Le imprese edili fuggono all’estero

Anche le imprese di costruzioni si dirigono sempre di più all’estero.
Se, infatti, la crisi ha colpito duramente l’edilizia, le aziende del settore hanno pensato bene di difendersi facendo affari fuori dai confini nazionali dove, a quanto pare, le possibilità di lavorare sono molteplici.

A dimostrare questa “fuga” ci sono i dati: il fatturato realizzato all’estero, è triplicato in soli 8 anni, passando da 2,955 miliardi è passato a oltre 8,7.

Questo ed altro è contenuto nel Rapporto 2013 presentato dal presidente dell’Associazione nazionale dei costruttori edili, Paolo Buzzetti, il quale ha dichiarato: “Sono risultati incredibili anche perchè in Italia va molto male e ci stanno portando a mantenere molte aziende che sul solo terreno interno non sopravvivrebbero“.

L’industria edile italiana è presente in circa 90 paesi, ed ha registrato una crescita del fatturato dell’11,4% nel 2012 e 12 mld di nuove commesse all’estero.
Il mercato interno, invece, è ridotto al lumicino, con un giro d’affari del 4,2%.

Ha spiegato Buzzetti: “Nel 2012 è stata registrata una crescita del fatturato dell’11,4 per cento e ciò è dovuto prevalentemente al fatto che oltre il 50 per cento delle grandi aziende italiane sono orientate verso i mercati esteri“.

Le buone notizie riguardano il sistema Italia che dimostra di funzionare e di essere molto apprezzato in terra straniera, dove, inoltre, è aumentata la presenza di piccole e medie imprese del settore, soprattutto nei paesi emergenti del Nord Africa.
Sono 88 i Paesi dove nel 2012 hanno lavorato le aziende di costruzione italiane, 9 dei quali del tutto nuovi: Cipro, Irlanda, Camerun, Costa d’Avorio, Guinea, Malawi, Canada, Thailandia e Zambia.

Analizzando i primi 10 mercati in cui sono localizzate le nuove commesse, 4 appartengono all’area Ocse (Stati Uniti, Grecia, Cile e Messico) e un altro fa parte dei Bric (Russia).
Il rapporto di collaborazione tra l’Ance e il ministero degli Esteri italiano ha reso possibile raggiungere 25 paesi con missioni imprenditoriali di grande successo e che continuerà ad intensificarsi nel prossimo anno.
Ed è già ben chiaro quali sono i mercati su cui si punterà nel 2014: quelli dell’area Asean, Medio Oriente, Africa sub-sahariana, Nord America e Asia centrale.

Vera MORETTI

Gli italiani le fanno meglio. Le case

Non è certamente un dato nuovo: le imprese italiane che meglio resistono alla crisi sono quelle maggiormente esposte all’estero, quelle che esportano e che, all’estero, compensano l’asfissia del mercato interno, incapace di assorbire i loro prodotti.

A sorpresa, ma forse neanche tanto, scopriamo che il discorso vale anche per le imprese della filiera edile. Fatturato triplicato negli ultimi otto anni, 63 miliardi di euro di contratti di concessione nell’ambito di raggruppamenti internazionali di cui quasi 18 miliardi appannaggio delle imprese italiane, una presenza in una novantina di Paesi nel mondo. Sono alcuni dei numeri più importanti contenuti nell’ultimo Rapporto Ance sull’industria delle costruzioni italiane nel mondo, presentato nei giorni scorsi alla Farnesina.

I dati dell’Ance fotografano una crescita della presenza delle imprese italiane all’estero, a fronte della crisi del settore all’interno dei confini nazionali. E dal momento che, come si suo dire, Italians do it better, gli italiani lo fanno meglio, grazie all’altissimo livello di know how tecnologico, le imprese tricolori sono riuscite a penetrare in mercati competitivi e selettivi come Canada, Stati Uniti e Australia.

Il fatturato estero nel 2012 è stato di oltre 8,7 miliardi di euro, con una crescita dell’11,4% rispetto all’anno precedente. In più, dal 2004 al 2012, l’estero è cresciuto del 196,2%, con una media annua del 14,5% e nel 2012 le nuove commesse hanno raggiunto quota 12 miliardi di euro. Tra i primi 10 mercati dove sono localizzate le nuove commesse, 4 appartengono all’OCSE (Cile, Grecia, Messico, Usa) e un altro fa parte dei cosiddetti Paesi BRIC, la Russia.

Sono risultati incredibili – ha detto il presidente dell’Ance Paolo Buzzetti che consentono di mantenere in vita molte aziende che sul solo mercato interno non sopravvivrebbero. La maggior parte delle grandi imprese italiane di costruzione, infatti, consegue all’estero oltre il 50% del proprio fatturato”.

