Niente semaforo rosso ai prodotti italiani simbolo del Made in Italy

Alcuni prodotti simbolo della gastronomia italiana, come Prosciutto di Parma e Parmigiano Reggiano, ma anche Grana Padano e olio extra vergine di oliva, sono vittime di un sistema di etichettatura detta “a semaforo”, che sta colpendo ingiustamente oltre il 60% delle produzioni italiane.

Coldiretti ha spiegato, infatti, che esiste un’informazione visiva da apporre sui prodotti in vendita che prevede l’applicazione di un bollino rosso, giallo o verde, da qui il termine di etichettatura a semaforo, a seconda di ciò che contengono. Ma, per quanto riguarda i prodotti nostrani, si tratta a volte di indicazioni fuorvianti, poiché non sempre il contenuto di nutrienti critici per la salute è veritiero, e questo può essere assolutamente pericoloso per la nostra tradizione.

Se poi consideriamo che, a discapito di alcuni componenti considerati nocivi, vengono pubblicizzati alimenti a basso contenuto di sali e zuccheri ma ottenuti mediante processi chimici non proprio salutari, si capisce come in alcuni Paesi stranieri abbiano metodi non certo corretti per stabilire la bontà di un prodotto.

L’appuntamento di oggi della Piattaforma europea per la dieta, l’attività fisica e la salute dovrebbe servire proprio per respingere l’ipotesi di una informazione visiva forviante che rischierebbe di escludere paradossalmente dalla dieta alimenti sani come l’olio extravergine d’oliva e promuovere, al contrario, le bevande gassate senza zucchero, ingannando i consumatori rispetto al reale valore nutrizionale.

A causa del traffic lights applicato nei supermercati del Regno Unito, il Parmigiano Reggiano pre-porzionato etichettato a semaforo dal 2013 al 2015, ha avuto una perdita di quota di mercato del 13% in volume mentre il calo per il Prosciutto di Parma è stato del 14%. Questo perché la segnalazione sui contenuti di grassi, sali e zuccheri non si basa sulle quantità effettivamente consumate, ma solo sulla generica presenza di un certo tipo di sostanze.

Per questo motivo, questo metodo di etichettatura andrebbe rigettato con decisione e considerato non veritiero, eppure ad oggi è adottato dal 98% dei supermercati inglesi, mettendo a rischio alcuni prodotti cardine del cibo Made in Italy.

Vera MORETTI

Masterchef: dov’è il made in Italy?

Ah, i bei tempi della prima edizione di Masterchef, quando tutto era preso alla leggera, bisognava capire se il format funzionava (tanto che era trasmesso in chiaro) e i giudici non erano ancora diventati dei divi da copertina da bravi ma oscuri (o quasi) cuochi quali erano.

Adesso, oltre alle liti e ai casi mediatici innescati con Striscia la Notizia, Masterchef deve anche difendersi da un’accusa gravissima: non tutelare il made in Italy. Proprio Masterchef, una trasmissione che, almeno nella sua versione italiana, si è sempre vantata di valorizzare e promuovere (o quasi…) la diversità e l’eccellenza agroalimentare italiana.

L’accusa arriva da Coldiretti, secondo la quale nelle ricette riportate sui siti delle diversi edizioni di Masterchef relativi ai diversi continenti, c’è un abuso fastidioso e dannoso per il made in Italy di utilizzo di Parmesan al posto del Parmigiano. Coldiretti, a solo titolo di esempio, nomina alcuni piatti presi dai siti delle varie edizioni mondiali di Masterchef: Pomodoro basilico e bruschetta al Parmesan, Pasta condita con olio di oliva e Parmesan, Pollo al Parmesan… 

Per l’associazione italiana dei coltivatori diretti, questo è davvero troppo. “La cucina ha un grande valore culturale – esprime Coldiretti in una nota – ed è chiamata a svolgere un ruolo determinante nel difendere far conoscere le tradizioni alimentari e con esse la vera identità dei prodotti impiegati. Invece nei siti ufficiali della trasmissione Masterchef dei diversi continenti, dalle Americhe all’Oceania si fa spesso riferimento a piatti che hanno come ingredienti il Parmesan anche quando fanno esplicito riferimento a ricette italiane“.

