone tutti gli “apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radiotelevisive indipendentemente dalla qualità o dalla quantità del relativo utilizzo”. Del 1938! Quando la tv era la fantascienza e internet l’inimmaginabile.

Eppure, professionisti e autonomi, già tartassati e additati dai più come sporchi evasori, si sono trovati nella cassetta delle lettere questo avviso: “La informiamo che le vigenti disposizioni normative impongono l’obbligo del pagamento di un abbonamento speciale a chiunque detenga uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione di trasmissioni radiotelevisive al di fuori dell’ambito familiare, compresi computer collegati in rete indipendentemente dall’uso al quale gli stessi vengono adibiti”. Importo minimo: 200,91 euro. Per uno scherzetto che, secondo Rete Imprese Italia, costerà alle imprese stesse 980 milioni. E allora sul web (twittate? Seguite l’hashtag #raimerda) monta la protesta – giusta, giustissima -, il mondo delle imprese protesta, le associazioni dei consumatori s’incazzano e persino i parlamentari dei vari schieramenti (di cui la Rai è espressione ed estrusione malata – paradosso nel paradosso…) si dicono allibiti.

Una follia. Totale. Visto che, estendendo l’interpretazione del decreto, anche tablet e smartphone finirebbero nel gorgo. Visto che i computer in rete utilizzati da aziende e professionisti a tutto servono fuorché a guardare la tv (chi ha tempo di guardare le porcherie della Rai mentre lavora a un bilancio o a un armadio a 8 ante?). Visto che, di norma, un tributo si paga per avere in cambio dallo Stato servizi all’altezza e che, diciamolo senza essere qualunquisti, il servizio che Rai eroga è in media piuttosto mediocre.

E naturalmente, come al solito, se non si paga entro i termini sono more su more, minacce, sigilli, ganasce, pignoramenti. Come al solito. Come al solito in uno Stato che pretende da noi rigore e puntualità nei pagamenti ma che, quando è lui a doverci dei soldi (perché si è sbagliato e, di fatto, ce li ha rubati), si fa tempi, leggi e procedure da se stesso, per prendersela comoda, prendere tempo e persino di evitare di pagare. Chiedete a quelle imprese, poveracce, che vantano crediti inesatti nei confronti della PA.

Uno stato presunto etico che applica due pesi e due misure nel dare e nell’avere, che sanziona (giustamente) chi sbaglia ma non ammette di sbagliare, che si nasconde dietro al potere delle leggi per spremere i cittadini-sudditi nei modi più assurdi. Anche chiedendo loro i soldi con questa porcheria del canone e dei pc, con un decreto dell’anno di grazia 1938, XV E.F. Ma vogliamo dire basta una buona volta?