Buzzetti ha anche sottolineato l’importanza della stabilità e della continuità d’azione del Governo. “L’instabilità non deve compromettere la linea di politica economica intrapresa, a cominciare dall’approvazione della legge di stabilità, per scongiurare il commissariamento del nostro Paese. E’ fondamentale confermare la cancellazione dell’Imu sulla prima casa e convertire in legge i provvedimenti a sostegno dell’edilizia”.

Mattone su mattone, l’edilizia per ricostruire l’Italia

di Davide PASSONI

Si è tenuto nei giorni scorsi a Milano il Made Expo, la fiera internazionale dell’edilizia e dell’architettura che è stata l’occasione, tra le altre cose, per fare il punto sullo stato di salute della filiera edile italiana, una di quelle che ha maggiormente subito i colpi della crisi e che, negli ultimi anni, ha visto drasticamente calare addetti, fatturati, investimenti.

Ebbene, la musica non sembra cambiare più di tanto anche per il 2013, nonostante il piano di incentivi, soprattutto per la riqualificazione, messo in atto dal governo. Gli effetti positivi degli incentivi attenuano infatti di poco la negativa valutazione sull’andamento degli investimenti in costruzioni nel 2013. Secondo i dati Ance, a mitigare il calo dei livelli produttivi nel 2013 contribuiscono le ricadute positive che derivano dal pagamento alle imprese di una parte dei debiti pregressi della Pubblica Amministrazione.

Gli investimenti in riqualificazione del patrimonio abitativo, che rappresentano nel 2013 il 37,3% del valore degli investimenti in costruzioni, sono l’unico comparto che mostra un aumento dei livelli produttivi. Rispetto al 2012, si stima infatti una crescita del 5,3% in termini monetari e del 3,2% per le quantità prodotte, che produce un aumento estimativo pari a circa 2,4 miliardi di euro in valori correnti.

Naturalmente non basta. Alla base della crisi del mercato dell’edilizia c’è, come è facile immaginare il solito mix di fattori che deprimono buona parte dei mercati su cui si basa la nostra economia: stretta e soprattutto incertezza fiscale per quanto riguarda la tassazione sulla prima casa, contrazione della domanda interna e del potere d’acquisto delle famiglie, stretta creditizia da parte delle banche che, sempre più spesso, faticano ad erogare mutui,  maggiore costo del denaro sui mutui erogati, a causa delle fluttuazioni dei mercati internazionali.

Il tutto si traduce nel consueto bagno di sangue: chiusura di imprese, specialmente quelle artigiane emorragia di posti di lavoro, mercato stagnante.

Questa settimana Infoiva tornerà sull’argomento edilizia per capire se, al netto dei fattori sopra ricordati, quel barlume di ripresa che in tanti si ostinano a vedere c’è anche in questo settore chiave, flagellato da anni di crisi senza risposte. Vedremo se qualche risposta arriverà.

Se la PA non paga, l’impresa crolla (e anche il Paese)

 

Il rischio è quello di un cedimento strutturale: dell’impresa prima, del Paese poi.  Sono 19 i miliardi di euro che la PA deve ancora alle imprese impegnate nell’edilizia e nelle opere pubbliche in Italia; pagamenti non ancora onorati che se procrastinati, potrebbero costare alle imprese un conto salatissimo, la chiusura dell’azienda.

Mentre ieri si è svolta a Roma la Manifestazione promossa dall’ANCI, l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, per gridare il loro no al Patto di Stabilità che strangola le imprese, Infoiva ha incontrato Paolo Buzzetti, Presidente di ANCE, l’associazione che riunisce i costruttori edili.

Quante sono le imprese vostre associate colpite dalla piaga del ritardo dei pagamenti da parte delle PA?
Quasi tutte le pubbliche amministrazioni pagano in ritardo. In media le imprese attendono 8 mesi in più per vedersi onorare il corrispettivo dovuto ma spesso si arriva anche a due anni. Per questo tutte le nostre aziende che lavorano con la PA , su tutto il territorio nazionale, subiscono l’odioso fenomeno. Un malcostume che per le imprese di costruzione si traduce in 19 miliardi di crediti non pagati.

