Obbligo di fedeltà del dipendente: norme e giurisprudenza

Un’impresa sa quanto è importante salvaguardare il proprio patrimonio, non solo materiale, ma anche immateriale, cioè relativo a processi di produzione e segreti aziendali di varia natura. E’altrettanto consapevole del fatto che non può evitare di rendere edotti i dipendenti, specialmente quelli in posizione dirigenziale. Nonostante questo, ha uno strumento di tutela, cioè l’obbligo di fedeltà del dipendente.

Il contenuto dell’obbligo di fedeltà del dipendente

La fonte dell’obbligo di fedeltà del dipendente deve essere rinvenuta nell’articolo 2105 del codice civile il quale stabilisce che: Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, ne’ divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.

La norma individua tre precisi divieti per il lavoratore, in primo luogo non può trattare affari in concorrenza con l’azienda in cui lavora, in secondo luogo gli è fatto espresso divieto di divulgare i segreti aziendali, ad esempio è fatto divieto di parlare di nuovi prodotti a cui si sta lavorando e su cui ancora non è stato depositato il brevetto, ma anche processi produttivi particolari. Il terzo divieto impone di non far uso dei segreti aziendali per danneggiare l’azienda. Nel caso in cui il lavoratore dipendente violi tali disposizioni, può essere licenziato anche senza obbligo di preavviso e si tratta di un licenziamento per giustificato motivo. La ratio della norma è aiutare l’imprenditore a tutelare la propria attività dalla concorrenza sleale che potrebbe portare via clienti, o vanificare i propri investimenti in ricerca. Non solo, vedremo che la norma viene applicata in modo estensivo.

Quando nasce l’obbligo di fedeltà del dipendente

L’obbligo di fedeltà nasce con la stipula del contratto di lavoro ed è ad esso connaturato, il contratto non deve specificarne il contenuto in modo esplicito. Il dipendente che viola tale norme incorre in responsabilità contrattuale. Tale obbligo deve essere tenuto distinto dal patto di non concorrenza che è indipendente rispetto al contratto di lavoro, si esplica dopo la cessazione del rapporto di lavoro, deve essere remunerato.

Scopri di più sul patto di non concorrenza

 

Giurisprudenza sull’obbligo di fedeltà del dipendente

Naturalmente un lavoratore licenziato senza preavviso cerca di difendersi da tali effetti e la giurisprudenza di sicuro fornisce ottimi spunti per capire la reale portata dell’obbligo di fedeltà del dipendente.

Licenziamento illegittimo

La giurisprudenza non sempre ha adottato un criterio unanime nello stabilire se effettivamente vi erano i presupposti per un licenziamento per giustificato motivo. Ad esempio la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento intimato a un dipendente a tempo parziale che nelle ore rimanenti intratteneva rapporti di lavoro con un’azienda concorrente. In tal caso per potersi verificare l’ipotesi di violazione dell’obbligo di fedeltà occorre che per il datore di lavoro si sia verificato in costanza di rapporto di lavoro un danno, un rischio concreto di essere danneggiato da parte del dipendente e che costui fosse consapevole della rischiosità del suo comportamento, inoltre deve esservi da parte del lavoratore l’animus nocendi.

Interpretazione dell’obbligo

Importante è anche la sentenza della Corte di Cassazione n° 11181 del 23 aprile del 2019, questa infatti è inerente il comportamento tenuto da una cassiera che ha utilizzato la tessera sconti di una cliente, pari a circa 24 euro successivamente riscossi dal coniuge della stessa cassiera. In questo comportamento è stata vista la violazione dell’obbligo di fedeltà perché, secondo la Corte, l’articolo 2105 contiene dei meri esempi, di un più vasto obbligo per i dipendenti di non comportarsi in modo da arrecare danno all’azienda. La sentenza dice che: nel prescrivere un dovere di fedeltà a cui è assoggettato il lavoratore, enuncia solo alcune manifestazioni di obblighi negativi come mere ipotesi esemplificative di più vasta gamma di comportamenti, anche positivi ma pur sempre riconducibili, in senso ampio ed in collegamento ai doveri di correttezza e di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., all’obbligo di fedeltà.