Secondo Coldiretti, per stigmatizzare questo scivolone di Masterchef sarebbe auspicabile un intervento anche del “pool di cuochi stellati chiamati giustamente a raccolta in vista di Expo 2015 dal ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina, con l’obiettivo di valorizzare il grande potenziale inespresso della cucina italiana dentro e fuori i confini nazionali”.

Il falso alimentare si mangia il Parmigiano

Il falso alimentare è una delle piaghe più dure che colpiscono il made in Italy e una delle vittime più illustri è il Parmigiano Reggiano. Come ha comunicato nei giorni scorsi Coldiretti, nel 2014 la produzione di falsi Parmigiano Reggiano e Grana Padano nel mondo ha superato per la prima volta quella degli originali.

Una sconsolante vittoria per il falso alimentare che ha provocato il calo del valore delle esportazioni, in controtendenza al record segnato all’estero dall’agroalimentare Made in Italy. Il “Dossier sul mercato del Parmigiano Reggiano, tra crisi ed opportunità” presentato da Coldiretti ha lanciato un chiaro segnale: è necessario combattere “la moltiplicazione selvaggia delle imitazioni in tutti i continenti” che è la prima arma del falso alimentare.

Nel 2014 la produzione delle imitazioni del Parmigiano e del Grana, re del falso alimentare, ha superato i 300 milioni di chili, contro i 295 della produzione. Primi produttori di Parmigiano taroccato sono gli Stati Uniti, ma non sono da meno Russia, Brasile, Argentina, Australia, oltre ai Paesi dell’Est europeo maestri nel produrre i cosiddetti “similgrana”: Estonia, Lettonia, Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria.

Oltre ad azioni di contrasto da parte del governo nei confronti del falso alimentare made in Italy, in occasione della presentazione del dossier di Coldiretti, allevatori, casari, stagionatori, assaggiatori, cuochi, gourmet hanno lanciato una battaglia social su Twitter a difesa dei nostri formaggi con l’hashtag #ParmigiAmo. Segno che qualcosa davvero si muove.

Il Made in Italy messo a rischio dalla contraffazione

Uno studio della Coldiretti sull’esportazione dei cibi Made in Italy ha fatto emergere una quantità di prodotti che vengono spacciati per veri mentre in realtà sono fasulli.

La ricerca, presentata a Fieragricola, denuncia quella che è stata definita agropirateria internazionale, che colpisce i prodotti che più di altri rappresentano l’essenza stessa dell’italianità alimentare e che reca notevoli danni economici e di immagine alla nostra agricoltura.

Tra i più copiati, e di conseguenza danneggiati, è il Parmigiano Reggiano, il cui nome cambia a seconda dei Paesi in cui è venduto e del quale esiste anche un kit per produrlo da soli.
Ma anche i vini italiani sono al centro di questa truffa, a cominciare dal prestigioso Valpolicella, ma la lista è lunga, e ha raggiunto tutti i Paesi del mondo dove il Made in Italy è particolarmente diffuso e amato, andando anche oltreoceano in Canada, Stati Uniti, Argentina e Brasile.

Tra le vittime c’è anche la pasta: diffidare dei maccaroni mit tomatensauce o degli gnocchi rucola-parmesan prodotti in Germania, ma anche della palenta realizzata in Croazia e accompagnata dal sugo fatto con San Marzano pomidori pelati coltivati negli States.
Anche l’olio e il vino rientrano nei prodotti italiani fortemente imitati all’estero dove si possono trovare il pompeian oil del Maryland (Stati Uniti) così come il falso Chianti americano, ma anche il kressecco o il meer-secco tedeschi che imitano l’inarrivabile Prosecco e persino il Barbera rumeno che, tuttavia non è rosso, ma incredibilmente bianco.