Quanto è pericolosa per la piccola e media impresa oggi la combinazione fra crisi economica e ritardo nei pagamenti delle PA?
Stretta del credito da parte delle banche e ritardati pagamenti sono un cocktail micidiale per le imprese che di fronte alla mancanza di liquidità non hanno soluzioni se non quella di chiudere. Un meccanismo che ha toccato anche le imprese sane, quelle con lavori in portafoglio, che si sono trovate nell’impossibilità di proseguire i lavori, di pagare i propri dipendenti e i fornitori. Un intero settore industriale, quello delle costruzioni, che rischia di scomparire. Gli sforzi seppur apprezzabili del ministro Passera e del Viceministro Ciaccia hanno però solo scalfito un macigno fatto di politiche depressive e reiterate nel tempo. E’ necessario, quindi, intervenire subito e con maggiore coraggio.

Come commenta la presa di posizione da parte dell’ANCI di affrontare il problema sforando il patto di stabilità per pagare le imprese?
Insieme ai Comuni siamo stati i primi a denunciare l’effetto perverso che un’applicazione così restrittiva del patto di stabilità stava producendo sul tessuto economico e sulle imprese e per questo abbiamo promosso in collaborazione con l’Anci l’iniziativa pubblica del 21 marzo. Una platea di sindaci e imprenditori compatta nel chiedere al Governo un piano immediato di sblocco dei fondi degli enti locali già disponibili. Già nel 2010 tutta la filiera dell’edilizia raccolta negli Stati generali scese in piazza per manifestare una situazione che ormai era divenuta insopportabile. Oggi, a distanza di tre anni, il debito della Pa nei confronti delle imprese di costruzione è cresciuto a dismisura e quasi nullo è stato l’effetto della certificazione dei crediti che il governo Monti ha introdotto nella speranza di smuovere qualcosa. Come sempre il problema va risolto all’origine e cioè è necessario un allentamento del patto di stabilità altrimenti tutti gli sforzi risultano vani e per pagare le imprese non rimane alle amministrazioni che sforare il patto.

Il ritardo nei pagamenti della PA è un male tutto italiano. Perchè?
Il livello del debito pubblico italiano e la necessità di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013 hanno imposto all’Italia sacrifici ingenti. Gli enti locali sono stati costretti a tagliare e questo ha generato un meccanismo a cascata che ha finito per sacrificare l’anello più debole ossia le imprese. La cosa più grave è che per tutto questo tempo si è nascosto il problema sotto il tappeto, utilizzando un artificio contabile che fa emergere il debito nel bilancio della Pa solo quando viene pagato. Paradossalmente in questo modo non pagare le imprese significa non avere debiti e quindi essere virtuosi, cosa che in realtà non è. Così facendo non si è fatto altro che scaricare sulle aziende le inefficienze dello Stato.

Quali sono le prime misure che chiedete di mettere in campo al nuovo Governo per fronteggiare questa emergenza?
Sono necessarie poche azioni concrete. Innanzitutto occorre definire un piano effettivo di smaltimento dei debiti pregressi della PA per lavori eseguiti, da concordare con le istituzioni europee come misura una tantum. Proprio su questo punto negli scorsi giorni i Vicepresidenti della Commissione europea Rehn e Tajani hanno aperto a un’ipotesi di superamento dei vincoli del patto di stabilità per il pagamento delle imprese. Con l’Anci abbiamo proposto un Piano in tal senso che prevede lo sblocco di 9 miliardi di euro di fondi disponibili solo nel 2013, una boccata d’ossigeno per le aziende. Ma per modificare davvero questo malcostume occorre inoltre rivedere il Patto di stabilità interno, introducendo una golden rule che salvaguardi la componente di investimento nei bilanci delle amministrazioni pubbliche e applicare pienamente la direttiva europea sui ritardati pagamenti per i nuovi contratti anche nel settore dei lavori pubblici.

Alessia CASIRAGHI

Costruire l’Italia dalle fondamenta

 

Costruire il nuovo esecutivo, dare forma al nuovo Governo. Ma quali saranno le fondamenta? Se l’Italia post elezioni vacilla, hanno invece le idee chiare su cosa vogliono e su quali siano le necessità di piccole e medie imprese le Associazioni di Categoria.

Infoiva ha intervistato quest’oggi Paolo Buzzetti, Presidente di ANCE, l’Associazione Nazionale dei Costruttori Edili. Perchè quando si parla di fondamenta…

Quali sono, a suo parere, le tre priorità che dovrà affrontare il nuovo governo per rilanciare domanda e consumi?
Per prima cosa mi auguro che si riesca a definire rapidamente un quadro di stabilità politica. Serve una soluzione che eviti lo stallo e consenta di formare un governo, qualunque esso sia, in grado di affrontare con efficacia le emergenze e mettere in campo quelle misure per la crescita di cui il Paese ha bisogno. I tre impegni più urgenti sono: lavoro, pagamenti della pubblica amministrazione e credito. Bisogna tornare a investire per arginare la grave emorragia occupazionale, che solo tra costruzioni e indotto ha fatto perdere oltre mezzo milione di posti di lavoro, sostenere le famiglie nell’acquisto dell’abitazione per far ripartire il mercato immobiliare, rimettere in sesto le nostre città, cominciando da scuole e ospedali.