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito tale posizione infatti sottolinea ancora:  l’obbligo di fedeltà [..]deve intendersi non soltanto come mero divieto di abuso di posizione attuato attraverso azioni concorrenziali e/o violazioni di segreti produttivi, ma anche come divieto di condotte che siano in contrasto con i doveri connessi con l’inserimento del dipendente nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o che creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o che siano, comunque, idonee a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto.

Ulteriori sentenze

Di particolare rilevanza è anche la sentenza 7425 del 2018, sempre della Corte di Cassazione, in questo caso si conferma la condanna di un autista in congedo parentale che durante tale periodo aveva svolto, seppur gratuitamente, servizio presso un altro vettore concorrente. La sentenza 7461 del 2019 ha invece ritenuto giustificato il licenziamento di un dipendente in malattia a causa di infortunio che, durante tale periodo aveva prestato servizio presso un’altra azienda. In questo caso i giudici oltre a rilevare che vi è stata violazione del’articolo 2105 del codice civile, hanno sottolineato anche che tale comportamento era idoneo a ritardare il recupero fisico del dipendente in malattia.  Infine, i giudici hanno rilevato violazione dell’obbligo di fedeltà anche nel comportamento del dipendente che era socio al 10% e consigliere di amministrazione in una società concorrente con quella di cui era dipendente con contratto di livello “quadro”(10239 del 2019).

Si evince da questa disamina che le imprese hanno ampio spazio per tutelarsi dal comportamento infedele dei propri dipendenti.

Limiti all’obbligo di fedeltà

La giurisprudenza ha sottolineato che non costituisce violazione dell’obbligo di fedeltà il divulgare notizie inerenti illeciti compiuti dall’azienda, ad esempio evasione fiscale.  Inoltre non costituisce violazione dell’obbligo l’utilizzo delle informazioni nell’ambito della propria attività professionale se queste rappresentano il proprio bagaglio di competenze specifiche, In questo caso dei limiti vi possono essere con il patto di non concorrenza.

La nullità del patto di non concorrenza: quando si verifica e conseguenze

L’articolo 2125 del codice civile ha una formulazione chiara e determina le cause di nullità del patto di non concorrenza. Nonostante questo, le interpretazioni giurisprudenziali sono state diverse, ecco qualche chiarimento che può aiutare a capire come stipulare un patto di non concorrenza senza cadere nel rischio di nullità.

Il patto di non concorrenza

Il patto di non concorrenza è un accordo tra il datore di lavoro e il lavoratore che limita la libertà del lavoratore in seguito alla cessazione del rapporto di lavoro. Con questo accordo il lavoratore rinuncia a porre in essere attività lavorative che siano in concorrenza con quelle del datore di lavoro, inoltre si impegna a evitare di portare via la clientela all’ex datore di lavoro e a non divulgare l’insieme di conoscenze prettamente correlate all’attività svolta. Si parla anche di patrimonio immateriale dell’azienda. Naturalmente il contenuto concreto del contratto dipende dalla natura dell’attività esercitata, dalle mansioni e dal settore in cui si opera. Per una disamina completa sulla natura del patto di non concorrenza è possibile leggere l’articolo specifico che trovate QUI.

Le cause di nullità del patto di non concorrenza

L’articolo 2125 nel disciplinare il patto di non concorrenza stabilisce le cause di nullità dello stesso e in particolare è nullo l’atto che non formulato per iscritto (si considera un contratto comunque autonomo rispetto al contratto di lavoro e si può stipulare contemporaneamente al contratto di lavoro oppure successivamente, in costanza di rapporto o alla cessazione).

Il patto di non concorrenza, a pena di nullità, deve indicare il compenso che deve essere congruo e proporzionato al limite imposto e deve indicare i limiti territoriali, di oggetto e temporali del divieto di porre in essere attività in concorrenza. Mancando uno di questi requisiti il patto è nullo.

Patto di non concorrenza nullo: alcuni casi

Naturalmente in alcuni casi, pur essendovi questi elementi, il patto di non concorrenza è nullo, per capire concretamente come opera la nullità occorre far riferimento alla giurisprudenza che nel tempo ha interpretato l’articolo 2125.