Ad approfittare di questa opportunità sono aziende estere che, spacciando per veri prodotti irrimediabilmente falsi, si impongono sul mercato grazie alla grande notorietà del Made in Italy, anche se, ahimè, con essi non hanno nulla a che fare.

Vera MORETTI

Produzioni certificate: l’Italia è prima

Non ha eguali in Europa la crescita delle produzioni certificate che si registra in Italia, che rimane ben salda in testa a questa speciale classifica.

Rivela Istat che, rispetto alle 248 certificazioni rilevate al dicembre 2012, il Belpaese ne ha guadagnate altre 7, arrivando così a 255 denominazioni tra Dop, Igp e Stg.
L’eccellenza agroalimentare Made in Italy non teme rivali, poiché Francia e Spagna, anch’esse sul podio, sono molto lontane: i cugini d’oltralpe, infatti, sono fermi a 197 riconoscimenti, mentre gli iberici sono a quota 162.

Pensando alla crisi economica che sta interessando l’Italia, il segmento dei prodotti italiani certificati è fondamentale per rimanere a galla, e vanta un fatturato al consumo di 12 miliardi nel 2012, di cui un terzo legato alle esportazioni.

Nonostante i numeri siano più che incoraggianti, i margini di miglioramento ci sono: se, infatti, si potenziassero gli strumenti di promozione e di marketing si potrebbero portare alla luce altre Dop e Igp ancora sconosciute e intensificare la lotta alla contraffazione.

Ad oggi, infatti, il 97% del fatturato del comparto è appannaggio di venti prodotti, ovvero quelli più conosciuti, come Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Aceto Balsamico di Modena, Mela Alto Adige, Prosciutto di Parma, Pecorino Romano, Gorgonzola, Mozzarella di Bufala Campana, Speck Alto Adige, Prosciutto San Daniele, Mela Val di Non, Toscano, Mortadella Bologna, Bresaola della Valtellina Igp e Taleggio.

Per questo, la Cia, Confederazione italiana agricoltori, sostiene che “ora bisogna lavorare per sviluppare le tante certificazioni meno conosciute ma suscettibili di forte crescita; e farlo organizzando le filiere, incrementando i Consorzi partecipati da tutte le componenti produttive, rafforzando le politiche di promozione in primis sulle vetrine internazionali“.

Tolleranza zero, infine, per gli imitatori dei nostri prodotti di punta, che compromettono il prestigio del sistema alimentare italiano, sia dentro, sia fuori dai confini nazionali: “Solo in Italia la contraffazione alimentare fattura più di un miliardo di euro, con 10 milioni di chili di cibi “tarocchi” sequestrati soltanto nel 2012. Per non parlare dei danni ancora maggiori provocati dall’Italian sounding nel mondo, un business illegale che “vale” 60 miliardi di euro l’anno“.

Vera MORETTI

I formaggi italiani piacciono agli inglesi

Ciò che piace dell’Italia parte dai capolavori dell’arte per arrivare ai brand di lusso e il cibo di alta qualità.

Gli inglesi del Guardian hanno elencato, tra le cose da amare del Belpaese, anche i formaggi.
A quanto pare, infatti, oltremanica vanno forte mozzarella e ricotta, ma anche parmigiano e pecorino, tanto che la Gran Bretagna è diventato il quarto Paese per quanto riguarda l’esportazione dei nostri prodotti caseari.

A confermare questo trend, ci sono anche i dati di Assolatte, che parlano di 26.900 tonnellate di formaggi italiani esportati nel 2012, contro le 26.272 del 2011.
A fronte di questi dati, l’export l’anno scorso ha fatturato 180,35 milioni di euro.