Quali, invece, le politiche che dovrà mettere in campo per dare sostegno a imprese e professionisti, strozzati dalla crisi?
Sicuramente c’è un problema comune e molto forte che è la mancanza di liquidità, che sta facendo fallire migliaia di imprese e mettendo in seria difficoltà anche le realtà più solide. Bisogna intervenire concretamente su questo, ma non solo. E’ necessario guardare al futuro, servono politiche che facciano leva sugli investimenti che più di tutti possono creare occupazione e avere ricadute positive sull’economia. E quindi puntare sulla rigenerazione urbana, la messa in sicurezza del territorio, la riqualificazione energetica del nostro patrimonio edilizio, la realizzazione di infrastrutture di qualità in tempi giusti e a costi adeguati. Interventi utili a far ripartire l’edilizia e tutti gli 80 settori ad essa collegati, dare una scossa positiva a tutto il sistema economico facendo, al tempo stesso, cose necessarie per il benessere dei cittadini.

Per parte vostra, quali saranno le prime istanze che porterete al nuovo esecutivo?
Come Ance abbiamo messo nero su bianco un piano per il rilancio dell’occupazione e lo sviluppo economico del Paese, che prima delle elezioni abbiamo consegnato ai leader dei principali schieramenti politici e sul quale abbiamo riscontrato un ampio consenso. Pochi e concreti punti per riavviare l’edilizia e l’economia di cui il nuovo governo dovrà tenere conto. Molti altri paesi – cito tra tutti Francia, Germania e Stati uniti – si sono già mossi in questa direzione e stanno puntando sull’edilizia come motore per il rilancio. Anche noi possiamo ripartire, se il governo avrà il coraggio di credere e puntare con forza sulle costruzioni. Abbiamo calcolato che sbloccando le risorse mai spese per il nostro settore – ben 39 miliardi di fondi disponibili e bloccati dal patto di stabilità e dalla burocrazia – si potrebbero generare oltre 660.000 nuovi posti di lavoro e avere una ricaduta complessiva sul sistema economico di 130 miliardi di euro. Una mossa strategica che ci consentirebbe di alleviare la morsa della crisi e gettare le basi di un importante programma di crescita a medio-lungo termine.

Qual è l’errore più grave commesso dai precedenti governi che non volete venga più commesso dall’esecutivo che verrà?
Negli ultimi anni sono state compiute una serie di scelte molto penalizzanti per il settore. Misure fiscali che hanno depresso il mercato immobiliare, investimenti ridotti al lumicino, risorse finanziate ma rimaste sulla carta e che sarebbero state fondamentali per realizzare cose utili e necessarie per il benessere di tutti. E’ questo l’errore da non ripetere: fermare l’edilizia, spegnendo il principale motore della macchina Paese.

Alessia CASIRAGHI

Federcomated: “Edilizia, il governo è il grande assente”

di Davide PASSONI

Federcomated è la Federazione Nazionale Commercianti Materiali da Costruzioni Edili. Una realtà non di secondo piano per chi lavora nel campo edile che, nel suo porsi a cavallo tra filiera produttiva e distributiva, ha una sorta di osservatorio privilegiato sull’intero settore e sulla crisi che lo sta mettendo in ginocchio. Ecco l’analisi lucida del suo presidente, Giuseppe Freri.

I numeri parlano da soli: la crisi del settore edile in Italia vale 72 Ilva. Perché c’è silenzio su questa strage? Condivide le analisi di Buzzetti?
Condivido il pensiero di Buzzetti e lo estendo a tutta la filiera delle costruzioni: dal progettista al costruttore, dal distributore all’utente finale. La situazione è molto difficile perché abbiamo zero investimenti nelle infrastrutture, zero nel nuovo, piccoli segnali per quanto riguarda il rinnovo e il restauro. Quando partecipo ai tavoli di Federcostruzioni sento tanta gente convinta che si debba fare qualcosa e anche noi, naturalmente, lo pensiamo. Tutti però parliamo da un anno senza aver trovato un’idea centrale per far muovere il governo.