Ad esempio per quanto riguarda l’oggetto: è nullo il patto di non concorrenza che limita del tutto la possibilità per il lavoratore di svolgere un’attività professionale adeguata a capacità e competenze. Ciò è stabilito nella sentenza della Corte di Cassazione 7835 del 2006 , in cui si stabilisce che il patto è nullo  quando è idoneo a comprimere l’esplicazione concreta della professionalità del lavoratore limitando la potenzialità reddituale.

Per quanto riguarda la durata, la legge prescrive che il limite massimo è di 3 anni, che può estendersi a 5 anni per i dirigenti. Nel caso in cui la durata prevista nel patto fosse superiore, questa verrebbe comunque riportata al limite previsto per legge.

Il patto di non concorrenza è nullo anche nel caso in cui preveda una clausola di recesso unilaterale in favore del datore di lavoro, questo perché esporrebbe il lavoratore a un’eccessiva indeterminatezza del patto di non concorrenza e sarebbe quindi contraria alle norme imperative (ordinanza della Corte di Cassazione 10535 del 03-06-2020).

Limiti territoriali al patto di non concorrenza

Controversa è la questione dei limiti territoriali perché il giudice di volta in volta ha determinato se l’estensione del divieto fosse o meno lecita in relazione alla possibilità per il lavoratore comunque di procurarsi il sostentamento. Ad esempio diversi tribunali hanno ritenuto lecito il divieto di svolgere attività in aziende concorrenti esteso su tutto il territorio nazionale, mentre altri casi molte sentenze hanno avallato la legittimità anche di patti che avevano un’estensione territoriale più ampia: Unione Europea.

La valutazione si fa in base alla specificità delle mansioni e alla tipologia di attività svolta dal datore di lavoro che potrebbe avere anche un’estensione territoriale ampia.  Di volta in volta, in relazione al limite territoriale connesso a quello inerente l’oggetto, i giudici hanno ritenuto congruo un compenso del 60%, del 40%, del 26%. Di converso è stato ritenuto nullo il patto che prevedeva il divieto di porre in essere “nell’intero territorio della Repubblica italiana, qualsiasi attività in concorrenza con quella del datore di lavoro, ciò perché evidentemente vi era un’eccessiva compressione delle libertà del lavoratore rispetto agli interessi del datore di lavoro”.

La legittimità dell’estensione territoriale del divieto deve essere valutata tenendo in considerazione anche gli altri elementi del patto di non concorrenza e in particolare l’oggetto, la durata e naturalmente il compenso.

Nullità del patto di non concorrenza in caso di compenso simbolico

Particolare attenzione viene posta anche al compenso, argomento ampiamente trattato QUI, anche in questo caso i giudici di merito e legittimità hanno emesso diverse sentenze e ordinanze che possono dare molti spunti di riflessione, soprattutto a coloro che devono redigerlo e non vogliono cadere in una nullità  del patto di non concorrenza. Ad esempio, il Tribunale di Milano nella sentenza 3505 del 25/11/2014 ha stabilito che un compenso pari al 60% della retribuzione prevista in costanza di rapporto di lavoro potesse essere considerata congrua. Si sono verificati casi in cui i giudici hanno ritenuto congrua una somma pari al 40% della retribuzione o 26%.

Patto di non concorrenza nullo: conseguenze

Quali sono le conseguenze della nullità del patto di non concorrenza? Un atto nulla è come se non fosse mai esistito. Se un patto di non concorrenza è dichiarato nullo è come se non fosse mai esistito, questo implica che il lavoratore può lavorare presso un’azienda concorrente senza essere sottoposto a penali o risarcimenti. Tuttavia se ha percepito delle somme può essere obbligato a restituirle, la domanda per la ripetizione delle somme erogate ha un termine di prescrizione di 10 anni. L’obbligo di ripetizione delle somme viene meno nel caso in cui dimostri che avendo fatto affidamento sulla legittimità dell’atto ha rifiutato delle proposte di lavoro.

La restituzione del corrispettivo può essere richiesta anche nel caso in cui il lavoratore violi il patto.  In realtà per valutare chi sia il soggetto effettivamente danneggiato è necessario di volta in volta comparare gli interessi delle parti, infatti se il patto è ritenuto nullo in quanto il compenso non è congruo, il datore di lavoro può essere condannato a versare ulteriori somme.