Ma cosa piace di più, della vastissima gamma di prodotti caseari Made in Italy?
Nel Regno Unito piacciono i freschissimi e gli spalmabili, ma anche quelli a pasta dura ed erborinati, tanto che tutti i diversi tipi di formaggi hanno visto aumentare le loro vendite.
Primi della classe rimangono mozzarella e ricotta, che con le loro 12.500 tonnellate, rappresentano il 46,6% dell’export totale in quantità. Al secondo posto ci sono Grana Padano e Parmigiano-Reggiano, con 6.000 tonnellate (pari al 22,5%), seguiti dai formaggi grattugiati, con 2.900 tonnellate (10,8%).
Al quarto posto c’è il Gorgonzola (809 tonnellate), tallonato da Fiore Sardo e Pecorino (724 tonnellate complessive).

Ma in Gran Bretagna arrivano dall’Italia anche italico, taleggio, provolone, crescenza, robiola, caciotta, asiago, caciocavallo, montasio e ragusano.

Vera MORETTI

La pasta italiana è sempre più internazionale

Gli involtini primavera saranno soppiantati dalla pasta italiana?

Forse ancora no, ma il simbolo della cucina italiana piace sempre di più anche in Cina, dove l’esportazione di questo prodotto simbolo del Made in Italy è raddoppiata, tanto che si appresta a raggiungere la quota record di 31 miliardi di euro.

Questo dato è stato reso noto da Coldiretti, che ha offerto un panorama dell’agroalimentare davvero in salute.
Oltre al Paese del Sol Levante, infatti, la cucina italiana piace dovunque, soprattutto in Europa, dove è diretto il 30% dei prodotti 100% italiani, per un valore totale di 9,9 miliardi nel solo 2012.

Mangiare italiano, però, piace anche negli States, dove l’export raggiunge 2,6 miliardi, e in Asia, dove, per ora, non si va oltre i 2,4 miliardi, anche se la crescita, quest’anno, è stata del 20%.

Ma, oltre alla celeberrima pasta, quali sono gli altri “prodotti dei desideri”?
A sorpresa, il vino riscuote un gran successo nei Paesi extra europei, mentre le certezze sono rappresentate dal riso, cresciuto del 50% in Cina, e, naturalmente, da Grana Padano e Parmigiano Reggiano, in aumento del 300% rispetto al 2011.

Vera MORETTI

Paolo Zanetti vicepresidente di Federalimentare

Paolo Zanetti è vicepresidente di Federalimentare in rappresentanza di Assolatte: il quarantenne bergamasco è anche Presidente dei Giovani Imprenditori di Assolatte, Vice Presidente dei Giovani di Federalimentare e partecipa attivamente alla vita della Confindustria bergamasca.
E’ inoltre alla guida, con fratelli e cugini, di una delle più importanti realtà casearie italiane, un’azienda con un giro d’affari di 400 milioni di euro leader nella produzione di Grana Padano e Parmigiano Reggiano.

Nonostante la crisi economica e la stasi dei consumi interni, lo scorso anno latte, burro, formaggi e yogurt hanno raggiunto un fatturato record di 15 miliardi di euro, mentre sempre nel 2011 – l’industria italiana ha esportato più di 280.000 tonnellate di formaggi, per un valore che ha sfiorato i 2 miliardi di euro.

“Anno dopo anno, i nostri prodotti arrivano su mercati sempre più lontani e rafforzano la propria presenza su quelli più vicini. Sono risultati importanti – ha affermato Zanetti – ma potremmo fare di più se fossimo messi in condizione di competere ad armi pari con la concorrenza internazionale. Per questo chiediamo maggior attenzione alle nostre richieste di imprenditori e una normativa che faciliti il nostro lavoro, che tuteli l’immagine dei prodotti italiani all’estero”.

Formaggio italiano: cresce la domanda

Il consumo di formaggio si conferma in crescita: sono in aumento sia la domanda mondiale che quella interna. Ad annunciarlo sono stati il responsabile di Clal.it (società di consulenza che analizza il mercato lattiero caseario) Angelo Rossi e il rappresentante di Ismea (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare) Claudio Federici nel corso del convegno svolto questo pomeriggio a CremonaFiere.