Che non vi ascolta?
C’è stata e c’è poca sensibilità da parte del governo Monti verso il settore delle costruzioni. Vero, ci sono stati i bonus energia e ambiente, che vanno nella direzione giusta, ma sono una goccia nel mare nel contesto generale delle costruzioni. La situazione si sta aggravando indipendentemente dal caos politico di questi giorni: manca il “motore” di una politica con la P maiuscola.

E quindi anche voi soffrite?
Ne parlavo con il presidente di Confindustria Squinzi e con il presidente di Confcommercio Sangalli: anche se la situazione è drammatica, tanto sul fronte di chi non ha lavoro, quanto sul fronte delle imprese che hanno maestranze eccellenti che oggi non hanno nulla da fare, noi come distribuzione per 3 anni abbiamo retto e fatto fronte alla crisi.

Beh, meno male…
Soffriamo meno sotto l’aspetto dei volumi, ma molto sul fronte del credito: chi opera nella distribuzione ha difficoltà a riscuotere le fatture, se va bene ci riesce a 180 giorni. Soprtattutto chi lavora per il pubblico, che mette in difficoltà gli imporenditori che, alla lunga, sono costretti a portare i libri in tribunale.

Che cifre muove il settore dei materiali da costruzione, in Italia, “al netto” della crisi?
Sono circa 8mila punti vendita, con 70mila addetti e 20 miliardi di euro di fatturato annui.

Anche all’estero i vostri omologhi non sono messi benissimo…
Come Federcomated operiamo anche all’estero e vediamo che in altri Paesi, anche se duramente colpiti dalla crisi, la situazione non è come quella italiana: uno per tutti la Polonia, dove sono stato e dove sono rimasto impressionato dal fermento che c’è nel settore edile. L’Italia sconta l’assenza della politica, in 18 anni non c’è stata attenzione per dare infrastrutture vere al Paese, per cui chi produce i vari componenti – laterizi, sabbia, cemento, acciaio – è in forte difficoltà.

Com’è l’umore dei vostri associati?
Come Federcomated e Ascom territoriali posso dire che realizziamo molto, sia come lavori che come iniziative, ma che da parte dell’associato non sempre c’è la volontà di utilizzare gli strumenti che mettiamo a disposizione e questa è la mia amarezza. Dobbiamo lavorare molto, ma penso che ce la faremo. Credo che questa crisi porterà a una selezione in tutta la filiera, dalla quale usciranno i migliori, aspettando la ripresa per la metà del 2013. Lo dicono, speriamo…

Buzzetti: “L’edilizia non può e non deve essere destinata a morire”

di Davide PASSONI

Paolo Buzzetti, presidente di Ance, è una persona abituata a parlare chiaro: pane al pane, vino al vino. E in un momento come questo, nel quale l’edilizia soffre forse più di altri settori le mazzate della crisi, dire le cose come stanno serve a non nascondersi e aiuta a trovare soluzioni. Non ci credete? Leggete l’intervista che ha rilasciato a Infoiva: capirete molte cose…

I numeri parlano da soli: la crisi del settore edile in Italia vale 72 Ilva. Perché c’è silenzio su questa strage?
Quello che sta accadendo all’edilizia è drammatico: siamo di fronte a una vera e propria deindustrializzazione del settore, con un calo vertiginoso degli investimenti e della produzione, scesa ai livelli più bassi degli ultimi 40 anni. Tutto ciò si è tradotto, purtroppo, in 360 mila persone lasciate a casa, che diventano 550 mila se si considera tutta la filiera del settore. Cifre che lasciano senza fiato. Ma ha detto bene: questa perdita, paragonabile a 72 Ilva di Taranto, 450 Alcoa o 277 Termini Imerese, avviene nel silenzio generale perché si tratta di posti che sono andati via alla spicciolata, pochi alla volta, senza visibilità e clamore mediatico. Eppure l’emergenza sociale è fortissima, tocca le famiglie sia degli operai che degli impiegati e dei professionisti che lavoravano da anni nelle nostre imprese.

Come è potuto accadere che un settore anticiclico per eccellenza come il vostro sia diventato così pesantemente prociclico?
E’ vero, sono lontani i tempi in cui si poteva dire “quando l’edilizia va, tutto va”, quando, cioè, era evidente il ruolo di sostegno alla domanda prodotto dagli investimenti in costruzioni che, vale la pena ricordarlo, possono vantare il maggior effetto moltiplicativo sull’intera economia rispetto a qualsiasi altro settore. Ora non è più così, perché invece di immettere liquidità nel sistema delle costruzioni ed osservare l’effetto positivo sul reddito si è preferito togliere le risorse al settore, ad esempio ritardando i pagamenti alle imprese, dimezzando le risorse per nuove infrastrutture o, infine, favorendo il credit crunch praticato dalle banche nei confronti delle imprese e delle famiglie italiane.