Come si calcola l’indennità per il patto di non concorrenza

icurarsi la fedeltà del proprio dipendente anche alla cessazione del rapporto di lavoro ha un costo, che si esplica nell’indennità per il patto di non concorrenza, ma come deve essere calcolato questo compenso?

Sintesi patto di non concorrenza

Si è parlato nel precedente articolo del patto di non concorrenza tra datore di lavoro e lavoratori ed è stato sottolineato che questo ha dei limiti temporali e territoriali, che devono essere esplicati nell’atto scritto a pena di nullità del patto. Abbiamo sottolineato che il patto di non concorrenza deve essere retribuito, ora vedremo come si calcola il compenso. Infine, si è accennato nell’articolo precedente, che è possibile trovare QUI, che il compenso per il patto di non concorrenza deve essere congruo e che nel caso in cui sia irrisorio il patto stesso può essere dichiarato nullo, cioè come mai posto in essere. Ciò che invece manca è una precisa indicazione su come si deve calcolare l’indennità, elemento che non chiarisce l’articolo 2125 del codice civile,  e per questo è necessario ricostruire delle regole tenendo in considerazione la giurisprudenza prodotta negli anni.

Elementi da valutare per il calcolo dell’indennità per il patto di non concorrenza

L’indennità per il patto di non concorrenza deve risultare da atto scritto, come d’altronde il patto stesso deve essere formulato per iscritto, il compenso deve essere proporzionale e deve tenere in considerazione le retribuzioni del lavoratore durante il periodo in cui il rapporto stesso era in vigore, l’estensione territoriale del divieto di prestare lavoro per aziende concorrenti, l’oggetto del divieto, nel senso che se il patto di non concorrenza prevede che il lavoratore debba semplicemente evitare determinate mansioni, ma che possa comunque stipulare un valido contratto di lavoro anche nello stesso settore, il compenso è ovviamente ridotto rispetto al caso in cui non possa esercitare alcun tipo di lavoro affine alla propria preparazione. Infine, deve tenere in considerazione la durata del patto di non concorrenza.

Il patto comunque non deve avere un contenuto tale da comprimere l’esplicarsi delle potenzialità del lavoratore.

Quelle indicate sono le linee generali, ma  vediamo nel dettaglio qual è la linea adottata per evitare di incappare in una nullità dell’atto che può molto penalizzare il datore di lavoro. Solitamente si consiglia di non stipulare un atto che preveda un compenso per il patto di non concorrenza che abbia un valore inferiore al 30% della retribuzione se l’estensione del divieto è valida solo il Italia e il 50% nel caso in cui il divieto si estenda in tutta l’Unione Europea. Un caso particolare è quello di Flavio Cattaneo che ha ricevuto un compenso di 2,1 milioni di euro attraverso il patto di non concorrenza stipulato con TIM.

Cosa dice la giurisprudenza sull’indennità per il patto di non concorrenza 2021

Tra le pronunce della Corte di Cassazione merita una menzione l’ordinanza 5540 del 1° marzo 2021 in cui si sottolinea che il corrispettivo deve essere determinato o determinabile e allo stesso tempo deve essere congruo.  Nel caso concreto, il datore di lavoro e il lavoratore nello stipulare il patto di non concorrenza avevano stabilito che  il compenso sarebbe stato di 18.000 euro da corrispondere in 3 anni, ma nel caso di cessazione anticipata del rapporto, lo stesso sarebbe stato calcolato in base a quanto effettivamente maturato.

Il lavoratore impugna il patto di non concorrenza per indeterminatezza del compenso, il giudice di merito sposa la tesi del lavoratore, ma la Corte di Cassazione ribalta tale decisione e stabilisce che in realtà il patto di non concorrenza è autonomo rispetto al contratto di lavoro e vede l’applicazione dell’articolo 1346 del codice civile che richiede la determinabilità della prestazione oggetto del contratto e di fatto tale criterio era comunque rispettato nel contratto posto in essere dalle parti. Di conseguenza l’unico elemento da valutare, in quel determinato caso era la congruità tra le somme stabilite e il sacrificio del lavoratore stesso. La Corte di Cassazione ritiene, in quel determinato caso, i compensi comunque congrui.