Nel periodo gennaio-luglio di quest’anno il mercato mondiale ha fatto registrare un +3,34% rispetto al medesimo periodo del 2010: “L’Europa si conferma il principale esportatore – ha sottolineato Rossi -, anche se rispetto all’anno passato il ritmo di crescita è notevolmente rallentato”.

I principali acquirenti a livello globale sono i Paesi del Sud-Est asiatico, del Centro-Sud America e del Medio Oriente. I formaggi italiani confermano il trend continentale con un incremento del +3,93% rispetto ai dodici mesi precedenti: “è un momento piuttosto favorevole – ha commentato di nuovo Rossi -; l’unica nota dolente è rappresentata dal costante aumento delle importazioni di formaggi duri non DOP nel nostro Paese”.

L’analisi si sofferma anche sui rispettivi prezzi: Parmigiano Reggiano e, a ruota, Grana Padano occupano le prime due posizioni, davanti a simil-grana, edamer e cheddar.

Anche sul piano del mercato interno la domanda di formaggi è in progressivo aumento (+1% costante nell’arco dell’ultimo decennio), ma “a discapito della diminuzione dei consumi di latte e di burro” ha evidenziato Federici.

Tanto che negli ultimi mesi il comparto lattiero-caseario nella sua totalità ha perduto un punto percentuale. L’esperto, inoltre, ha ribadito come “oggi gli acquisti avvengono soprattutto all’interno della grande distribuzione, prima di tutto nei discount”.

Nel complesso dei formaggi consumati in Italia il 35% dei prodotti è DOP; inoltre gli italiani sembrano sempre più preferire i freschi (34% del totale) ai duri (28%). Federici si è concentrato in particolare sul modello di famiglia “alto acquirente” (ovvero quella che produce un elevato volume di consumi), ribattezzata “famiglia DOP”, che sviluppa il 27% dell’acquisto di formaggi pari a 30 kg all’anno (il triplo rispetto alla media dei consumatori); ha un paniere d’acquisto più articolato e spende 776 euro all’anno in formaggi. In coda, un’annotazione non proprio positiva: nell’ultimo anno le vendite nazionali di Parmigiano Reggiano sono calate del 3,5%, quelle del Grana Padano dello 0,5%. In crescita, specularmente, i numeri relativi ai formaggi molli e industriali.

Nuove regole per il Parmigiano Reggiano, più tutele per i consumatori

Consumatori sempre più tutelati grazie alle nuove regole sulla produzione del Parmigiano Reggiano, prodotto presente sulle tavole di tutti gli italiani e conosciutissimo all’estero e per questo fonte di taroccamenti. L’importanza dei controlli nell’intera filiera han spinto il consorzio a vagliare nuove norme più restrittive in linea con i regolamenti europei risalenti a metà dicembre 2010.

“Il sistema delle garanzie per i consumatori e per gli stessi produttori – sottolinea il presidente del Consorzio del Parmigiano-Reggiano, Giuseppe Alai – si arricchisce di tasselli fondamentali, completando quel percorso di tracciabilità che già aveva raggiunto livelli di eccellenza con l’introduzione della placca di caseina che identifica ogni forma e la materia prima dalla quale deriva, ma alla quale abbiamo puntato ad aggiungere anche quel confezionamento in zona d’origine che serve ad evitare qualunque manipolazione impropria del prodotto proprio nella fase finale del suo percorso“.

Tra le maggiori novità vi sono il confezionamento che deve avvenire entro la zona di origine o nel luogo di vendita, dunque in negozio agli occhi dell’acquirente. Il latte sarà più sicuro in quanto le vacche provenienti da altre filiere saranno poste in quarantena prima che il loro latte sia utilizzato. Il terzo elemento di novità riguarda l’innalzamento della quota di foraggio che dovrà essere prodotta all’interno dei singoli allevamenti, che passa dal 35 al 50%.

Laura LESEVRE