Non è un caso che nel 2012 si siano dimezzate le richieste di mutui per la casa: che cosa pensa di questo crollo?
Indubbiamente, soprattutto nell’ultimo anno, si è verificato un forte ridimensionamento delle compravendite, ma non si tratta di un problema di domanda. Il fabbisogno di casa in Italia è ancora forte, pari a circa 600 mila unità se mettiamo a confronto il numero di abitazioni costruite e quello di nuovi nuclei familiari. Quello che si è inceppato è, invece, soprattutto il circuito del credito, che rende estremamente difficile alle famiglie accedere ai finanziamenti per la casa. Per questo motivo i mutui erogati si sono quasi dimezzati e, tra inasprimento del carico fiscale derivante dall’Imu e forte incertezza legata alla crisi economica, la casa, bene primario per gli italiani, rischia di apparire come un lusso. Ma le soluzioni esistono. Noi, come Ance, abbiamo avanzato una proposta concreta, un “piano salva-casa” che si rifà all’esperienza virtuosa delle cartelle fondiarie del dopoguerra,  con le quali sono stati compiuti i maggiori investimenti immobiliari del nostro Paese.

Banche, pubblica amministrazione, politica, burocrazia: chi ha più colpe in tutto questo? Ci siamo dimenticati di qualcuno?
La colpa è di tutti e di nessuno. In realtà la crisi non solo ha colpito duramente tutto il funzionamento del sistema economico, ma ha reso ancora più evidenti lentezze e difficoltà della nostra macchina Paese. In particolare la burocrazia opprimente, che dilata e rende inaccettabili i tempi di realizzazione delle opere, ostacolando l’attività degli imprenditori corretti che si trovano ad operare tra mille difficoltà e soffocati da una giungla di norme spesso ridondanti e contraddittorie.

Trovare colpevoli non basta, bisogna trovare soluzioni: che cosa serve per uscire dalla palude?
Per prima cosa ridare fiato alle imprese e restituire alle famiglie serenità e fiducia nel futuro. Come Ance abbiamo individuato una serie di proposte concrete con le quali vogliamo contribuire alla ripresa dell’economia e all’avvio di una crescita duratura. Innanzitutto crediamo  che sia necessario mettere mano a un piano di messa in sicurezza del territorio, che significa anche e soprattutto adeguare il patrimonio edilizio esistente, a partire da scuole e ospedali. Fondamentale, in questo momento così difficile, è anche dare concretezza al Piano città, che l’Ance ha proposto e che ha trovato corpo nel primo decreto sviluppo. Non ultimi i pagamenti dovuti alle imprese da parte della p.a. Se guardiamo fuori dall’Italia ci accorgiamo che i nostri partner europei, come Francia e Germania, ad esempio, stanno già sperimentando con successo politiche e incentivi mirati per la crescita degli investimenti in costruzioni, soprattutto nel mercato residenziale e della riqualificazione urbana.

Un messaggio di speranza – se le riesce… – per i suoi associati in vista dell’anno nuovo.
Continuare a credere con forza e dignità nel proprio lavoro, non arrendersi. L’edilizia non può e non deve essere destinata a morire perché è stata per anni la benzina che ha fatto muovere l’economia del Paese e oggi può fare ancora tanto, non solo per contribuire alla  ripresa, ma anche per dare risposte concrete ai più importanti bisogni dei cittadini: casa, sicurezza delle scuole e del territorio, città più efficienti e vivibili.

No mutuo? No riparti

Uno degli indicatori più significativi di quanto il settore dell’edilizia stia soffrendo la crisi nel nostro Paese è sicuramente quello legato alla richiesta di mutui e alla compravendita di immobili. I dati recentemente forniti dall’Istat non lasciano spazio alla poesia.

Facciamoci male, partiamo subito parlando di mutui. Nel secondo trimestre 2012, secondo l’Istituto nazionale di statistica, i mutui, i finanziamenti e le altre obbligazioni con costituzione di ipoteca immobiliare hanno fatto registrare una flessione tendenziale del 41,2%. Strage in tutte le macroaree del Paese: Nordovest -38,6%, Centro -36%, Sud -44,8%, Isole -58,3%. Cifre da far accapponare la pelle, cifre che dimostrano tre cose: le famiglie non ne hanno più, le banche sono sempre meno propense a prestare denaro, senza domanda l’offerta non c’è e chi la deve sviluppare, le imprese edili e le immobiliari, naufragano.