Il principio inerente la congruità delle somme è unanimemente accettato dalla giurisprudenza. Il compenso per il patto di non concorrenza 2021 non  deve essere sproporzionato rispetto al sacrificio richiesto in termini di limiti posti alla capacità reddituale del lavoratore e non deve essere iniquo.

La ratio del compenso per il patto di non concorrenza

Un’altra pronuncia importante è l’ordinanza 9790 della Corte di Cassazione del 26 maggio 2020. In essa si stabilisce che il patto di non concorrenza non ha natura risarcitoria, ma costituisce il corrispettivo di un obbligo di non facere (cioè non lavorare in settori in cui si può distrarre clientela al precedente datore di lavoro). Secondo i giudici di legittimità il fine del compenso è tutelare il datore di lavoro da qualsiasi “esportazione presso imprese concorrenti” del patrimonio immateriale dell’azienda tra cui c’è anche la clientela. La Corte ha ribadito che “il patto di non concorrenza, previsto dall’articolo 2125 c.c., può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro”

 Nella stessa ordinanza la Corte di Cassazione ha ribadito nuovamente che i compensi non devono essere simbolici, manifestamente iniqui, sproporzionati rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno.

Nel caso in oggetto le parti avevano pattuito in favore della lavoratrice del settore private banking un compenso di 7.500 euro annui per tre anni con divieto di svolgere esclusivamente attività di private banking, nella regione Lazio e con la stessa clientela e di conseguenza il divieto era limitato territorialmente e rispettava i limiti temporali e oggettivi. Inoltre secondo la Suprema Corte il divieto era strettamente correlato al danno che avrebbe ricevuto l’azienda. Di conseguenza il patto è ritenuto valido dalla Corte di Cassazione e la dipendente sanzionata perché non aveva rispettato i limiti previsti dal patto di non concorrenza.

Il patto di non concorrenza tra datore di lavoro e lavoratore

Ogni azienda ha il suo patrimonio di conoscenze, tecniche e ricerche, si tratta spesso di beni immateriali che però hanno un valore economico davvero rilevante, e che devono essere per loro natura condivisi con i collaboratori. Ma cosa succede se un lavoratore decide di licenziarsi e di andare a lavorare per un’azienda concorrente? Sicuramente la prima azienda può essere danneggiata e per tutelarsi il datore di lavoro può stipulare il patto di non concorrenza.

Perché si stipula un patto di non concorrenza

L’articolo 2105 del codice civile stabilisce il dovere di fedeltà del lavoratore verso il datore di lavoro, lo stesso dovere riguarda la vita lavorativa. L’articolo stabilisce che “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”. Vi sono però settori in cui le specialità delle prestazioni svolte sono di natura tale che, anche in seguito allo scioglimento del rapporto di lavoro, si possono generare danni ingenti all’azienda se l’ex lavoratore dovesse rivelare notizie inerenti l’organizzazione e le tecniche di produzione, in pratica si tratta del Know – How, cioè quell’insieme di conoscenze acquisite durante il rapporto di lavoro, in particolare quando ci si trova in posizioni delicate o apicali, e che sono peculiarità dell’azienda.

L’esempio che può sembrare più banale è quello di una rinomata pasticceria che condivide le ricette e i segreti con il pasticcere, in seguito questo si licenzia e va a prestare lavoro presso un’altra pasticceria della zona oppure apre a sua volta una pasticceria, è ovvio che può distrarre clientela alla prima pasticceria approfittando del pacchetto di conoscenze acquisite. Il secondo esempio può riguardare aziende impegnate nella ricerca che potrebbero essere danneggiate se, prima del deposito del brevetto, un loro dipendente dovesse dimettersi e poi andare a lavorare in un’azienda concorrente. Per evitare queste conseguenze la legge stabilisce al possibilità di stipulare un patto di non concorrenza tra datore di lavoro e lavoratore.