A picco anche le compravendite immobiliari nel secondo trimestre 2012. Nel dato Istat anno su anno siamo a -23,6% per gli immobili residenziali -24,8% per quelli a uso economico. Anche qui, non si salva nessuna zona d’Italia: sia per il residenziale sia per l’economico le Isole registrano un -30,8%, il Nordest -26,1%, il Nord-ovest -22,6%, il Sud -19,9%. Siamo alle variazioni tendenziali peggiori dal 2008, l’anno di esplosione della crisi a livello mondiale, sia per le convenzioni di compravendite immobiliari nel complesso, sia nello specifico tanto per gli immobili ad uso abitativo, quanto per le quelli ad uso economico.

Spacchettando residenziale da economico, vediamo che, nel caso della seconda tipologia sono le Isole (-38,4%) a registrare il calo tendenziale più marcato, il Sud è a -23,5%, il Nordovest a -22,2%, Centro e Nord-est intorno al 25%. Le compravendite di unità immobiliari ad uso residenziale, infine, calano del 21,8% nelle città metropolitane e del 25,1% nelle altre città, quelle ad uso economico diminuiscono nelle altre città del 27% e del 21% nelle grandi città.

Allora, vi abbiamo storditi con tutte queste cifre? Ne volete ancora? Vi bastano? Noi pensiamo di sì, anche perché, se volete risparmiare tempo, concentratevi su due aspetti: ci sono solo segni meno e sono tutti numeri a doppia cifra. Pensate ancora che ci sia futuro per un Paese così? Vedete ancora la luce in fondo al tunnel, tanto cara all’ormai ex premier Monti? Qualcuno, cinicamente, dice che quella luce siano le fiamme dei disoccupati che si danno fuoco, qualcuno ancora che è il faro della locomotiva che ci sta travolgendo. Noi, modestamente, pensiamo solo che sia la un’illusione ottica.

Edilizia, la strage silenziosa

di Davide PASSONI

Un Paese che non è più in grado di costruire case o grandi opere è un Paese che non è in grado di costruire il proprio futuro. No, non stiamo esagerando, stiamo prendendo atto di un fenomeno che sta investendo uno dei settori che, tradizionalmente, è stato la locomotiva dell’Italia in tanti momenti di congiuntura difficile e che da questa congiuntura economica sta uscendo con le ossa rotte, almeno quanto il Paese: quello dell’edilizia.

A parlare meglio, come sempre, sono i numeri: in tanti provano interpretarli e piegarli ai propri interessi, ma sempre numeri rimangono. In sei anni, dal 2008 al 2013, il settore avrà perso circa il 30% degli investimenti, pari a 360mila posti di lavoro in meno: più o meno come 72 Ilva, 450 Alcoa, 277 Termini Imerese. Lo dice Paolo Buzzetti, presidente dell’Ance, l’associazione nazionale costruttori edili il quale, presentando nei giorni scorsi questi dati atroci ha messo tutti in guardia: “La situazione è drammatica e, considerando anche i settori collegati, emerge con tutta evidenza il rischio sociale a cui stiamo andando incontro: infatti, la perdita occupazionale complessiva raggiunge circa 550mila unità“.

Un calo che non lascia superstiti praticamente in nessun comparto. La produzione di nuove abitazioni alla fine del 2013 sarà calata del 54,2%, l’edilizia non residenziale privata segnerà -31,6%, le opere pubbliche saranno crollate del 42,9%. In controtendenza solo il comparto della riqualificazione del patrimonio abitativo, in progresso del 12,6%.

Nubi nere anche sul fronte delle compravendite, calate nei primi 9 mesi del 2012 di quasi il un quarto (-23,9%), a fronte di un fabbisogno potenziale di 600mila abitazioni. Tutti dati che inducono l’Ance a constatare come sia “l’estrema incertezza che scoraggia e rinvia le decisioni di investimento delle famiglie, per le difficili prospettive del mercato del lavoro e per la flessione del reddito disponibile“.

E vogliamo parlare di mutui? Parliamone… Secondo l’Istat, nel secondo trimestre 2012 mutui, finanziamenti e altre obbligazioni con costituzione di ipoteca immobiliare hanno registrato una caduta anno su anno del 41,2%. Se delle compravendite di immobili residenziali si è detto, sul fronte di quelle relative a immobili ad uso economico (esercizi commerciali, uffici, laboratori, capannoni) si è andati ancora peggio: -24,8%.

Guardando ai diversi ambiti territoriali, sempre nel secondo trimestre di quest’anno tanto le compravendite per i fabbricati destinati all’abitazione quanto quelle per i fabbricati finalizzati all’attività economica, hanno registrato cali in tutta Italia, in particolare nelle Isole: -30,3% residenziale, -38,4% economico. Cali più netti nei centri più piccoli (-25,1%), più contenuti nei grandi centri (-21,8%).

Dulcis in fundo, la pillolina dell’Imu che, secondo l’Ance (ma secondo il buon senso, diremmo…), scoraggia l’acquisto da parte delle famiglie che godono ancora di scarsa fiducia da parte delle banche, sempre più restie a concedere mutui e finanziamenti.

Una considerazione finale. Per dare un’idea della drammaticità della situazione in cui versa il settore dell’edilizia è stato utilizzato il paragone di crisi ben più reclamizzate a livello mediatico come quelle dell’Ilva, dell’Alcoa, della Fiat a Termini Imerese. Tutte crisi per le quali il governo si è mosso (più o meno rapidamente) per elaborare se non soluzioni, almeno palliativi. Perché di fronte alla strage dell’edilizia, invece, il silenzio?

Forse perché certe crisi fanno più notizia di altre perché qualcuno è più bravo a “far casino” intorno a esse; forse perché certe crisi sono figlie dell‘insipienza decennale della politica (chi ha permesso di far costruire il mostro Ilva in riva al mare, senza alcuno scrupolo per gli sversamenti in acqua e per le emissioni nell’aria, permettendo poi che tutto intorno nascessero abitazioni senza colpo ferire, perché serbatoi di voti prima che alloggi per la forza lavoro?) che ora cerca di salvarsi la faccia con provvedimenti al limite del ridicolo; forse perché ci sono, per lo Stato, settori produttivi di serie A e di serie B e chi sta zitto ha sempre torto, anche e soprattutto se cerca di salvarsi con le proprie mani. Serie A o serie B, l’unica cosa che vediamo noi e che, di fronte a certe stragi produttivi l’Italia non rischia solo la retrocessione ma il fallimento.

Nate per costruire, destinate a crollare? Dentro la crisi delle imprese edili

di Davide PASSONI

L’Ance è l’Associazione nazionale costruttori edili e il suo presidente, l’ingegner Paolo Buzzetti, non è certo uno che le manda a dire. Sarà che quando si ha a che fare con putrelle, calcestruzzo, casseformi e mattoni, tempo per filosofeggiare non c’è; sarà che è sempre meglio dire pane al pane e vino al vino (anche se in Italia, spesso, questa onestà non paga), fatto sta che all’ultima assemblea Ance Buzzetti è stato chiaro: o si cambia rotta, o il settore delle imprese edili muore.

La crisi ha infatti reso un settore che era anticiclico per eccellenza, quello delle costruzioni, un settore prociclico al pari degli altri: crollo degli investimenti, cantieri fermi, aziende chiuse ed emorragia di posti di lavoro: 550mila in 6 anni. Una strage frutto tanto di crisi del mercato, quanto di una politica miope in materia di opere pubbliche quanto, ancora, di una drammatica assenza di liquidità che induce pubblico e privato a rinviare gli investimenti. A quando? Non si sa… Ma intanto se colossi come Ilva, Alcoa, Alitalia vacillano, dal palazzo arrivano subito leggi, interventi, liquidità. Senza nulla togliere al dramma della disoccupazione, che non ha razza, né colore, né diverso valore se l’impresa che chiude è piccola o grande, ci chiediamo: perché?

Intanto le imprese edili chiudono a centinaia. E, come ben sanno i lettori di Infoiva, si tratta per lo più di imprese piccole, familiari, artigiane, spesso tramandate di padre in figlio, sopravvissute alle peggiori crisi e messe in ginocchio da quella attuale. O ancora, si tratta di imprese messe in piedi da stranieri con esperienza, buona volontà e capitali, che in un batter d’occhio si sono viste mangiare il sogno di una vita nuova e di un riscatto sociale in un Paese che, tra tanti difetti, fa dell’accoglienza uno dei maggiori pregi.

Proprio per questi motivi Infoiva vuole dedicare alla filiera dell’edilizia in Italia il proprio focus settimanale. Perché un settore così non può e non deve morire; perché chi ha in mano le leve giuste per farlo ripartire (vero governo? vero banche?) le metta finalmente in moto; purtroppo, se la ripresa ci sarà, non potrà riparare i danni fatti dalla crisi alla stessa velocità con cui quest’ultima li ha causati: meglio però una terapia di lunga durata che alla fine rimette in piedi il paziente, piuttosto che un accanimento terapeutico che porta solo a staccare la spina al malato. E, con esso, al Paese.