La disciplina del patto di non concorrenza

Il patto di non concorrenza tra lavoratore e datore di lavoro è previsto dall’articolo 2125 del codice civile  che stabilisce: Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro per  il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.                                                                                              La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di  dirigenti e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata”.

La prima cosa che si nota è la formulazione negativa che va sottolineare come il patto di non concorrenza debba essere considerato un’eccezione rispetto alla regola generale che riconosce alle persone ampia libertà di agire.

La validità del patto di non concorrenza

Nonostante questo, si possono ricavare anche dalla formulazione negativa i criteri necessari per stipulare un valido accordo tra le parti;

  1.  il patto deve essere formulato per iscritto;
  2.  deve essere pattuito un compenso per il lavoratore, questo perché il lavoratore, se in seguito a tale patto non può esercitare le attività che conosce e nelle quali ha acquisito conoscenze, riceve una forte penalizzazione e questa deve essere in un certo senso compensata. La giurisprudenza non ha un unico orientamento sulla congruità, molto dipende dal singolo caso concreto, deve essere valutato il danno che riceve il lavoratore dal patto di non concorrenza e il danno che riceverebbe il datore se fossero divulgati i segreti. Deve essere considerato il compenso ricevuto per lo svolgimento delle mansioni e la portata del divieto. C’è però da dire che se il compenso non viene ritenuto congruo, ma meramente simbolico e il lavoratore dovesse impugnare il patto di non concorrenza, lo stesso potrebbe essere dichiarato nullo, con la conseguenza che cadrebbe il divieto per il lavoratore che però non dovrebbe neanche restituire le somme percepite;
  3. in terzo luogo si nota che vi sono dei limiti temporali, cioè il patto di non concorrenza tra datore di lavoro e lavoratore non può avere una durata superiore a 3 anni, tranne nel caso in cui il prestatore sia un dirigente e quindi si può estendere il divieto fino a 5 anni.

Limiti oggettivi e territoriali

La normativa sottolinea anche che il limite deve essere contenuto entro limiti di oggetto e di luogo. Sicuramente questa è la parte della norma che suscita maggiore interesse da parte degli esperti e della giurisprudenza perché, in alcuni casi basta limitare territorialmente il divieto di lavorare in posizioni in concorrenza con il datore di lavoro per evitare danni. Ad esempio la pasticceria  che si trova a Napoli può avere dei danni se il prestatore va a lavorare in una pasticceria che si trova nella stessa zona, ma di sicuro non ha problemi se il lavoratore si trasferisce a Milano e lavora in una pasticceria della zona. In tal caso la clientela non è la stessa, non può essere distratta.

Diverso è il caso di un ingegnere che lavora allo sviluppo di software, in un mondo globale infatti l’azienda può ricevere danni anche nel caso in cui il lavoratore dovesse trasferirsi da Torino a Pechino, quindi di volta in volta è necessario capire se limitare territorialmente il patto di non concorrenza risponda alle esigenze delle parti e non sia eccessivamente penalizzante per una parte o l’altra.  Per quanto riguarda il limite oggettivo, il discorso è simile perché in alcuni casi nel patto di non concorrenza basta inserire il divieto di svolgere le stesse mansioni o mansioni connesse, mentre lavorare in altri “campi affini” potrebbe non generare alcun danno.

Di fatto però il patto di non concorrenza non è un’ imposizione, è un accordo contrattuale tra le parti e fino a quando non viene impugnato, non ricade all’attenzione del giudice.

Quando si stipula il patto di non concorrenza

Il patto di non concorrenza può essere inserito all’interno del contratto di lavoro oppure può essere formulato con un accordo autonomo rispetto al primo. Per quanto riguarda i tempi, si può sottoscrivere contestualmente alla stipula del contratto di lavoro oppure successivamente e quindi durante il rapporto di lavoro, ad esempio nel momento in cui si concedono avanzamenti di carriera, oppure nel momento della risoluzione del contratto. Nel caso in cui sia nel contratto di lavoro, l’operatività della clausola comunque è posticipata al momento successivo dello scioglimento del rapporto. In molti casi la sottoscrizione di tale clausola è conditio sine qua non, cioè il datore assume un determinato dipendente solo se accetta di sottoscrivere tale clausola.